Ancora sull’insussistenza del fatto contestato nelle ipotesi di licenziamento previste dal “nuovo” art. 18 della Legge n. 300 del 1970, c.d. Statuto dei lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 32 della Legge 28 giugno 2012, n. 92.

Nel nuovo sistema introdotto dalla c.d. Riforma Fornero l’insussistenza del fatto è il necessario presupposto per l’applicazione della tutela reale .
Considerati gli intenti manifestati dal legislatore di allora, dovrebbe considerarsi ipotesi residuale.

Ma non parrebbe così, Anzi diventa punto centrale per l’applicazione della Riforma.

Notavamo in un nostro precedente saggio ,pubblicato su questa Rivista, dal 30/04/2013,all’ indirizzo http:/www.diritto.it/docs/34973, che con tale enunciato potevano intendersi più significati.

Uno,più banale, da escludersi senz’altro, quello che comportava la circostanza che il fatto contestato,inteso come fatto materiale,storico, non esistesse. Ipotesi questa non verisimile, che cioè il datore di lavoro avviasse un procedimento disciplinare nell’assenza di un comportamento ,erroneamente supposto come reale.

Più ragionevolmente si poteva intendere l’insussistenza del fatto che si qualificasse come giusta causa o giustificato motivo [soggettivo o oggettivo] , ma che , all’esito delle indagini e procedure prescritte dalla legge non presentasse tutti gli elementi costitutivi del “fatto”.(1)

Ma anche si poteva intendere insussistenza del fatto come diversa qualificazione dello stesso.Restano,però, da tracciare i limiti tra esistenza del “fatto rilevante per l’ordinamento giuridico” e “ diversa qualificazione del fatto”.

Da ultimo non può escludersi che contestato un fatto ,nel corso o all’esito del procedimento, si rilevi l’esistenza di un fatto diverso. (2)

Ma forse la natura più rispondente all’enunciato, su visto, va individuata in quelle clausole particolari spesso utilizzate dal legislatore [ per lo più consapevole della complessità e mutevolezza della realtà socio/giuridica sottostante o a volte non determinato a fare una scelta univoca] che vengono definite come clausole generali o clausole flessibili o , anche, clausole elastiche.

In dottrina vedi Rescigno Diritto Privato Italiano ,Jovene ,1990: <Il metodo e lo stile delle «fattispecie» generali ed astratte cerca di garantire la certezza…. ma di affidare allo stesso tempo al giudice un sufficiente margine di libertà nell’adattare la previsione legale al caso concreto, che ha sempre qualche nota di singolare originalità rispetto allo schema normativo. La libertà del giudice risulta accresciuta quando il sistema utilizza con larghezza nozioni che tocca al giudice riempire di contenuto, per farne poi applicazione nel decidere la controversia. Si chiamano «clausole generali» le norme che utilizzano concetti rivestiti dei caratteri descritti: la correttezza (v. gli artt. 1175 e 2598, n. 3), la buona fede (artt. 1337, 1358, 1366, 1375, 1460, cpv.), il buon costume (v. l’art. 31 prel. e gli artt. 5; 23, 4° co., 25, 1° co., 634, 1343 e 1354; 2031, cpv.; 2035), la diligenza ora riguardata come ordinaria diligenza (v. l’art. 1341, 1° co.), ora come normale diligenza (art. 1431), più spesso come la diligenza del buon padre di famiglia (v. l’art. 1176, e inoltre gli artt. 382, 1° co., e 703; 1001; 1587, 1768, 1804, 1961, cpv.; 1710, 2392 e 2407), la sensatezza della persona (art. 1435).Il discorso sullo stile legislativo va oltre il profilo della tecnica più conveniente da usare nello scrivere i codici e le leggi (che è problema oggi largamente avvertito, non già nel senso illuministico di una “scienza della legislazione” da costruire, ma piuttosto ……per le finalità di “delegificare” in alcuni settori, e di usare criteri uniformi nella redazione delle leggi). L’uso delle «clausole generali» può essere giustificato e raccomandato per consentire l’adeguamento delle norme e del sistema alle mutate situazioni sociali ed economiche, ma può pure prestarsi, nelle mani di una magistratura debole, a piegare il diritto alla ideologia di una classe o di un gruppo>.

Che ci si possa trovare nel nostro caso di fronte ad una clausola generale ha la controprova certamente nel fatto che le varie soluzioni proposte dai giudici nei singoli casi non potranno non andare al vaglio della Consulta, mentre il tenore letterale <sussistenza o insussistenza del fatto> sembrerebbe mera questione di merito insindacabile in sede di legittimità.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ( Cass. 14-3-2013 n. 6501, Pres M.La Terza- Rel.A.Manna), riepilogando gli elementi dell’istituto della clausola elastica, traccia il confine ,all’interno di essa tra l’aspetto del fatto e l’aspetto del diritto,ravvisando appunto nell’operazione che compie il giudice di merito ,dando contenuto alla clausola generale, una operazione che vorremmo da parte nostra, sulla scorta di teorie moderne del tipo Kelseniane, definire “normativa”:< l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche…non sfugge alla verifica in sede di legittimità,poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento..>.

C’è forse in questa visione , secondo la Corte,anche una esigenza di nomofilachia.

La Cassazione definisce il tema:< Mentre l’interpretazione delle norme a struttura rigida o definitoria non pone seri problemi di delimitazione del sindacato di legittimità, ben più difficoltoso è il distinguere giudizio di fatto e giudizio di diritto quando si passi ad interpretare norme elastiche o clausole generali..>.

Quindi, continua affermando che :< la soluzione implica una brevissima digressione … sulla natura dell’interpretazione nomofilattica, muovendo dalla giurisprudenza di questa S.C. proprio in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.

Come altre volte statuito (v., solo fra le più recenti, Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 13.12.2010 n. 25144), si tratta di nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, configura attraverso disposizioni, di minimo contenuto definitorio, che delineano un modulo generico che ha bisogno di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro violazione o mancata applicazione è, quindi, denunciabile in sede di legittimità, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza e ricostruzione dei fatti che specificano il parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di merito, incensurabile innanzi alla Corte Suprema se privo di errori logici o giuridici.>

Conclude quindi :< L’opinione contraria non solo sottrarrebbe all’opera di nomofilachia proprio le norme (quelle c.d. elastiche) che più esprimono l’assetto valoriale d’un dato ordinamento giuridico e che, proprio per la loro marcata variabilità assiologica, più di altre necessitano di un’unificazione interpretativa, ma ridurrebbe l’attività della Corte Suprema alla mera individuazione, a livello generale, del significato da assegnare al testo normativo, al punto che la soluzione nel caso concreto sottopostole sarebbe solo un effetto secondario della prima operazione, quasi un non voluto sottoprodotto.>

Circa l’interpretazione correttamente la Corte afferma:< in termini sostanzialmente analoghi si esprimono sia la teoria analitica sia quella ermeneutica dell’interpretazione: interpretare un testo normativo non vuol dire descrivere ciò che esso rivela, ma ascrivere ad esso un contenuto semantico, che non si trova già preconfezionato nella norma, ma ha bisogno dell’opera dell’interprete che lo sceglie – appunto – tra i molteplici significati possibili attraverso un procedimento dialettico in cui norma, fattispecie astratta e fatto interagiscono.>.

<Tale premessa è sicuramente più coerente con l’opinione tradizionale (che risale ai più autorevoli studi che siano stati compiuti sulla funzione delle Corti Supreme) secondo cui spetta al giudice di legittimità verificare se il fatto ricostruito in sede di merito sia stato correttamente ricondotto alla norma poi applicata. Non a caso, tanto l’art. 360 c.p.c. quanto l’art. 606 c.p.p. rendono denunciabile per cassazione non solo la violazione o l’inosservanza di norme di diritto, ma anche la loro falsa applicazione.>

E conclude : <Sempre nella medesima prospettiva il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto è stato individuato nella distinzione tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché – sia detto in breve – ogni qual volta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore……….. si è in presenza d’una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d’azione della Corte Suprema.>.

Il quadro delineato da questa sentenza della Suprema Corte si attaglia perfettamente alla fattispecie della “insussistenza del fatto” prevista dall’Art 18 Stat.Lav., dove non può non ravvisarsi un forte intreccio del fatto e del diritto(3) che ha finito per mettere in difficoltà e dottrina e giurisprudenza.

In tali clausole,infine, data la carenza di contenuti definiti, potrebbe ravvisarsi,come accennavamo sopra, l’affidamento di una funzione di supplenza alla magistratura da parte dello steso potere legislativo, forse in difficoltà.

 

NOTE

(1) Dicevano appunto :< L’ipotesi considerata è quella, secondo appunto la lettera della legge, in cui “l’insussistenza del fatto contestato” determina “[l’insussistenza] degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa”. Secondo altra regola interpretativa potrebbe dirsi, al contrario, che “se il fatto contestato sussistesse” “sussisterebbero gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa”. Ravvisiamo quindi una forte interconnessione tra il “fatto” e “il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa”. Ne consegue, nel caso, una identificazione tra fatto e giustificato motivo soggettivo o giusta causa.>.

(2) Dicevamo:< Un datore contesta ad un lavoratore una rissa nei reparti di lavorazione. Nel corso dell’istruttoria disciplinare si accerta che si è trattato di rissa fuori dei reparti di lavorazione. Potrebbe, salvo i limiti su visti, darsi luogo a una conversione del licenziamento da giusta causa a giustificato motivo.,,,,Sempre con riferimento all’ipotesi formulata potrebbe invece accettarsi che si era trattato soltanto di atto comportante una sanzione conservativa (alterco con altro operaio).

(3) V.Tarello L’interpretazione della legge,Giuffrè 1980,pag.33:< La interpretazione della legge e la descrizione (o,come anche si dice, <ricostruzione>) dei c.d. fatti ( comportamenti o situazioni) interagiscono e sono sovente inestricabilmente intrecciate:tanto che si parla di <interpretazione>,sovente,per riferirsi ad entrambe.

Avv. Viceconte Massimo

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