Numerose fattispecie concernono casi in cui si instaurano rapporti tra privati cittadini e P.A. in assenza di un valido contratto, conseguente al mancato rispetto delle procedure ovvero al difetto di forma scritta. Ne consegue che
La possibilità di agire in arricchimento anche nei confronti della P.A. ha suscitato, e suscita tutt’ora, non poche perplessità in dottrina e in giurisprudenza per almeno un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché la necessità di ricorrere all’applicazione di uno strumento predisposto dall’ordinamento per sopperire alla mancanza di un valido contratto con la P.A. è dimostrativa, di per sé, di un certo “disordine” amministrativo; in secondo luogo, l’esercizio di tale rimedio da parte del privato potrebbe costituire fonte di spese prive di copertura e per le quali diventa, quindi, necessario impegnare risorse destinate ad altri scopi.
In considerazione, quindi, della particolare natura dei soggetti interessati, la disciplina dell’azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A. ha a lungo presentato caratteri di specialità rispetto alla previsione codicistica di carattere generale.
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Riconoscimento, dalla p.a., dell’utilità dell’opera
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità ha a lungo precisato che l’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’operata o di una prestazione vantaggiosa per l’Amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da parte di questa, dell’utilità dell’opera o della prestazione. Tale riconoscimento, che sostituisce il requisito dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 cod. civ. nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure può risultare in modo implicito da atti o comportamenti della P.A. dai quali si desuma inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione promanante da organi rappresentativi dell’amministrazione interessata, mentre non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa. Siffatto giudizio positivo, in ragione dei limiti posti dall’art. 4 della legge n. 2248 all. E del 1865, è riservato esclusivamente alla P.A. e non può essere effettuato dal giudice ordinario, che può solo accertare se e in quale misura l’opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate (Cass., sez. III, sentenza n. 25156 del 14 ottobre 2008, Rv. 605225).
In particolare, per poter essere validamente esperita l’azione di arricchimento nei confronti della P.A, è stato ritenuta necessaria la sussistenza di un elemento ulteriore rispetto ai requisiti previsti dalla disciplina generale. Si tratta del riconoscimento, ovviamente da parte della stessa amministrazione, dell’utilità della prestazione effettuata in suo favore, che segnava altresì il dies a quo dal quale iniziava a decorrere il termine prescrizionale di dieci anni.
Il requisito del riconoscimento dell’utilitas costituisce, evidentemente, l’espressione dell’esigenza di evitare che la P.A. sia esposta al rischio di indebite imposizioni di una responsabilità da arricchimento, soprattutto in quelle ipotesi in cui la responsabilità conseguirebbe alla fraudolenta iniziativa di privati che, al solo fine di trarne un vantaggio economico, agiscono deliberatamente contro il volere o all’insaputa delle autorità competenti.
Già nella vigenza del codice civile del 1865 il requisito del riconoscimento dell’utilità, richiesto in materia di gestione d’affari altrui, era stato successivamente esteso anche all’azione di arricchimento.
Anche la dottrina ha evidenziato che «il c.d. indebito arricchimento della pubblica amministrazione realizza, in realtà, una figura giuridica distinta dall’art. 2041 c.c., per se riconducibile ad un principio generale di equità di cui è espressione anche l’art. 2041 […], una figura di origine giurisprudenziale che, nella sua autonomia, pone problematiche applicative diverse da quelle che suscita l’art. 2041».
Tuttavia, dottrina e giurisprudenza si mostrano fortemente divise per quanto concerne l’individuazione del fondamento, e la stessa opportunità, di questa disciplina speciale.
Tradizionalmente, si è sostenuto che la ratio di tale peculiare disciplina si spiega in base al presupposto dell’esistenza di un potere di natura discrezionale – ascrivibile in via esclusiva alla pubblica amministrazione e insindacabile dal giudice ordinario – di valutare la necessità o l’utilità dell’opera altrui («in relazione agli scopi di interesse collettivo da realizzare in concreto e al modo di realizzarli»), per cui l’azione è proponibile soltanto a condizione che vi sia stato il riconoscimento da parte della pubblica amministrazione dell’utilità della prestazione conseguita.
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