“È ravvisabile l’ingiusto profitto proprio del delitto di cui all’art. 646 c.p. nel fatto del soggetto che – malgrado la revoca assembleare della carica – continui a comportarsi da amministratore del condominio (creando così una gestione parallela a quella del nuovo designato), reputando la relativa delibera illegittima al punto da invitare i condomini dissenzienti a sottoscrivere un documento in suo sostegno).”
Così ha deciso la Corte di Cassazione penale, sez. II, con sentenza del 10 luglio 2013, n. 29451.
Il fatto che ha dato origine alla lite giudiziaria, attiene ad un amministratore di condominio (di seguito indicato come Sig. x), che viene revocato da tale incarico con apposita delibera dell’assemblea condominiale. Però, nonostante tale revoca, il Sig. x continua ugualmente a comportarsi come se fosse ancora l’amministratore dello stesso stabile, in quanto riteneva illegittima la delibera che lo aveva revocato.
L’ex amministratore viene condannato dal Tribunale di Cagliari per “appropriazione indebita aggravata dalla documentazione concernente il condominio.”
La Corte d’appello di Cagliari conferma tale decisione.
Il Sig. x ricorre dunque in Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza gravata, sostenendo con il primo motivo, (così come riassunto dalla Corte di cassazione) che tale sentenza aveva erroneamente ravvisato l’ingiusto profitto (ex. art. 646 c.p.) che avrebbe ottenuto l’amministratore comportandosi come tale nonostante la revoca decisa dall’assemblea. Revoca che l’amministratore stesso considerava illegittima. Il Sig. x avrebbe, dunque, posto in essere “una sorta di gestione parallela” con il nuovo amministratore. Il ricorrente però precisa che questa situazione che si è venuta a creare, è “una mera ipotesi che, per di più, non avrebbe comportato nemmeno un qualche vantaggio economico”. Questo motivo viene dichiarato manifestamente infondato dalla Corte di cassazione.
Per la Corte di cassazione, affinché si possa configurare il delitto dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. è sufficiente che l’ingiusto profitto sia anche solo “potenziale, non essendo necessario che esso si realizzi effettivamente”. E ciò, precisa la Corte, si comprende facilmente dal tenore letterale della suddetta norma (che si caratterizza per la presenza del dolo specifico).
Recita, infatti, l’art. 646 c.p., che: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso,è punito, a querela della persona offesa (…)”.
Per i giudici di legittimità, dunque, al fine della configurazione del suddetto delitto basta solo che il soggetto “agisca per”, ritenendo pertanto sufficiente “il mero intento di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, a prescindere dalla sua concreta realizzazione”.
Inoltre, con una precedente decisione (Cass.:40119/2010), la stessa corte ha statuito che non è necessario che tale delitto abbia natura patrimoniale.
La Corte di cassazione conferma la decisione dei giudici di merito, a mezzo della quale hanno stabilito che il comportamento dell’amministratore, consistente nel “continuare ad amministrare il condominio”, nonostante la revoca dall’incarico, costituisce il perseguimento del “fine di profitto”, La stessa Corte precisa, altresì, che con tale comportamento il Sig. x era posto nelle “condizioni di accampare ulteriori pretese o comunque di rendere più difficoltosa (se non paralizzare) l’amministrazione del condominio stessa”. E tale comportamento – che per la Corte di legittimità costituisce una “oggettiva constatazione” e non una “mera ipotesi” – veniva, dal Sig. x materialmente posto in essere continuando a comportarsi come se fosse ancora lui l’amministratore del condominio. Infatti, aveva ritenuto illegittima la delibera con la quale l’assemblea lo aveva revocato, “al punto da invitare i condomini dissenzienti a sottoscrivere un documento in suo sostegno”.
La Corte dichiara manifestamente infondato questo primo motivo di impugnazione.
Con il secondo motivo (da intendersi anch’esso così come riassunto dalla Corte) si denuncia che la sentenza gravata non aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato, nonostante il difensore avesse espressamente sollecitato tale pronuncia.
Anche questo motivo viene dichiarato manifestamente infondato. La Corte di cassazione, da un lato, ribadisce una sua precedente pronuncia (Cass.: 709/1971) con la quale ha statuito che quello dell’art. 646 c.p., “è reato istantaneo che si verifica con la prima condotta appropriativa”. Dall’altro lato, però, precisa che nella fattispecie oggetto di giudizio, la consumazione del reato non si è verificata quando l’amministratore è stato revocato ed è stato poi nominato uno nuovo, bensì nel momento in cui l’amministratore stesso “volontariamente negando la restituzione della contabilità che ancora deteneva (nella consapevolezza di non avere più alcun titolo per trattenerla presso di sé) si è comportato uti dominus rispetto alla res”.
Nel caso di specie, tale momento coincide con quello in cui gli è stato notificato il precetto, “che dava seguito all’ordinanza del Tribunale di Cagliari che gli ordinava la consegna della documentazione”. Dunque, iniziando il calcolo della prescrizione dal giorno di notifica del precetto all’ex amministratore, il giudice di legittimità stabilisce che essa non era ancora maturata alla data della sentenza impugnata (art. 157 c.p., comma 1, ed art. 161 cpv, c.p.).
Un altro importante insegnamento che si può ricavare dalla sentenza in rassegna, attiene ad un consolidato principio di diritto, noto sin dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 32 del 22 novembre 2000 – secondo il quale l’inammissibilità del ricorso impedisce “il formarsi di un valido rapporto di impugnazione” con l’ulteriore conseguenza che sarà preclusa “la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p...” (Tra le tante: Cass.:24688/2008, Cass.: 18641/2004).
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