Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha interpretato elasticamente il disposto di cui all’art. 21-nonies, della Legge n. 241 del 07 agosto 1990, specificando le ipotesi per le quali è consentito il superamento del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo illegittimo.
Prima di entrare nel merito della sentenza, è opportuno riprendere il dettato normativo secondo il quale ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 1, della Legge n. 241/90 “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’ articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Con l’art. 14, comma 1, della Legge n. 15 del 2005, il legislatore ha introdotto nello stesso articolo il comma 2-bis al fine di precisare ed aggiungere che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
Secondo una interpretazione letterale della sopra richiamata normativa sembrerebbe, quindi, che il termine dei diciotto mesi non trovi applicazione soltanto nelle ipotesi in cui il provvedimento da annullare sia stato adottato in occasione di “false rappresentazioni dei fatti” o “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci” posti in essere soltanto in occasione di “condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicate”.
La questione posta al vaglio del Consiglio di Stato ha scaturito il dubbio circa l’applicabilità dell’inciso “per l’effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” alle sole “dichiarazioni sostitutive di certificazione dell’atto di notorietà false o mendaci” o anche alle “false rappresentazioni dei fatti”.
A tal proposito, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha statuito che l’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 deve essere interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi è consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
b) sia nel caso in cui l'(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.
Il Collegio è giunto a tale conclusione avvalendosi dei seguenti rilievi:
a) sul piano testuale (e, prima ancora, rigorosamente grammaticale e sintattico), il sintagma “per effetto di condotte”, che introduce una causa efficiente e postula, sul piano logico, una predicazione nominale, appare riferibile esclusivamente al predicato (appunto, nominale) “false e mendaci” (con più lungo discorso, reso verosimilmente necessario dalla sottigliezza dell’argomento: il doppio aggettivo, che esprime, per giunta, una endiadi, sottintende di necessità – in quanto seguito da complemento di causa efficiente – un verbo copulativo: come a dire: dichiarazioni [che siano, o risultino o appaiano, et similia]”false e mendaci”, per effetto di determinate condotte causali);
b) se così è (alla luce della postulata correttezza grammaticale dell’enunciato), il predicato è riferibile esclusivamente alle “dichiarazioni sostitutive” (di certificazione o di atto di notorietà), non alle “rappresentazioni” del precedente inciso (che la norma, appunto, postula già “false”, indipendentemente dalla evocata causa di tale falsità): ché – a diversamente opinare – la formula linguistica andrebbe insomma, con scarsa plausibilità ricostruita con riferimento a “false dichiarazioni […] false” (o mendaci);
c) che nella medesima direzione conduce la distinta, per quanto sottile, semantica della “rappresentazione”, a fronte di quella della “dichiarazione”: la prima, come già soggiunto, nominalizza, a differenza della seconda, l’esito di azione propriamente agentiva, che postula un soggetto nel dominio della propria condotta finalizzata: con il che – mentre della “dichiarazione” si rende plausibile e pertinente il riferimento esplicito alle “condotte” causali (qui, qualificate nei sensi della loro concorrente rilevanza de jure poenali) – la “rappresentazione” ingloba, nel suo significato, l’azione consapevole del determinatore;
d) in ogni caso – sul (decisivo ed assorbente) piano teleologico – è del tutto evidente (alla luce delle considerazioni esposte supra, che non vale richiamare) che il legislatore abbia inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela) agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte, risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle condotte di falsificazione che – per il mezzo della loro introduzione all’interno del procedimento – sono tipicamente suscettibili di violare disposizioni penali: come dimostrato dalla esplicita salvezza in explicit delle “sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”);
e) che tale sia la corretta interpretazione della norma, discende – del resto – dal rilievo che, a sposare l’alternativa proposta esegetica, la erronea rappresentazione dei presupposti per l’adozione del provvedimento risulterebbe fonte di implausibile e valorizzato affidamento anche quanto fosse intenzionale o dolosa: ciò che fa palese l’anfibologia del riferimento alla falsità: la quale allora: e1) in quanto caratterizzi le (dolose) rappresentazioni di parte, evoca la mera “non verità” (o non corrispondenza alla realtà effettuale); e2) in quanto, per contro, si riferisca alle (qualificate) dichiarazioni – non a caso assunte sotto la responsabilizzante egida della sanzione, penale o amministrativa che sia – evoca propriamente il mendacio (che, non a caso, viene utilizzato nella formula legislativa, con il chiarito riferimento alle dichiarazioni sostitutive).
Secondo i Giudici di Palazzo Spada, quindi, il richiamato inciso “per l’effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” è riferibile esclusivamente alle false o mendaci dichiarazioni sostitutive di certificazione dell’atto di notorietà.
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