A seguito dell’approvazione del decreto legislativo 65/1999 si cominciano a registrare, da parte degli agenti che sono in procinto di chiudere il rapporto di collaborazione con la casa mandante, richieste di applicazione delle disposizioni in esso contemplate. In particolar modo la disposizione dell’art.1751 c.c., nella convinzione che essa accordi un trattamento di “fine rapporto” di maggior favore rispetto alla disciplina che si ricava dall’applicazione degli Accordi Collettivi. Da parte di taluno, infatti, vi è il tentativo di accreditare l’ipotesi secondo cui indennità fiale ex art. 1751 e indennità suppletiva di clientela ex art. 10 A.E.C. debbano calcolarsi in forma cumulativa.
E’ noto che il legislatore italiano, quando nel 1991 promulgò il Decreto Legislativo nr.303, omise di recepire la direttiva comunitaria (86/653) in modo corretto: stabiliva infatti che l’indennità di fine rapporto fosse dovuta se ricorresse “almeno una delle seguenti condizioni…”. Le parti sindacali, l’anno successivo, adeguarono gli accordi collettivi riscrivendoli, dichiarandoli non solo conformi alle disposizioni comunitarie, ma anzi ritenendoli più favorevoli all’agente; per tale ragione da preferirsi nell’applicazione, piuttosto che ricorrere alla norma codicistica già per se stessa piuttosto complicata ed oscura..
Il Decreto Legislativo nr.65 del febbraio 1999, nel dare un generale riassetto alla materia dei rapporti tra l’agente e la casa mandante ha sanato la “dimenticanza”: ora infatti testualmente dice “il preponente è tenuto a corrispondere un’indennità ove ricorrano le seguenti condizioni”. Il codice civile ora pretende la coesistenza necessaria ‘ di TUTTE le condizioni previste, non più di “almeno una” come in passato.
E’ possibile che, ad una prima lettura, l’agente si convinca di avere a disposizione finalmente uno strumento capace di “dare di più” in termini economici, rispetto a quanto previsto dagli A.E.C.. Forse abbagliato dal miraggio rappresentato dalla “media degli ultimi 5 anni fino ad un massimo di una annualità”, vista come una massa di denaro più cospicua di quella ottenibile applicando il sistema fin qui utilizzato.
Ma non è così; in realtà questa indicazione rappresenta soltanto il massimo oltre il quale non è possibile andare con il calcolo dell’importo dell’indennità finale ed esclusivamente a patto che le condizioni previste dal codice siano realizzate. E poichè devono concorrere entrambe, non solo l’indennità potrebbe alla fine essere inferiore, ma addirittura negata laddove i cosiddetti vantaggi che la casa mandante ancora ricaverebbe da quella zona non fossero reali o addirittura non ci fossero.
Se si dubita che gli Accordi Economico-Collettivi mantengano tuttora rilevanza, io credo che, pur dovendo necessariamente passare attraverso un’opera di generale ripensamento, essi mantengono ancora oggi una ragione per continuare ad essere applicati. E tale ragione sta nella chiarezza e precisione dei criteri fissati per regolare i rapporti tra casa mandante e agente, realizzando così una sistema ancora “giusto” che dà il corretto riconoscimento al lavoro dell’agente.
L’art.1751 regola l’INDENNITA’ IN CASO DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO. La norma dice: “il preponente è tenuto a corrispondere all’agente una indennità”. E ciò si legge sia nel testo di legge del 1999 (decreto nr.65), sia in quello del 1991 (decreto nr.303). E’ evidente che il legislatore , nel dettare le regole con le quali liquidare un agente, non abbia voluto regolarne una sola parte o un singolo pezzo. Ha compiuto certamente una valutazione generale e globale: a ricomprendere, nell’unica indennità di cui parla, sia un riconoscimento di carattere previdenziale sia uno a carattere, come dire, “risarcitorio” o comunque remunerativo del lavoro svolto e dei probabili vantaggi che ancora la casa mandate dovesse avere pur dopo l’avvenuta cessazione del rapporto di collaborazione.
Gli A.E.C. del 1992, firmati all’indomani della emanazione del decreto nr.303/91 a loro volta così dicono: “in attuazione dell’art. 1751 c.c., in aggiunta alla somma di cui al precedente punto I (leggasi: FIRR), verrà corrisposto un ulteriore importo (che guarda caso viene dalle stesse parti sindacali chiamato “indennità suppletiva” e parametrato sugli stessi elementi ai quali era legata l’indennità suppletiva di clientela anche negli accordi precedenti del 1988).
Questo dimostra chiaramente la diversa origine delle due indennità (legislativa e pattizia), ma anche come la singola prevista dall’art. 1751 e le due previste negli A.E.C. siano, all’atto pratico, la stessa cosa. Liquidare a parte ed in aggiunta la suppletiva di clientela sarebbe solo un arbìtrio, anche perché scelto un sistema (codice o accordi economici), lo si deve poi seguire fino in fondo. Non ritengo legittimo prendere dalle norme ciò che fa comodo per esclusivo tornaconto personale, forzando il senso e l’utilità delle stesse. La stessa Giurisprudenza di merito, del resto, ha accolto la tesi secondo la quale la suppletiva di clientela non è cumulabile con l’indennità di cui all’art.1751 perché in esso è già contemplata.
L’unica vera differenza risiede nei parametri che si vogliono utilizzare per arrivare a calcolare l’importo finale: ma la scelta deve essere esclusiva.
Se l’agente chiederà di ricorrere al calcolo previsto dagli Accordi, nulla quaestio: esiste una tabella con le aliquote percentuali da applicare.
Se invece la richiesta si rivolge all’applicazione della norma codicistica, è indispensabile allora verificare la presenza di tutti i requisiti previsti dall’art.1751 c.c. (nuova versione).
Solitamente è abbastanza logico concedere il riconoscimento del primo requisito, ovvero che sia “equo” liquidare un’indennità. Il punto cruciale concerne invece la sua quantificazione. Verifichiamo, ad esempio, lo sviluppo del fatturato.
E’ fin troppo ovvio che il collaboratore sosterrà normalmente di aver lavorato bene, ciò che non si può escludere a priori sebbene i risultati, in termini numerici, potrebbero essere in decremento. La ricostruzione del parametro va affrontata numeri alla mano. Ora, laddove essi siano dimostrativi di un calo, ma in linea con l’andamento sia del fatturato aziendale, sia, se vogliamo, con quello generale del settore, non c’è dubbio che all’agente vada dato atto di avere ben lavorato essendo riuscito a mantenere il calo nei termini accettabili che la stessa casa mandante ha registrato.
Se, al contrario, la dote ricevuta dall’agente è stata una zona che viene poi restituita a fine rapporto con i fatturati decurtati di una percentuale ragguardevole rispetto al valore iniziale, superiore alle percentuali di comparazione e quindi assolutamente con esiti che vanno oltre i cali subiti negli anni dal settore merceologico e dalla stessa casa mandante, allora quest’ultima non potrà che ridurre la somma dovuta all’agente a titolo di indennità di fine rapporto, fino, secondo me, alla sua totale negazione.
L’azienda cioè potrà invocare l’assenza del 2° requisito richiesto dalla disposizione dell’art.1751, ovvero quello “sviluppo sensibile degli affari coi clienti esistenti” .
Ma la norma dice “sviluppo sensibile degli affari coi clienti esistenti” OVVERO valutazione del numero dei CLIENTI NUOVI acquisiti negli anni. Ed è vero. Si tratta di un altro “cavallo di battaglia” dell’agente, il quale sostiene sempre di avere procurato nuovi clienti. V’è da capire però in base a quali criteri il cliente può definirsi “nuovo”. La norma non lo dice e dunque la definizione dovrà, per forza, essere convenzionale.
Esempio di criteri che si possono utilizzare per definire certi clienti come nuovi ve ne sono in quantità: quelli che tali sono davvero, perché comprano il prodotto per la prima volta. Altri lo sono perché mutano la loro configurazione societaria, altri perché mutano la loro partita iva, altri ancora perché non compravano prodotti da un certo numero di anni ed ora rifanno un ordine. Ritengo, in ogni caso, sia indispensabile avere chiarito a priori quali criteri si dovranno utilizzare per la definizione dei clienti “nuovi”.
Ciò detto, a fronte della indicazione del numero dei clienti nuovi da parte del collaboratore, non sembra pretestuoso per l’azienda controbilanciare quel dato con quelli che invece nel corso del mandato sono andati perduti: e ciò perché la valutazione deve essere complessiva ed il saldo, se possibile, attivo a favore dei clienti che, in quanto nuovi e acquisiti all’azienda, possano continuare a produrre vantaggi per la casa mandante.
Ciò dimostra, in definitiva, come il legislatore abbia dettato una disposizione terribilmente pericolosa che, secondo il mio personale parere, per la inconsistenza di elementi valutativi oggettivamente accettati da tutti, fa correre all’agente rischi enormi a fronte invece di una procedura regolata dagli A.E.C. assolutamente equa e soprattutto chiara.
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