Danni da amianto e accertamento della responsabilità del datore
La pronuncia della Suprema Corte conferma la decisione del giudice del gravame di Firenze, riconoscendo la responsabilità del datore di lavoro per la malattia insorta in seguito all’esposizione del lavoratore all’amianto e ritenendo irrilevante la presenza di altre concause, quali il fumo di sigaretta o altre patologie pregresse del dipendente.
La Corte fa applicazione del criterio del più probabile che non, il quale era stato oggetto di contestazione tramite il ricorso in Cassazione da parte delle società ricorrenti (succedutosi nella titolarità dell’impresa), che lamentavano il mancato utilizzo del criterio scientifico, a favore di un ragionamento basato sulla probabilità logica e non statistica.
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Il “più probabile che non” sopperisce all’assenza di certezza
I giudici di legittimità hanno chiarito che, qualora le leggi scientifiche non permettano un accertamento del nesso oltre ogni ragionevole dubbio, il giudizio deve svolgersi alla luce del criterio del più probabile che non, valorizzando, in relazione al singolo caso, quelli che sono gli elementi di conferma e escludendo i possibili fattori alternativi.
Nel caso in esame, definito con sentenza n.19270/2017, è stata raggiunta la prova dell’utilizzo costante di due agenti patogeni (tra cui l’amianto), e la mancata adozione delle misure di prevenzione idonee a scongiurare o, quanto meno, mitigare il rischio di insorgenza di patologie. La Corte ha altresì specificato che è sufficiente che il datore preveda tale rischio, non essendo necessario, ai fini della configurazione della sua responsabilità, la previsione dell’insorgere della malattia.
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Il principio era già stato espresso dalle Sezioni Unite
La sentenza richiamata si inserisce nel novero di numerose altre pronunce in materia; invero, nonostante l’amianto sia stato formalmente vietato solamente nei primi anni Novanta, i rischi connessi al suo utilizzo erano noti già dalla metà degli anni Cinquanta; i primi interventi normativi si sono avuti con il DPR n.303/1956 e il DPR n.1124/1965. In particolare, la pronuncia in esame conferma l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2008, con la sentenza n.576, in materia di trasfusione di sangue infetto, in cui però non veniva rilevata la presenza di concause.
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