Appunti sulla nuova disciplina della liberazione anticipata (legge 19 dicembre 2002,n. 277, pubblicata in G.U. 21.12.02, n.299) (di Fabio Fiorentin) e Postilla in contraddittorio (di Alberto Marcheselli)

Redazione 02/01/03
 

Qui l’indirizzo email di f.fiorentin@dirittopenitenziario.it
Qui l’indirizzo email di alberto.marcheselli@dirittopenitenziario.it

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Dopo l’approvazione in via definitiva da parte della Camera dei deputati del progetto di legge n.3361, è stata promulgata la legge 19 dicembre 2002,n.277, che riforma profondamente l’istituto della liberazione anticipata, introducendo importanti novità in tema di presupposti, procedura e competenza per la concessione del beneficio penitenziario in questione che, com’è noto, attualmente consente al condannato, ricorrendo i presupposti previsti dalla legge, di ottenere una riduzione sulla pena irrogata nella sentenza di condanna in ragione di 45 giorni per ogni semestre espiato (art. 54 L. 26 luglio 1975, n.354, c.d. “Ordinamento Penitenziario”) .

Gli aspetti caratterizzanti la trama normativa che compone la nuova disciplina della liberazione anticipata possono essere sintetizzati nei termini che seguono:

1)L’art.1 della legge 277/02 sostituisce il comma 8 dell’art.69 L. 354/75, con il seguente testo :” [il magistrato di sorveglianza] provvede con ordinanza sulla riduzione di pena per la liberazione anticipata e sulla remissione del debito, nonché sui ricoveri previsti dall’art. 148 del codice penale”.

L’art.69 citato, rappresenta com’è noto, la “carta d’identità del magistrato di sorveglianza”, dal momento che contiene l’elenco delle materie attribuite alla competenza del citato organo giurisdizionale.

La competenza a decidere sulla concessione del beneficio viene, dunque, trasferita dall’assise collegiale ( il tribunale di sorveglianza, secondo il precedente quadro delle competenze stabilito dall’art. 70 O.P., ora modificato dall’art.2 della riforma) alla competenza dell’organo giurisdizionale.

La legge in rassegna, peraltro, se consegue indubbiamente un apprezzabile risultato sul piano della conguenza interna dell’istitituto liberatorio (esteso all’unica misura alternativa che ne era finora esclusa: appunto, l’affidamento in prova al servizio sociale), paga, tuttavia, un significativo tributo sul versante delle garanzie processuali delle parti, in rapporto ad un istituto che può comportare – in caso di esito favorevole al condannato – alla concessione di una riduzione di pena tale da incidere in modo determinante sull’aspetto quantitativo della potestà punitiva dello Stato: basti, infatti, riflettere come la riduzione di pena attualmente prospettata (45 giorni di “sconto” per ogni semestre di pena espiata) è suscettibile di elidere fino a un quarto della pena definitiva complessivamente irrogata al condannato, equivalendo pertanto, in termini di beneficio, alla concessione di un’attenuante da parte del gudice della cognizione.

Quanto al primo aspetto evidenziato, quello cioè della consonanza della liberazione anticipata “riformata” rispetto ai principi ricavabili dal tessuto normativo preesistente su cui si è innestata, va osservato – come già accennato – che il legislatore della legge n. 277/02 ha dilatato l’applicabilità dell’istituto premiale fino al punto di massima estensione possibile, compatibile con il mantenimento dei principi fondamentali in tema di certezza della pena e di tendenziale intangibilità del giudicato penale, consentendone il riconoscimento anche a soggetti non sottoposti a detenzione ordinaria in carcere.

Il legislatore della legge 277/02 ha, dunque, preso netta posizione in favore della tesi minoritaria di quanti ritenevano che il percorso evolutivo dell’istituto della liberazione anticipata verso l’accentuazione della finalità di reinserimento sociale e l’estensione dell’applicabilità del beneficio, ammessa ex lege per i soggetti in detenzione domiciliare, fondasse già nella previgente disciplina la possibilità di estendere il beneficio alla fattispecie dei condannati in espiazione della pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale.

Quanto al secondo profilo considerato, cioè il ravvisato vulnus alle garanziae defensionali del condannato, esso pare derivare dal nuovo art. 69 bis che il legislatore ha introdotto nel corpo della L. 354/75 (cfr. art. 1, comma 2, legge 277/02), il cui testo così recita:”1. Sull’istanza di concessione della liberazione anticipata, il magistrato di sorveglianza provvede con ordinanza adottata in camera di consiglio senza la presenza delle parti, che è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale.2.Il magistrato di sorveglianza decide non prima di quindici giorni dalla richiesta del parere al pubblico ministero, e anche in assenza di esso.3.Avverso l’ordinanza di cui al comma 1 il difensore, l’interessato e il pubblico ministero possono, entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione, proporre reclamo al tribunale di sorveglianza competente per territorio.4.Il tribunale di sorveglianza decide ai sensi dell’art. 678 del codice di procedura penale.Si applicano le disposizioni del quinto e del sesto comma dell’articolo 30 bis.” .

Con tale ultima previsione, la nuova legge prevede opportunamente che del collegio giudicante non faccia parte il magistrato di sorveglianza che ha emesso l’oridinanza impugnata (art. 30 bis commi 5 e 6 O.P.).

Emerge chiaramente dall’esame della norma sopra riportata come il legislatore abbia modellato un procedimento camerale dalla peculiare disciplina, caratterizzato com’é dall’assenza di effettivo contraddittorio tra le parti e dalla pronuncia del magistrato di sorveglianza attraverso un provvedimento (che viene qualificato sotto il nomen iuris di ordinanza) che è “comunicato o notificato senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale” ai fini dell’eventuale successiva impugnazione (nelle forme del reclamo) all’istanza sovraordinata (tribunale di sorveglianza).

Il contraddittorio nella procedura descritta dall’art. 69 bis O.P. é dunque sostanzialmente assente di fronte al magistrato di sorveglianza: la norma si premura infatti di inserire il richiamo alle norme sul procedimento di sorveglianza soltanto con riferimento al procedimento di reclamo celebrato davanti al tribunale di sorveglianza.

E’ pur vero che la norma di nuova introduzione non vieta comunque alle parti la produzione di memorie, di tal che si realizzerebbe una possibilità di interloquire – quantomeno a livello documentale – con l’organo giudiziario deputato alla decisione.

Peraltro, una lettura sistematica della normativa induce seri dubbi su tale possibilità.

Infatti, la facoltà per le parti del procedimento camerale di produrre memorie è prevista dall’art. 666, comma 3, c.p.p.

Tale norma procedurale è richiamata dal testo vigente dell’art. 678, che estende l’applicazione della procedura camerale sopra indicata ai procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza e ad una serie di materie attribuite alla cognizione del magistrato di sorveglianza, tra le quali non figura però la liberazione anticipata.

Dunque, può legittimamente revocarsi in dubbio che le parti possano depositare presso la cancelleria del magistrato di sorveglianza memorie o note difensive, non essendovi alcuna norma che lo consenta ed essendo difficilmente praticabile la strada dell’estensione in via interpretativa della disciplina dell’art. 666 c.p.p. al procedimento introdotto dall’art. 69 bis O.P.: infatti, dove il legislatore della riforma ha voluto mantenere la procedura di cui alle norme del codice di procedura penale, lo ha espressamente indicato (cfr. art. 69 bis comma 4), e pertanto l’omissione di analoga previsione con riferimento al giudizio di fronte al magistrato di sorveglianza non può essere integrata in via interpretativa, anche perché una tale operazione sembra contraria alla ratio legis di conferire la massima speditezza possibile al procedimento di concessione della liberazione anticipata quantomeno in prime cure.

Il mancato raccordo della riforma della liberazione anticipata con le norme del rito processuale penale non consente peraltro alle parti di avere conoscenza dei tempi della procedura.

Infatti, una volta che l’interessato abbia formulato l’istanza al magistrato di sorveglianza, questi non è tenuto a dare notizia alle parti dell’inizio del procedimento, incombendogli l’unico, limitato, onere di formulare la richiesta al PM per il parere sull’istanza.

E’ difficile comprendere, del resto, come il PM potrà rendere il citato parere, non avendo disponibilità del fascicolo e non essendovi più la tradizionale illustrazione del giudice relatore in camera di consiglio.

In ogni caso, il legislatore mostra di non tenere in grande conto la valenza del predetto parere, poiché consente ed anzi sembra implicitamente imporre al magistrato di sorveglianza, decorsi quindici giorni dallla richiesta, di decidere prescindendone.

E’ facile, allora, prevedere che , nella prassi, anche la parte pubblica, già tradizionalmente marginalizzata nella fase dell’esecuzione penitenziaria ed oberata da altre incombenze, si ritirerà di fatto dal procedimento monocratico, omettendo di formulare il parere facoltativo richiestogli.

In definitiva, ne consegue che, anche a ritenere ammissible che le parti abbiano la facoltà di presentare al giudice memorie o scritti difensivi, in realtà esse non saranno mai messe nelle condizioni di interloquire efficacemente, nemmeno con il mezzo scritto, per il motivo che non avranno contezza del procedimento se non nel momento in cui questo sarà definito con la pronuncia dell’ordinanza magistratuale.

La lacuna, in termini di garanzie difensive, sotto il duplice profilo sopra rilevato, è grave ed evidente.

Con specifico riferimento alla rilevata assenza di contraddittorio nella sequenza procedimentale che sfocia nella decisione del magistrato di sorveglianza, non è, infatti, possibile nemmeno sostenere la tesi del mero differimento della garanzia del contraddittorio pieno alla fase succesiva al procedimento incardinato presso il magistrato monocratco: che verrebbe a costituire, in altri termini, una sorta di “fase cautelare” o sub-procedimentale rispetto al procedimento di sorveglianza celebrato avanti al tribunale di sorveglianza successivamente all’impugnazione dell’interessato o del PM.

Tale impostazione non può, invero, ritenersi corretta per il motivo che il momento processuale, imperniato sull’udienza avanti al tribunale di sorveglianza, è prefigurato dalla legge quale scansione meramente eventuale rispetto al primo procedimento (viene attivata, appunto, soltanto in seguito a reclamo contro l’ordinanza del magistrato di sorveglianza).

Non vi è, peraltro, nemmeno alcun rapporto di necessaria interdipendenza tra le due fasi procedimentali.

Il procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. non può, in altri termini, essere ricostruita quale fattispecie a formazione progressiva, dove il pronunciamento del magistrato si colloca quale dato presupposto in relazione al successivo completamento della sequenza procedimentale da parte dell’organo collegiale, come avviene, ad esempio, nelle fattispecie previste in tema di concessione della sospensione della pena da parte del magistrato di sorveglianza (art.47 comma 4 L.354/75) ovvero dell’applicazione del differimento dell’esecuzione della pena (art. 684 c.p.p.).

Ad ogni effetto, infatti, la decisione del magistrato di sorveglianza si perfeziona scaduti i termini per la proposizione dell’impugnazione, senza che sia necessaro alcun intervento ulteriore a perfezionare la validità ed efficacia dell’atto decisorio in esame.

Neppure pare possa fondatamente sostenersi la natura amministrativa del procedimento camerale presso il magistrato di sorveglianza, ciò che giustificherebbe – forse – la compressione delle garanzie in termini di contraddittorio processuale (a somiglianza, ad esempio, di quanto avviene nel caso dei procedimenti per la concessione dei permessi ai detenuti, in rapporto ai quali la garanzia del procedimento di sorveglianza ai sensi dell’art. 678 c.p.p. è assicurata soltanto nella fase – eventuale – del reclamo avanti al tribunale di sorveglianza ai sensi degli artt. 30 bis e ter O.P.) .

Infatti, la concessione della liberazione anticipata non soltanto è estranea alla gestione del detenuto sotto l’aspetto amministrativo o meramente trattamentale (peraltro, la previsione della concedibilità del beneficio agli affidati al servizio sociale ne è la più evidente conferma), ma incide direttamente sulla vicenda del rapporto esecutivo penale, e dunque, sulla libertà personale.

La natura giurisidzionale del procedimento di concessione del beneficio è dunque conseguenziale a quanto sopra rilevato, oltre che avvalorato dall’argomento storico, costituito dal previgente tenore della norma di cui all’art. 70 O.P., che attribuiva i procedimenti ex art. 54 O.P. alla cognizione del tribunale di sorveglianza che decideva seguendo le regole del rito processuale (art.678 c.p.p.).

Secondo l’opinione dottrinale maggiormente accreditata, inoltre, la concessione della liberazione anticipata, una volta accertata la sussistenza dei presupposti di legge, costituisce un vero e proprio diritto per il condannato (v. infra).

Se ne deve forzatamente concludere la contrarietà del procedimento, così come disegnato dall’art. 69 bis O.P., rispetto al principio della garanzia del contraddittorio pieno e paritario sancita dalla formulazione dell’art. 111, comma 2, Cost. e del diritto difesa (art.24, comma 2 , Cost.) .

Tale ravvisata frizione con i principi costituzionali emerge in tutta la sua evidenza qualora si ponga attenzione alla ravvisata natura giurisdizionale dell’attività del magistrato di sorveglianza nel momento in cui conosce dei procedimenti di cui all’art. 69 bis O.P., ed alla natura, altresì, del beneficio penitenziario nella specie concesso o rifiutato: vero e proprio diritto del condannato una volta accertai i presupposti di legge e tale, se concesso, da incidere immediatamente sulla pena in espiazione e, dunque, sulla libertà personale del soggetto.

Sotto quest’ultima prospettiva il vulnus defensionale appare – se possibile – ancor più grave poiché la legge non prevede l’assitenza tecnica del difensore .

Quest’ultima figura è dunque una parte meramente eventuale del procedimento monocratico, poiché l’art.69 bis O.P. prevede la necessità della difesa tecnica soltanto in rapporto alla fase dell’impugnazione avanti al tribunale di sorveglianza.

Dallo stesso tenore della formulazione letterale dell’art. 69 O.P. pare comunque escludersi la possibilità – come già osservato – di interpretare la norma nel senso dell’applicablità, ai procedimenti di cui all’art. 69 bis, del procedimento camerale di cui agli artt. 666,678 c.p.p. ovvero quello di cui all’art. 14 ter O.P. , così da salvare – sotto il rilevato profilo – la conformità costituzionale della norma in esame.

La seconda possibilità è, infatti, esclusa in radice dallo stesso legislatore che ubi voluit, dixit, e che, al comma 6, dell’art. 69 O.P. elenca i procedimenti in relazione ai quali il magistrato di sorveglianza decide osservando la procedura di cui all’art. 14 ter (si tratta, com’è noto, dei procedimenti in seguito a reclamo afferenti a decisioni della direzione dell’istituto penitenziario concernenti il lavoro intramurario e l’esercizio del potere disciplinare).

Ma anche la prima possibilità è preclusa dalla volontà del legislatore, che ha omesso di modificare nel senso indicato gli artt. 666 e 678 c.p.p., inserendo tra le materie oggetto di decisione con il rito processuale camerale anche i procedimenti di cui all’art. 69 bis O.P. .

Accrescono le rilevate perplessità sulla compatibilità costituzionale e sistematica di tale ravvista caduta verticale di garanzie difensive due ulteriori elementi di novità rispetto alla disciplina previgente, introdotti dalla nuova legge e riscontrabili dal raffronto, rispettivamente, tra il testo dell’art. 678 c.p.p. e quello dell’art. 69 bis O.P; e dall’esame comparato dell’art.54 O.P. con la nuova norma introdotta di cui all’art. 47 comma 12 bis, O.P. (art. 3 legge 277/02).

Sotto il primo aspetto considerato, la norma del codice processuale penale ammetteva che il procedimento di concessione della liberazione anticipata potesse essere avviato per iniziativa ufficiosa ( in omaggio alla visione del giudice di sorveglianza quale figura giurisdizionale di mediazione e filtro tra realtà penitenziaria e prospettive risocializzanti offerte ai detenuti, dei quali il magistrato di sorveglianza è altresì il “ombudsman”:cfr. art. 69, commi 2 e 5 O.P.); la nuova disciplina pare escludere tale possibilità , laddove, al suo primo comma, lascia chiaramente intendere che il magistrato di sorveglianza procede “sull’istanza” di parte.

Appare, premessa tale considerazione, illogico aver sottratto la concessione della liberazione anticipata all’autonomo impulso del giudice di sorveglianza (che avrebbe forse meglio sopportato, in quanto verosimilmente attivato pro reo, la carenza di garanzie defensionali) ed avere, al contempo, sottratto alla parte cui si attribuisce l’iniziativa esclusiva ogni possiblità di interloquire efficacemente con l’organo decidente.

Ulteriore elemento distonico con il drastico ridimensionamento delle garanzie defensionali determinato dalla nuova normativa è rappresentato dalla considerazione, già sopra svolta, che il beneficio della liberazione anticipata, così come disciplinato dall’art. 54 O.P., è concepito nei termini di un vero e proprio diritto dell’interessato alla concessione della riduzione di pena prevista dalla legge, una volta che il giudice accerti l’effettiva sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti dalla stessa previsti.

In altri termini, deve ritenersi che il tribunale di sorveglianza non sia investito di apprezzamento discrezionale nella fase di concessione del beneficio, successivamente all’esaurimento, in senso favorevole al richiedente, della fase dell’accertamento dei presupposti normativi.

Tale ricostruzione dell’istituto è confortata dalla rammentata ratio della modifica dell’art. 54 citato, intervenuta per effetto dell’art.18 della legge 10 ottobre 1986, n.663 (c.d. legge Gozzini), che ha sostituito la dizione dell’art.54 “[la liberazione anticipata] può essere concessa” con quella “è concessa”, così accentuando, in piena conformità alla ratio del legislatore del 1986, la portata premiale del beneficio e lo spessore dei “diritti dei detenuti” di cui fa menzione il già ricordato art. 69 O.P. .

Peraltro, la norma di cui all’art.47, comma 12 bis, O.P., introdotta dalla riforma, prefigura invece il ritorno, sia pure con riferimento limitato alla concessione della liberazione anticipata ai soggetti in affidamento in prova al servizio sociale, alla discrezionalità del giudice estesa anche al momento della decisione del “se” concedere il beneficio richiesto.

La norma citata recita infatti:”all’affidato in prova al servizio sociale…può essere concessa la detrazione di pena di cui all’art. 54. Si applicano gli articoli 69, comma 8 e 69 bis nonché l’articolo 54, comma 3” .

Anche sotto detta prospettiva, al ritorno di una discrezionalità piena del giudice nella concessione della liberazione anticipata, non pare consona la correlata previsione dell’applicazione del procedimento “semplificato” di cui all’art.69 bis O.P., che priva il sistema – come sopra detto – dell’opportuno coinvolgimento delle parti nella fase istruttoria del procedimento.

Va infine aggunto che la norma dell’art. 69 bis O.P. produce in realtà riverberi negativi in tema di garnzia defensionale anche nella fase – eventuale e successiva rispetto alla decisione del magistrato di sorveglianza – del reclamo davanti al tribunale, che pure si svolge con il rito camerale di cui all’art. 678 c.p.p. (art. 69 bis, comma 4, O.P.).

Infatti, la mancata possibilità di interloquire nel procedimento camerale di competenza monocratica priva evidentemente le parti di opportuni e spesso essenziali elementi di valutazione sull’operato del giudice di primo grado e sul percorso logico- giuridico effettuato da quest’ultimo per giungere alla decisione che si intende reclamare.

Decisione che non è, oltretutto, portato della ponderata valutazione del giudicante all’esito delle argomentazioni svolte dalle parti nel contraddittorio, né delle sollecitazioni di queste ultime nei confronti del giudice in rapporto a questioni di diritto o di fatto rilevanti nella fattispecie; ma rappresenta invece il frutto di una (neccessariamente) unilaterale valutazione dei dati istruttori acquisiti.

Ciò non può che tradursi in un correlativo indebolimento delle posssibilità di esercitare un’efficace difesa in sede di procedimento collegiale, presso la cui sede le parti si troveranno – per la prima volta – nell’opportunità di svolgere le proprie istanze processuali.

2) Con riferimento al risultato pratico immediato che il legislatore intende perseguire ( finalità deflattiva del carico dei tribunali di sorveglianza) esso rischia di trasformarsi in un pericoloso e deleterio boomerang, poiché realizza una sorta di seisachteia o “spostamento dei pesi” di serviana memoria, trasferendo il carico dei proceidmenti per la concessione della liberazione anticipata dal tribunale al magistrato di sorveglianza.

Tuttavia, il legislatore non pare aver tenuto conto che detta operazione interviene tra organi giurisdizionali sì formalmemte distinti, ma nella realtà composti dalle stesse persone fisiche: che agiscono tanto quali organi giurisdizionali incardinati presso gli uffici di sorveglianza del distretto, quanto in qualità di componenti togati del tribunale di sorveglianza distrettuale (art. 70 comma 3, O.P.) .

L’applicazione della riforma nel concreto della dinamica del rapporto tra competenze monocratiche e collegiali dei magistrati di sorveglianza dirà in quali termini lo spostamento di competenza potrà positivamente influenzare la speditezza complessiva dei procedimenti attribuiti alla cognizione della magistratura di sorveglianza.

Deve, in proposito, osservarsi che la riforma non è stata accompagnata da alcuna previsione di un’adeguata e proporzionale revisione degli organici del personale amministrativo degli uffici di sorveglianza, ciò che è destinato inevitabilmente a ripercuotersi negativamente sulla capacità delle cancellerie di far fronte agli adempimenti istruttori, quantitativamente gravosi, connessi alle nuove competenze.

Non appare, inoltre, chiaro il senso della norma introdotta dall’art. 69 bis, comma 5, laddove stabilisce che “il tribunale di sorveglianza, ove nel corso dei procedimenti previsti dall’art. 70, comma 1, sia stata presentata istanza per la concessione della liberazione anticipata, può trasmetterla al magistrato di sorveglianza. Le istanze per la liberazione anticipata, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge presso il tribunale di sorveglianza, sono di competenza del magistrato di sorveglianza”.

La norma sulla disciplina transitoria della competenza pare escludere la facoltatività dell’adempimento del tribunale di sorveglianza di trasmissione dell’istanza di liberazione anticipata irritualmente presentata al collegio in sede di trattazione di un procedimento di competenza di quest’ultima assise.

Che la regola della trasmissione facoltativa e quella sulla competenza transitoria si applichino a momenti diversi (la prima destinata cioè a regolare il trapasso di istanze irrituali una volta che la riforma sia entrata a regime; l’altra a gestire la fase transitoria) non convince del tutto poiché il legislatore utilizza la forma “sia stata [e non già “sia”] presentata istanza per la concessione della liberazione anticipata”, presupponendo – almeno così pare di capire – un rapporto di anteriorità dell’incardinamento dell’istanza rispetto all’entrata in vigore della nuova legge.

Una lettura sistematica dei due commi in esame potrebbe suggerire che entrambi si riferiscano alla fase transitoria, e che il loro combinato disposto introduca propriamente il potere discrezionale del presidente del tribunale di sorveglianza di disporre, o meno, alla luce della valutazione del carico di lavori degli uffici di sorveglianza distrettuali, la trasmissione dei fascicoli processuali “per competenza” ai suddetti, in presenza di situazioni di scopertura o di difficoltà oggettive che rendano non opportuna detta operazione.

3)Una norma di mero raccordo è quella dettata dall’art. 2 della nuova legge, laddove inserisce nel corpo dell’art. 70, comma 1, dell’O.P. l’attribuzione al tribunale di sorveglianza della competenza in materia di “revoca della riduzione di pena per la liberazione anticipata”.

L’operazione di lifting è resa opportuna, dal momento che la riforma non introduce alcuna previsione innovativa in tema di revoca della liberazione anticipata -l’unica ipotesi di revoca della stessa essendo quella prevista dall’art. 54 comma 3 O.P.- dalla nuova formulazione dell’art. 70 O.P. (che non annovera più la competenza del tribunale in relazione alla concessione della liberaizone anticipata).

4)Previsione del tutto innovativa è – come anticipato – quella introdotta dall’art. 3 della nuova legge .

La norma citata introduce nell’art. 47 O.P. che disciplina la materia dell’ affidamento in prova al servizio sociale, il comma 12 bis, che si esprime nei termini seguenti :”all’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena di cui all’art. 54. “

La norma stabilisce inoltre l’applicazione, alla nuova fattispecie, delle modalità applicative e procedimentali ordinarie (art. 69.69 bis e 54 comma 3 O.P.) previste in tema di liberazione anticipata attinente a soggetti detenuti.

Con tale previsione, il legislatore ha consentito l’estensione del beneficio della liberazione anticipata ad un ambito – quale la messa alla prova del condannato nella società libera – che é totalmente disancorato dalla realtà penitenziaria, dove l’istituto della riduzione di pena premiale trova, invece, la sua tradizionale e consona collocazione.

La dimensione dello scarto tra il vecchio e il nuovo della riforma suscita allora notevoli perplessità, al punto da indurre la motivata convinzione che non sia affatto scontato che la liberazione anticipata prevista dall’art. 3 della nuova legge sia da considerarsi in rapporto di omogeneità con l’istituto omonimo disciplinato dall’art. 54 dell’O.P..

Pare, in altri termini, che sussistano argomenti favorevoli alla tesi della diversità di species tra gli istituti in esame, pur nella medesimezza di genus, essendo, l’una e l’altra “liberazione anticipata” definibili quali benefici penitenziari a carattere modificativo/estintivo della fattispecie esecutiva penale.

Accomunati dal nomen iuris e dall’effetto finale sul rapporto di esecuzione penale (in termini di riduzione o estinzione del medesimo, in caso di reiterate concessioni del beneficio) i due istituti divergono invece sotto importanti e – a parere di chi scrive- fondamentali presupposti sostanziali.

Questi appiaono infatti connotati da eterogeneità sotto profili non trascurabili.

Anzitutto, l’art. 54 O.P. subordina la concessione del beneficio al duplice presupposto della regolarità della condotta intramuraria ed alla partecipazione del detenuto al trattamento penitenziario; l’art. 3 della nuova legge ammette, diversamente, la concessione della liberazione anticipata con riferimento ad un unico presupposto, peraltro formulato in termini del tutto generici: l’accertata sussistenza di “comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità” della persona affidata in prova al servizio sociale.

Inoltre, secondo quanto già osservato, la liberazione anticipata ordinaria (art.54 O.P.) postula l’espiazione della pena in stato di restrizione in carcere (SS.UU. 18.6.91;Cass.,I, 14.4.93; Cass.,I, 8.6.94) o in regime di detenzione domiciliare, presuponendo uno stretto ed indissolubile collegamento tra osservazione, offerte trattamentali e positiva adesione del recluso alla proposta rieducativa; la liberazione anticipata di cui alla legge 277/02, come detto, ne prescinde completamente.

Ed ancora: il primo istituto(art.54 O.P.) è finalizzato per un verso al mantenimento della pax carceraria attraverso la prospettiva concreta e ravvicinata di un premio tangibile al detenuto (la riduzione della pena da espiare in rapporto ad ogni singolo semestre di pena espiata) sinallagmatico alla “buona condotta” da questi tenuta in carcere ed al rispetto delle norme interne; la riduzione di pena introdotta dalla legge 277/02 mira esclusivamente a favorire il reinserimento sociale del soggetto, stimolando il processo di modificazione della personalità del condannato per effetto del proficuo contatto con le offerte trattamentali messegli a disposizione dagli educatori.

La liberazione anticipata di cui all’art.3 della legge 277/02 si caratterizza per la ragione che il presupposto fondante la concessione del beneficio della riduzione di pena finisce, per la sua indetermniatezza, per costituire una tautologica riproposizione confermativa della finalità propria della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale: rappresentata dalla sua idoneità a favorire il reinserimento sociale del condannato (art. 47 comma 1, O.P.).

In buona sostanza, la riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata in caso di affidamento in prova al servizio sociale e la delcaratoria di estinzione della pena e di ogni effetto penale in esito alla prova medesima simul stant, simul cadent, essendo il presupposto dell’una il medesimo che sorregge l’altra.

Pare oltretutto difficilmente sostenibile la tesi che la ratio della nuova norma sia stata quella di rafforzare – con la prospettiva dell’ulteriore premio (rispetto al già non trascurabile vantaggio di espiare la pena in regime di sostanziale libertà personale) consistente nella riduzione del periodo da trascorrere in affidamento – la convenienza, per i soggetti sottoposti alla misura alternativa ex art. 47 O.P., di rispettare scrupolosamente le prescrizioni della misura e di impegnarsi nello sforzo di risocializzazione.

L’art. 4 della nuova legge estende, infatti, la concedibilità del beneficio anche agli affidamenti in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in relazione ai semestri successivi al 31.12.99 o in svolgimento a tale data.

Pare evidente, allora, che tale concessione non potrebbe costituire una premialità con effetto incentivante alla risocializzazione poiché si riferisce a periodi già decorsi , gestiti dai soggetti in regime di affidamento in prova a prescindere dalla prospettiva di un premio – quello previsto dall’art. 3 della legge 277/02 – che non era all’epoca in cui vennero tenute le condotte valutabili, né previsto né ipotizzabile.

Ulteriore marcata differenza tra l’istituto della liberazione anticipata ordinaria prevista dall’art. 54 O.P. e la liberazione anticipata “speciale” di cui all’art. 3 della nuova legge è rappresentata dai poteri attribuiti al giudice , in particolare con riferimento ai margini di apprezzamento discrezionale consentiti.

Mentre infatti –come sopra ricordato – l’art. 54 O.P. stabilisce che in presenza dei presupposti normativi, la riduzione della pena “è concessa”, ciò essendo chiaramente indicativo della sussitenza, in capo al detenuto, di un vero e proprio diritto ad ottenere il beneficio una volta che il giudice abbia accertato la ricorrenza dei presupposti di legge; la liberazione anticipata “speciale” di cui all’art.3 della nuova legge ha caratteri di assoluta discrezionalità nella concessione.

Infatti, pur accertata da parte dell’organo giudicante la sussistenza dell’indeterminato presupposto indicato dalla norma, il giudice comunque legittimamente “può” concedere l’invocata riduzione della pena, la libertà decisionale di quest’ultimo non essendo normativamente vincolata dall’accertamento sui requisiti effettuato preliminarmente.

A siffatto ampliamento del margine di discrezionalità attribuito al giudice fa rimando speculare l’ulteriore elemento differenziale che è dato cogliere tra i due istituti omonimi in esame: il primo beneficio è rigidamente regolato tanto sotto il profilo dei presuposti, chiaramente indicati definiti dalla norma dell’art. 54 O.P. ed ulteriormente specificati in dettaglio dal regolamento di esecuzione (art. 94 del D.P.R. 230/00); il secondo appare assolutamente vago e indeterminato sotto il profilo del presupposto sostanziale.

E’ in proposito evidente che la giurisprudenza, in primis quella di merito, dovrà assumersi il non facile compito di elaborare dei criteri-guida relativamente alla casistica in cui poter ritenere integrato il “concreto recupero sociale” dell’affidato, e quali condotte del medesimo possano considerarsi “comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità”, così come vuole la nuova legge.

5) L’estensione della liberazione anticipata alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale pone, peraltro, un ulteriore problema, concernente la questione, attualmente risolta in dottrina e gurisprudenza nel senso negativo, della concedibilità della liberazione anticipata ai soggetti sottoposti alla sanzione sostitutiva della libertà controllata.

La giurisprudenza, anche recentissima, della Corte di cassazione ha sempre radicalmente escluso tale possibilità.

E’ tuttavia evidente che la riferita tesi giurisprudenziale incontra ora fondate obiezioni alla luce dell’estensione del beneficio al periodo trascorso in affidamento in prova al servizio sociale, poiché il dictum normativo, fa venir meno ogni motivazione plausibile per negare l’applicazione della riduzione di pena ex art. 54 O.P. ( o meglio: ex art. 47 comma 12 bis, O.P.) anche alla pena espiata in forma sostitutiva.

Siffatta conclusione pare sostenibile tanto alla luce della sopravvenuta inconsistenza dell’argomento portato in contrario, fondato sulla necessità – sostenuta in passato dalla giurisprudenza – della ricorrenza dello stato detentivo del soggetto in relazione ai periodi di pena per i quali il beneficio in esame viene richiesto; quanto sul rinnovato vigore che acquista, per lo stesso motivo, la tesi che il requisito fondamentale della liberazione anticipata sia la sua finalizzazione rieducativa, quale stimolo cioè al reinserimento sociale del condannato, di tal che essa sia concedibile – a prescindere dal riferimento alla detenzione – in tutti i casi di espiazione di pena , ivi compresa dunque la sanzione sostitutiva della libertà controllata.

6)Ulteriore snodo problematico concerne, da ultimo, il profilo relativo alla definitività delle decisioni adottate dal magistrato di sorveglianza in ordine alle istanze di liberazione anticipata.

La giurisprudenza assolutamente prevalente della Cassazione ritiene infatti applicabile nel procedimento di sorveglianza, per espressa disposizione dell’art. 666 c.p.p. , il principio del “ne bis in idem”, che impone – com’è noto – al giudice, per motivi di economia processuale, di non decidere due volte sulla stessa istanza o questione sottoposta alla sua cognizione.

Ne consegue che la decisione del giudice di sorveglianza, adottata con provvedimento divenuto inoppugnabile per decorso del termine utile per l’impugnazione ovvero per l’infruttuoso esperimento di tutti i rimedi giurisdizionali contemplati dall’ordinamento, porta con sé il limite negativo della preclusione in rapporto alla riproposizione di istanza analoga a quella già coperta dalla pronuncia giudiziale (Cass.,I, n. 6112 del 11.2.95; con specifica attinenza alle decisioni sui procedimenti in materia di liberazione anticipata, Cass.,I, n. 2877 del 19.7.93, Esposito)

Con riferimento alla precedente disciplina della concessione della liberazione anticipata, imperniata sul procedimento camerale ai sensi dell’art. 678 c.p.p. celebrato avanti al tribunale di sorveglianza, la giurisprudenza maggioritaria della Cassazione aveva, in particolare, ritenuto sussistente la preclusione di cui all’art. 666 c.p.p., allorché una nuova istanza dell’interessato, priva di elementi di novità rispetto ad altra in precedenza valutata, e divenuta definitiva per carenza di impugnazione, fosse ripresentata (Cass. , I, 22.4.97, Fasoli).

Eccezione a tale principio è rappresentato dal caso di ricorrenza di fatti nuovi (quali, a es., l’interventua assoluzione del detenuto per un fatto ascrittogli :Cass.,I, 12.12.96, Laganaro), alla luce del carattere di decisione assunta “allo stato degli atti” propria dei provvedimenti adottati in seguito a procedimento di sorveglianza, secondo il principio desumibile, con riferimento ai procedimenti sottoposti alle regole dell’esecuzione penale, dal disposto dell’art. 666, comma 2, c.p.p. .

V’è da chiedersi in quali termini sia consentita l’estensione della regola del “ne bis in idem”, così come formulata nell’art. 666 c.p.p., al procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. dal momento che, come sopra meglio precisato, la peculiare disciplina introdotta dalla legge 277/02 non appartiene al genus dei procedimenti disciplinati dagli artt.666 e 678 c.p.p. citati.

Tuttavia, la regola codificata dall’art. 666, comma 2, c.p.p., pare in realtà costituire l’espressione normativizzata di un principio di economia processuale di carattere generale, e, sotto tale aspetto, non v’è ragione di negarne l’applicabilità anche nel peculiare procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. .

Il principio generale che connota i provvedimenti del giudice di sorveglianza quali decisioni assunte rebus sic stantibus consente poi, senza troppe acrobazie ermeneutiche, di ritenere applicabile anche al procedimento di cui all’art. 69 bis O.P., la possibilità di rivalutare eventuali istanze riproposte in rapporto a semestri di pena già valutati qualora siano allegati elementi di novità non presenti nelle risultanze istruttorie poste alla base della precedente decisione.

L’evenienza, atteso il carattere peculiare del procedimento – deprivato di contraddittorio – sarà probabilmente tutt’altro che infrequente.

Fabio Fiorentin

Postilla in contraddittorio (di Alberto Marcheselli)

Le articolate riflessioni che precedono rappresentano, a quanto consta, il primo tentativo ri rivisitazione sistematica della disciplina di cui alla legge 277/02.

Di tutte le conclusioni in esse rassegnate una sola non ci convince: quella che afferma la contrarietà della procedura prescelta nanti al Magistrato di Sorveglianza ai principi costituzionali chiamati a regolare il giusto procedimento (se non ci inganniamo, gli art. 3, 24 e 111 Cost.)

Non vi è dubbio che la fase della procedura che si svolge davanti al Magistrato di Sorveglianza sia irrispettosa del diritto al contraddittorio, posto che la decisione sull’istanza dell’interessato si svolge senza che esso possa interloquire in alcun modo ulteriore e diverso rispetto alla formulazione dell’istanza.

A nostro modo di vedere, tuttavia, ciò non implica affatto che siano lesi i valori costituzionali predetti.

Essi non impongono che ogni fase di ogni procedura sia improntata al pieno rispetto dei medesimi, ma (ed è cosa ben diversa) che un procedimento scandito per fasi assicuri tale rispetto riguardato nel suo complesso, purché l’esercizio del diritto di difesa non sia leso irragionevolmente difficile o subordinato a condizioni vessatorie e a preclusioni ingiuste.

Tali condizioni non si verificano assolutamente rispetto alla disciplina appena introdotta.

Per rendersene conto è sufficiente una coppia di considerazioni comparative.

La prima (comparazione interna) si fonda sul raffronto tra tale disciplina e quella previgente. Nessun sacrificio diritto di difesa viene infatti inflitto, rispetto ad essa. Il condannato (mutatis mutandis, considerazioni simmetriche valgono per il Pubblico Ministero) conserva esattamente le medesime facoltà di difesa davanti al Tribunale di Sorveglianza e si avvantaggia semplicemente della possibilità di ottenere la concessione del beneficio de plano. In pratica, rispetto al passato, la procedura in contraddittorio è azionata solo eventualmente, in caso di pronuncia sfavorevole, con un atto di reclamo. Restano integre tutte le facoltà (e financo il doppio grado di giudizio) del regime previgente, aggiungendosi solo una fase anticipata e cautelare senza contradittorio.

La seconda (comparazione esterna) si fonda sul raffronto con le altre ipotesi di decisione cautelare (rectius, sommaria) anticipata inaudita altera parte previste dall’ordinamento (dal procedimento per decreto ingiuntivo civile a quello cautelare a quello di cui all’art. 684 c.p.p., limitandosi ai primi esempi che vengono alla mente). A seguire la tesi che qui si critica, tutte tali ipotesi sarebbero divenute incostituzionali. Il diritto di difesa e il principio del contraddittorio sono senza dubbio capisaldi della cultura giuridica, ma, a nostro modo di vedere, si impongono nei limiti della ragionevolezza e della continenza rispetto all’interesse tutelato. Nella fattispecie, è proprio la possibilità di decisione anticipata a consentire decisioni rapide e immediate, di contenuto spesso favorevole (scarcerazioni immediate), con positive ricadute sulla efficienza del sistema.

ALBERTO MARCHESELLI

Redazione

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