L’utilizzo da parte della pubblica amministrazione di strumenti negoziali in cui la dimensione finanziaria costituisce un elemento essenziale del rapporto, rappresenta ancora oggi un tema particolarmente delicato, soprattutto in ragione delle componenti di alea e rischio finanziario che caratterizzano tali istituti e che, in misura più o meno rilevante, possono condizionare, se non addirittura subordinare, l’effettivo raggiungimento delle finalità di pubblico interesse originariamente stabilite.
In prima approssimazione ci si intende riferire ai rapporti negoziali in cui la provvista di capitale da parte del contraente si qualifica come un obbligo strumentale all’adempimento di una (diversa) prestazione principale che costituisce l’oggetto vero e proprio del contratto concluso con l’amministrazione. In questo senso, in alcune delle forme negoziali tipizzate dal legislatore, l’apporto finanziario appare come una sorta di obbligazione implicita, neppure menzionata dal contratto. Nel contempo, tuttavia, la provvista finanziaria assicurata dal contraente costituisce una delle condizioni essenziali all’esecuzione della sottostante (cfr. infra) prestazione principale.
Così, a lungo si è ritenuto che la contrattualizzazione degli aspetti finanziari (cosiddetto closing finanziario) strumentali alla prestazione principale richiesta dall’amministrazione fosse questione di interesse del solo contraente e dell’eventuale terzo finanziatore. D’altra parte, diversamente ragionando, cioè attribuendo un’evidenza esplicita alla dimensione finanziaria del rapporto principale, si sarebbe dovuto giocoforza collocare il contratto concluso con l’amministrazione nell’alveo dei negozi sottoposti alla disciplina vigente in materia di attività finanziarie. Con la conseguenza, peraltro, di dover restringere il novero dei potenziali contraenti ai soli soggetti giuridicamente qualificati come imprese esercenti attività finanziaria (soggetti iscritti nell’elenco previsto ex art. 106, d.lgs. n. 385 del 1993, testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) come, allo stato attuale, accade laddove si ricorra al contratto di locazione finanziaria.
Al contrario, per la maggior parte degli strumenti negoziali posti a disposizione dell’amministrazione, la scelta del legislatore è stata nel senso di finanziarizzare il rapporto sul piano sostanziale senza però alterarne la natura commerciale, almeno dal punto di vista delle disposizioni in materia di attività finanziarie e di intermediazione finanziaria. Ciò, tuttavia, ha solo dislocato altrove la negoziazione finanziaria indispensabile alla realizzazione dei beni o dei servizi di interesse dell’amministrazione, in tal modo occultando molte delle fondamentali questioni che la finanziarizzazione, sebbene implicita, di un rapporto comunque determina.
Come noto il tema riguarda in particolare – anche se non esclusivamente – le molteplici forme che il legislatore riconduce agli istituti di partenariato pubblico-privato, dunque ad un ambito affrontato da tempo ed in modo approfondito anche in dottrina, come si dirà meglio in seguito. Tuttavia, la questione interessa qualsiasi rapporto negoziale in cui l’oggetto del contratto venga esteso oltre una certa durata temporale e ciò determini la necessità di una provvista finanziaria a carico del contraente. In quest’ipotesi i rapporti economico-patrimoniali connessi alla prestazione principale subiscono, necessariamente, una finanziarizzazione e ciò determina l’emersione di questioni suscettibili di incidere sul grado di certezza e prevedibilità degli stessi rapporti e, quindi, sulla loro effettiva natura, al di là del nomen iuris negoziale di volta in volta utilizzato.
In altri termini, la dimensione finanziaria propria di numerose forme negoziali di interesse dell’amministrazione – come detto, determinata dalla provvista, implicita o esplicita, di capitale congiunta ad una determinata estensione temporale del rapporto – comporta l’emersione dei concetti di rischio e di alea (peraltro, con notevoli conseguenze anche su un piano più propriamente civilistico) che non possono non essere valutati, inter alia, alla luce dei canoni di legalità e di buona amministrazione. Ciò, a maggior ragione, nella prospettiva della pubblica amministrazione contemporanea dove, appunto, legalità e buona amministrazione si intrecciano in modo indissolubile – e talvolta indistinguibile – nel risultato che l’amministrazione è tenuta a raggiungere.
L’utilizzo da parte della pubblica amministrazione di strumenti negoziali a contenuto prestazionale, tipizzato, pur tuttavia caratterizzati da una significativa componente finanziaria, ancora oggi rappresenta un tema particolarmente delicato e, per certi aspetti, critico. D’altra parte, neppure gli interventi più recenti del legislatore sembra abbiano apportato particolare chiarezza. Più ancora delle incertezze indotte da un quadro normativo in perenne mutazione, tuttavia, l’aspetto di maggior criticità è forse determinato da una ancora non piena valutazione e consapevolezza della natura profondamente finanziaria di tali strumenti, la quale comporta l’attribuzione di una componente strutturale di incertezza che, nel tempo, può condizionare in misura più o meno rilevante la possibilità stessa di conseguire le finalità di pubblico interesse che mediante tali strumenti si intendono perseguire.
Il ricorso a tali istituti, dunque, richiede alle amministrazioni interessate una valutazione – prodromica alla definizione delle modalità di perseguimento del fine pubblico – del rischio che a tali formule negoziali è connaturato.
Senza soffermarsi, dunque, sui singoli istituti compresi nell’ambito delle molteplici forme di partenariato, se non per quanto strettamente necessario, di seguito si affronteranno le determinanti che ne caratterizzano la natura giuridica anche al fine di comprendere se ed a quali condizioni, proprio per caratteristiche di rischio che li connotano, gli stessi evidenzino momenti di potenziale criticità rispetto al modello di amministrazione orientata al risultato.
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