Si è discusso, recentemente, in merito alle diverse possibili interpretazioni del concetto di “assoluta indigenza”, quale condizione per l’autorizzazione al lavoro di soggetti sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
Il dibattito trae origine da una ordinanza del Tribunale distrettuale di Milano, che ha rigettato l’appello ex art.310 c.p.p. proposto da persona soggetta a tale misura, avverso il diniego del G.i.p. sulla richiesta di autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa, sul presupposto che lo stato di “assoluta indigenza” lamentato dall’appellante, non si poteva ritenere pienamente confacente ai requisiti e limiti previsti dall’art.284, comma 3, c.p.p., il quale prevede l’autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa in favore di coloro che non possano provvedere altrimenti alle proprie indispensabili esigenze di vita, ovvero versino, appunto, in situazioni di assoluta indigenza.
La delimitazione e operatività del concetto di assoluta indigenza invero, atteso il generico tenore della norma e l’ampia discrezionalità consentita al giudicante, sono state oggetto di discussione in varie pronunce dei giudici di merito e di legittimità, che hanno prodotto diverse definizioni della relativa nozione, peraltro tuttora in continua evoluzione.
Nel passato, dottrina e giurisprudenza hanno specificato che le indispensabili esigenze di vita possono essere riferite a quelle esigenze del soggetto alle quali è necessario che lo stesso riesca a dare soddisfazione, pur trovandosi nello stato degli arresti domiciliari, al fine di “non travalicare lo scopo e la funzione del provvedimento, pregiudicando gravemente la stessa qualità della vita del sottoposto” (cfr.TERRUSI, Le misure personali di coercizione, Torino, 2000, p.124. In giurisprudenza può trovarsi un esempio nel riconoscimento, in favore del soggetto sottoposto agli arresti domiciliari, dell’autorizzazione ad assentarsi dalla propria abitazione per recarsi alla messa domenicale, posto che la misura degli arresti domiciliari può ben imporre limitazioni ai diritti del soggetto ad essa sottoposto, ma giammai sopprimerli totalmente Cass.sez.I, 27 luglio 2005, Barbieri).
Deve in definitiva tenersi conto della necessità, per l’individuo, di potere appagare le proprie esigenze, “avendo presente la sua condizione economica anche con riferimento alla sua situazione preesistente alla privazione della libertà”.
Il Tribunale milanese peraltro, in sintonia con quanto appena descritto, aveva in realtà compiutamente verificato la situazione economica del richiedente e aveva concluso per la mancanza di uno stato di “assoluta indigenza” così come previsto dall’art.284 c.p.p., per poter legittimare l’autorizzazione al lavoro.
Ciò perché, come argomentato dal Tribunale nel caso sottoposto al suo esame, sarebbe spettato ai genitori dell’imputato, giusta la disposizione di cui all’art.148 del codice civile, provvedere al mantenimento e alla soddisfazione dei bisogni primari del figlio.
La decisione del Tribunale appare così riguardosa a quanto più volte statuito dalla Suprema Corte in materia, ove si è costantemente affermato il principio secondo il quale, “unico riferimento per il giudice può essere la valutazione delle condizioni reddituali e patrimoniali del soggetto, eventualmente comprensive delle utilità economiche, anch’esse costituenti reddito personale, che siano corrisposte dalle persone obbligate per legge o per rapporti contrattuali al mantenimento del soggetto autorizzando, per motivi che prescindano dalla capacità al lavoro di questi” (cfr.Cass.sez.VI, 31 marzo 2004, Conte).
Tutto ciò dunque, porta ad escludere quello stato di “assoluta indigenza” richiesto dalla norma processuale di cui al comma 3 dell’art.284, posto che diversamente argomentando si correrebbe il rischio di estenderne eccessivamente la portata applicativa, frustrando la funzione stessa della misura ivi prevista.
Atteso peraltro il carattere ampio e mutevole nel tempo dell’espressione di assoluta indigenza, i giudici supremi hanno più volte ricondotto al medesimo concetto situazioni anche differenti da quella legata alle strette necessità di fisica sopravvivenza.
Sono così state riconosciute come tali anche le necessità di salute in genere, vitto, alloggio, educazione, vestiario, comunicazione e, altresì, “ogni altra necessità ormai ritenuta quotidiana grazie all’elevazione degli standard di vita” (“Deve infatti notarsi che il sintagma “assoluta indigenza” ha subito, nel caso de quo, quel fenomeno che la linguistica chiama estensione per innalzamento, poiché è andato a staccarsi da una concezione strettamente pauperistica per andare a coprire la situazione di chi è nell’impossibilità di dare soddisfazione ad una sempre più ampia gamma di bisogni”).
In contrasto con tale intepretazione, i giudici di legittimità hanno peraltro ritenuto non rientrante nel concetto in analisi la circostanza dell’avvenuta ammissione del richiedente all’istituto del gratuito patrocinio, atteso che i presupposti dell’autorizzazione al lavoro come “assoluti e indispensabili” debbono fare ritenere che la valutazione del giudice sia riferita a criteri di ampio rigore (cfr.Cass.sez.III, 28 settembre 2001, Fontana; Cass.sez.III, 17 novembre 1999, Verde).
Deve inoltre sempre tenersi presente, secondo la Corte, che l’autorizzazione al lavoro deve trovare altresì fondamento nella determinazione anticipata della conciliabilità del lavoro con le esigenze cautelari poste alla base della misura degli arresti domiciliari. Per tale motivo infatti, in passato la Corte aveva rigettato l’istanza di autorizzazione al lavoro in luoghi ove l’imputato, in precedenza, aveva avuto contatti con altri pregiudicati (Cass.sez.IV, 4 dicembre 1998, El Shaibany).
Quanto infine alla disamina in ordine alla possibilità o meno dell’appellabilità di provvedimenti in materia di modalità esecutive degli arresti domiciliari, la questione è stata definitivamente risolta dall’intervento delle Sezioni Unite della Corte (3 dicembre 1996, Lombardi), che si sono pronunciate per la sicura appellabilità di detti provvedimenti, escludendola peraltro nei casi di provvedimenti afferenti modifiche temporanee e contingenti, in quanto non idonei a determinare modifiche durevoli e significative allo status libertatis.
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