Alcune precisazioni in tema di assegno di mantenimento

Il caso

Il Tribunale della Spezia, dopo aver dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra Tizia e Caio, aveva disposto che quest’ultimo versasse all’ex moglie un assegno pari a Euro 2.000 mensili.

Avverso tale pronuncia Caio proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Appello di Genova, chiedendo che fosse escluso l’obbligo di versare qualsivoglia assegno divorzile all’ex moglie. La Corte territoriale, rilevato che l’età di Tizia rendeva insussistente la sua capacità lavorativa e che la documentazione relativa ai redditi percepiti da Caio era scarsamente convincente, confermava l’obbligo dell’appellante di versare l’assegno di mantenimento nella misura già fissata in primo grado quantomeno fino a quando la ex moglie non sarebbe stata in possesso della somma di Euro 800.000, a lei riconosciuta con sentenza definitiva, a titolo di utile come associata in partecipazione nella farmacia dell’ex marito.

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Motivi di impugnazione

Per la cassazione della sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione l’ex marito prospettando tre motivi di doglianza.

Con primo motivo il ricorrente denunciava la violazione o falsa applicazione dell’art. 10 L. n. 74 del 1987, modificativo del disposto dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970. Il ricorrente sosteneva, in particolare, che la Corte distrettuale, pur essendo tenuta a valutare l’intera consistenza del patrimonio dei due coniugi ricomprendendovi qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, non avrebbe considerato, al fine di determinare l’entità dell’assegno di divorzio, il totale ed esclusivo godimento della casa coniugale da parte dell’ex moglie, il suo completo disinteresse al mondo del lavoro dopo la separazione, il suo grado di formazione professionale e il suo bagaglio di esperienza maturato negli anni di lavoro presso la farmacia di famiglia ed oltretutto l’esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla vita lavorativa media di una donna.

Con il secondo motivo di impugnazione l’ex marito censurava la sentenza d’appello, lamentando la violazione o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, nella parte in cui la Corte territoriale, benché nell’accertamento del diritto all’emolumento dovesse mettere a confronto le rispettive potenzialità economiche intese non solo come disponibilità attuali di beni e introiti ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore, non aveva tenuto in alcun conto il credito dell’ex moglie quale associata in partecipazione così come non aveva considerato che l’immobile abitativo apparteneva già al ricorrente in quanto era stato venduto all’asta su impulso dell’ex moglie.

Con il terzo e ultimo motivo di ricorso la sentenza impugnata veniva censurata per violazione e falsa applicazione della L. n. 74 del 1987, art. 10, modificativo del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in quanto la Corte d’appello – erroneamente qualificando il ricorrente, titolare di una farmacia, come professionista piuttosto che come commerciante – si sarebbe limitata a negare l’attendibilità della dichiarazione dei redditi dell’appellante senza disporre alcuna indagine al riguardo e basando le proprie valutazioni unicamente sull’assetto economico relativo alla separazione.

La soluzione della Corte

I Giudici della prima sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, hanno rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al rimborso delle spese relative al giudizio di legittimità sulla base delle seguenti considerazioni.

Con riferimento al primo motivo di ricorso la Corte sostiene che i giudici d’appello abbiano diffusamente motivato in ordine allo sproporzionato differenziale economico e patrimoniale esistente fra i coniugi, considerando in particolare – rispetto al momento della pronuncia, quale epoca a cui il giudice deve far riferimento ai fini dell’individuazione delle condizioni per riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile – il venir meno della capacità lavorativa dell’ex moglie a causa dell’età.

Secondo la Corte, quindi, nessuna censura può essere mossa rispetto alla mancata valorizzazione del godimento della casa familiare, non solo perché la conferma delle considerazioni compiute dal primo giudice implica l’implicita condivisione delle valutazioni dallo stesso compiute a questo specifico riguardo, ma soprattutto perché la stessa giurisprudenza ha più volte chiarito che l’uso di una casa di abitazione determinante un risparmio di spesa deve sì essere considerato ai fini di individuare la consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi, salvo però che l’immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi in questo caso di una situazione precaria ed essendo le difficoltà di liberazione un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali.[1]

Con la sentenza in esame, quindi, i Supremi Giudici ribadiscono un principio già affermato in precedenti pronunce di legittimità, secondo il quale «in sede di determinazione dell’assegno di divorzio, l’occupazione di fatto di un immobile da parte del coniuge configura utilità che fuoriesce dall’ambito valutativo proprio dei valori legalmente posseduti da ciascuno dei coniugi, rimanendo la difficoltà di liberazione dell’immobile da parte del suo proprietario un dato di fatto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali[2]

Tale occupazione, infatti, rende inapplicabile il principio di diritto secondo cui, invece, in sede di divorzio, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto dell’intera consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente, ricomprendere qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso l’uso di una casa di abitazione, valutabile in misura pari al risparmio di spesa che occorrerebbe sostenere per godere dell’immobile a titolo di locazione.

Con riguardo al secondo motivo del ricorso, la Suprema Corte, ritenendolo inammissibile, evidenzia come di tali questioni non si fosse fatto minimamente cenno nella sentenza impugnata, e afferma che, «qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione».[3]

L’art. 360 c.p.c., n. 5, infatti, nella formulazione attualmente vigente, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stata dunque interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.[4]

In conclusione, in merito al terzo motivo di ricorso, Giudici Supremi affermano che «in tema di divorzio, l’art. 5, comma 9, l. n. 898/1970, non impone al Tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di tale esigenza, in forza del principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza».[5]

L’esercizio del potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra, infatti, nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche.

La Suprema Corte esclude, infatti, che esista un rapporto di correlazione necessaria, come pretende il ricorrente, fra l’esito dell’apprezzamento della congerie istruttoria disponibile e l’esercizio del potere discrezionale di svolgere, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite la polizia tributaria, nel senso che in tanto il giudicante possa qualificare come inattendibili le dichiarazioni reddituali a lui prodotte in quanto egli abbia disposto indagini patrimoniali al riguardo. Una simile interpretazione pretende di far discendere la valutazione delle dichiarazioni dei redditi e delle prove documentali relative ai redditi delle parti non dallo scrutinio che ne faccia il giudice ma dal risultato delle indagini esperite.

Al contrario, invece, anche in queste controversie la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, parimenti discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione.

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Note

[1] Cfr. in questo senso Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223.

[2] Cfr. Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223; Cass. civ. sez. I, 3 ottobre 2005, n. 19291; Cass. civ. sez. I, 28 dicembre 2010, n. 26197.

[3] Cfr. Cass. civ. sez. I, ord. 13 marzo 2018, n. 6089; Cass. civ. sez. I ,18 ottobre 2013, n. 23675.

[4] Così si è pronunciata la Corte in Cass. SS.UU. civ., 7 aprile 2014, n. 8053.

[5] In senso conforme Cass. civ. sez. I, 6 giugno 2013, n. 14336; Cass. civ. sez. I, 18 giugno 2008, n. 16575; Cass. civ. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861; Cass. civ. sez. I, 21 maggio 2002, n. 7435; Cass. civ. sez. I, 21 giugno 2000, n. 8417.

n dottrina, si veda: DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, 1995; SESTA, Diritto di famiglia, Padova, 2003; CECCHERINI, I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia e nel fallimento, Milano, 1996; DOSSETTI-MORETTI-MENOTTI-PASTORI, L’assegno, la pensione e gli altri diritti (Le conseguenze patrimoniali del divorzio), Piacenza, 2003.

Sentenza collegata

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Avv. Mazzei Martina

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