Appare particolarmente interessante e ricca di spunti questa recente sentenza del Consiglio di Stato, pubblicata il 26 gennaio 2022, che definisce un intricato contenzioso relativo alla selezione per l’accesso ai Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi Dentaria per l’a.a. 2018/2019.
La vicenda
Con ricorso in primo grado al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio viene contestata la mancata ammissione della ricorrente al corso di studio d’interesse all’esito della relativa procedura selettiva.
Principale oggetto di gravame sono alcuni dei quesiti somministrati dei quali viene asserita la formulazione errata, ambigua, contraddittoria o fuorviante, nonché la determinazione ministeriale dell’offerta formativa (numero di posti disponibili a livello nazionale per le immatricolazioni) dichiarata da parte attrice inferiore alle capacità ricettive degli Atenei nonché frutto di una istruttoria carente e ritenuta pertanto illegittima.
Il ricorso è assistito da domanda cautelare di ammissione con riserva della ricorrente, che viene però respinta dal giudice di primo grado. L’ordinanza cautelare di rigetto del T.A.R. Lazio viene a sua volta impugnata e quindi riformata in sede di appello dal Consiglio di Stato, che accoglie l’originaria domanda cautelare, ordinando di conseguenza l’ammissione della ricorrente al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di Palermo. Per effetto di tale provvedimento cautelare, la ricorrente viene quindi immatricolata con riserva ed inizia il suo percorso formativo che la porta a conseguire, negli anni di iscrizione, un certo numero di cfu e a superare un congruo numero di esami di profitto «utili a superare i primi tre anni».
Nel frattempo, però, il T.A.R. Lazio decide nel merito il ricorso di primo grado, rigettandolo. Avverso la sentenza di primo grado (pubblicata il 12/10/2020) viene quindi proposto reclamo al Consiglio di Stato e nell’appello, oltre ai motivi già dedotti in primo grado, viene affermata anche l’improcedibilità del ricorso medesimo (negata dal T.A.R.) per sopravvenuta carenza d’interesse, avendo la ricorrente già ottenuto il “bene della vita” al quale aspirava per effetto dell’immatricolazione con riserva seguita alla già citata pronuncia cautelare.
La decisione del Consiglio
Dei principali motivi addotti a sostegno del ricorso e dell’appello, il Consiglio di Stato non condivide alcuna delle censure relative alla formulazione dei quesiti, ma accoglie l’appello ritenendo fondato il rilievo relativo alla determinazione dell’offerta formativa.
Infatti, richiamando ancora una volta la propria precedente sentenza n. 5429 dell’11 settembre 2020 con la quale il Collegio ha annullato in via definitiva “la determinazione normativa dell’offerta formativa di cui al Decreto Interministeriale 28 giugno 2018 n. 524”, ritenendo non adeguato e frutto di un’istruttoria carente il numero dei posti messi a bando per l’anno in questione[1], i giudici di secondo grado rilevano la legittimità e la correttezza dell’analogo rilievo contenuto nell’appello in questione.
Secondo i giudici, l’annullamento giudiziale del provvedimento ministeriale (atto generale) di determinazione del numero dei posti disponibili per l’ammissione ai corsi in esame svolge «effetti erga omnes, atteso che si tratta di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può sussistere per taluni e non esistere per altri». E tanto vale a già di per sé a «determinare la riforma della sentenza di primo grado».
Ma è questa l’unica ragione per la quale l’appello viene accolto. Sugli altri motivi dedotti in ricorso, infatti, il Collegio si esprime negativamente, rigettandoli.
In primo luogo le censure relative alla formulazione dei quesiti, pur se sorrette da una dettagliata perizia di parte, non vengono condivise dal giudice amministrativo il quale rileva che, «in sede di sindacato sulla formulazione dei quesiti di queste prove», il proprio ruolo consista nell’effettuare una mera valutazione di attendibilità delle scelte operate dagli esperti nominati dal Ministero, senza poter affatto «sostituire il proprio giudizio, o quello di terzi, alle scelte degli esperti» medesimi.
Il Collegio osserva come sia ravvisabile addirittura un “eccesso di potere giurisdizionale” nell’ipotesi in cui l’accertamento del giudice si concretizzi nella «oggettiva sostituzione della volontà dell’organo giudicante a quella dell’Amministrazione».
Appare quindi interessante ciò che viene specificato in ordine ai limiti del riscontro giurisdizionale di legittimità richiesto su atti – come i quesiti oggetto di contestazione – che siano espressione di «discrezionalità tecnica o mista»: in tale ipotesi, infatti, il vizio di legittimità è ravvisabile soltanto in caso di «veri e propri errori, che possano ritenersi accertati in modo inequivocabile in base alle conoscenze proprie del settore di riferimento (ferma restando la non erroneità di scelte discrezionalmente compiute, in rapporto alle peculiari finalità delle prove da espletare)».
Se invece – come nel caso in esame – i quesiti contestati appaiono al giudice semplicemente formulati in maniera poco chiara e precisa, senza tuttavia essere caratterizzati da un «incontrovertibile errore» o da una «palese irragionevolezza che (…) consentirebbe di ritenerne viziata la formulazione», il vizio di legittimità non sussiste e compito del giudice è quello di limitarsi semplicemente a rilevare l’assenza del difetto invalidante, senza addentrarsi in valutazioni che si estendano «all’opportunità o alla convenienza degli atti stessi, o (…) al merito di scelte tecniche opinabili».
Peraltro i giudici osservano pure che, quand’anche i rilievi sui quesiti fossero accolti, questo non consentirebbe in maniera automatica l’attribuzione di un punteggio ulteriore alla (sola) ricorrente e la meccanica conseguente assegnazione alla stessa di una posizione in graduatoria utile a farle superare la relativa “prova di resistenza” e ad ottenere l’ammissione al corso d’interesse.
Ancora più interessante e degno di nota è ciò che i giudici affermano, nella sentenza in esame, in ordine alla censura «inerente alla mancata declaratoria di improcedibilità del ricorso in sede di prime cure» sulla quale pure si fonda l’appello.
Il Collegio, infatti, nel sottolineare la netta separazione esistente tra il processo cautelare e il giudizio di merito, condivide le motivazioni con le quali il T.A.R. Lazio non ha accolto la richiesta di improcedibilità, rimarcando che il processo cautelare, quale «fase autonoma e distinta nell’ambito del giudizio di impugnazione, non [è] in grado di consumare il rapporto processuale principale».
Ne discende che l’ammissione con riserva disposta in esecuzione della misura cautelare mantiene un carattere squisitamente “interinale” ed avviene «a rischio e pericolo del beneficiario», senza che ne derivi alcun consolidamento nella sua posizione giuridica.
Da ciò consegue che tale misura – e gli effetti che ne derivano – possa essere annullata/caducata dalla sentenza che definisce il giudizio nel merito anche nell’ipotesi (quale quella in esame) che la ricorrente/appellante abbia già compiuto atti di carriera, superando un numero di esami utili per essere ammessa agli anni successivi del corso stesso.
I giudici, infatti, rilevano che «il cosiddetto “numero chiuso”, per le immatricolazioni in questione, è connesso non all’esigenza di acquisizione di un ulteriore titolo idoneativo, ma alla ravvisata necessità di contenere il numero degli immatricolati al primo anno di corso». Ne consegue che «il mero superamento di alcuni esami» non può «rappresentare ragione sufficiente per riconoscere (…) l’effettività del titolo alla cui acquisizione erano volte le prove oggetto di controversia».
Il Collegio sottolinea ancora che le «regole del concorso – e le connesse esigenze di par condicio, nonché di adeguata preparazione dei futuri medici – impongono, infatti, la massima cautela nel disporre ammissioni “con riserva”, tenuto conto del significato di tale espressione, da intendere come subordinazione dell’efficacia del giudizio cautelare alla pronuncia definitiva di merito, dalla quale soltanto può discendere il consolidamento della posizione, originariamente acquisita in via interinale».
Pertanto, l’ammissione con riserva non comporta di per sé né il venir meno dell’interesse alla definizione del ricorso nel merito né la possibilità di riconoscere in capo al soggetto beneficiario una sorta di “legittimo affidamento” in ordine all’esito del ricorso medesimo.
Del resto, se così non fosse, alla misura cautelare – emessa d’urgenza – si riconoscerebbero effetti irreversibili che non sono affatto tipici di questa fase del processo.
Ciò nonostante va rilevato che in passato non sono mancate decisioni – anche dello stesso Consiglio di Stato – di segno opposto rispetto ai principi appena evidenziati, con le quali, in controversie analoghe a quella oggetto del ricorso in questione e trovandosi di fronte ad una immatricolazione con riserva disposta in esecuzione di un provvedimento cautelare, i giudici hanno dichiarato l’improcedibilità del ricorso per cessazione della materia del contendere, con conferma degli effetti dell’immatricolazione nel frattempo conseguita.
In conclusione, soltanto le future pronunce del giudice amministrativo potranno darci indicazioni sul consolidamento dell’uno o dell’altro orientamento giurisprudenziale in materia.
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[1] Con la suddetta sentenza il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittima la determinazione del contingente degli immatricolabili al Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia per l’a.a. 2018/2019, così come definito dall’allora Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, perché compiuta in base ad una istruttoria erronea e lacunosa e in violazione di norme costituzionali e della UE, rilevando, in particolare, il disallineamento tra il fabbisogno di professionalità espresso dal sistema sociale e produttivo e l’offerta formativa universitaria.
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