L’art. 2, comma 2 del TUIR: una vita difficile

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L’articolo affronta la dibattuta disposizione dell’art. 2 co. 2 del TUIR, che definisce la residenza fiscale. 
La Cassazione ha avuto un approccio discontinuo alla norma, mentre l’Agenzia delle Entrate ha rivendicato una sorta di ‘diritto a punire’ per partito preso.
Tra interpretazioni, più o meno autentiche, di giudici e dottori del diritto, la disposizione non ha mai perso il suo fascino, eccetto che per gli sventurati contribuenti che hanno dovuto, con quelle interpretazioni, fare i conti.
La recente delega fiscale al Governo per risolvere l’arcano, ha prodotto, tanto per complicare un po’ le cose, una nuova formulazione della disposizione, introducendo criteri come la “presenza nel territorio” del (finto) emigrante e una definizione di domicilio basata sulle relazioni personali e familiari. 
Completa il quadro una ‘revisione’ della distribuzione dell’onere probatorio per i residenti esteri manchevoli di iscrizione all’AIRE.

Indice

1. Le dispute intorno all’art. 2 co. 2 del TUIR


Se nel contesto della normativa italiana in tema di fiscalità internazionale dovessimo indicare la disposizione che più di tutte ha messo a dura prova la teoria dell’interpretazione, questa sarebbe innegabilmente l’art. 2 co. 2 del TUIR.
Su questa disposizione si sono affaccendati i giudici di merito, quello di legittimità, l’amministrazione finanziaria e le migliori menti della dottrina italiana.
L’annoso sforzo ha prodotto esiti come non mai lontani da una visione condivisa. 
Se, da un lato, l’Agenzia delle Entrate è sempre stata e continua ad essere animata da una sorta di ‘diritto a punire’ l’incauto contribuente, dall’altro, la Cassazione ha mostrato un atteggiamento che, da più parti, è stato definito ondivago.
La dottrina, dal canto suo, è anche giunta ad adombrare questioni di legittimità costituzionale in ordine alle decisioni dei giudici e ancor più, rispetto alle prese di posizione del fisco. 
Per comodità espositiva ricordiamo il testo della discordia: 
ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Ma l’avventura dell’art. 2 co. 2 TUIR non si è fermata alle diatribe di fatto e di diritto, che hanno prodotto spesso esiti eclatanti, a partire dalla storica sentenza della Cassazione n.15/2000, che trasformò il povero Pavarotti in un pericolosissimo evasore fiscale acquartierato in deprecabili paraggi monegaschi – anzi, proprio una più recente sentenza della Cassazione, la n. 21695/2020 (anche qui si parlava di cantanti) ha rimarcato che il fatto di essere dei personaggi famosi, è di per se stesso indice di pericolosità fiscale in quanto, gli artisti, individui che godono di agi economici sconosciuti ai più, dovrebbero improntare la loro condotta al più rigoroso intellettualismo etico.
L’irrequieta esistenza della norma ha raggiunto recentemente un ulteriore approdo, grazie agli auspici della legislazione delegata. Infatti, il Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 2023 ha approvato, in via preliminare, i primi due decreti legislativi di attuazione della legge delega in tema di riforma fiscale.
Il secondo di questi decreti riguarda proprio la riforma di alcuni aspetti della fiscalità internazionale.

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2. Il Governo e la delega fiscale. Poche idee ma confuse


La modifica proposta dal Governo procede niente meno che alla riformulazione dell’art. 2 co. 2 del TUIR, con una disposizione del seguente tenore: ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato ovvero che sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano in via principale le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle liste della popolazione residente.
Tralasciamo la questione, seppur non secondaria, del computo temporale, che dovrà impegnare le più fini menti matematiche nostrane, in quanto bisognerà contemperare con calcoli certosini l’ineunda disposizione con le situazioni di chi lavora in stati confinanti con l’Italia o in Italia si reca per le stesse ragioni.
Le perplessità maggiori riguardano la “presenza” nel territorio dello Stato e la definizione di domicilio.
La mera richiesta della presenza nel territorio dello Stato, dal punto di vista sia fattuale che normativo, è requisito tanto deleterio, quanto inutile. 
Deleterio perché, in un quadro di titubanza normativa come quello che aleggia intorno a questa disposizione e che ha messo e continua a mettere, di fatto, nei guai diverse persone, queste, di volta in volta, non sanno che cosa aspettarsi dai giudici di merito tanto quanto dai giudici di legittimità, vista la varietà di interpretazioni proposte negli ultimi dieci, quindici anni.
Inutile perché sono già presenti, nel nostro ordinamento, la nozione di residenza, quella di domicilio, e, nel contesto dell’OCSE, quelle delineate con le famose tie-breaker rules, per cui bisogna tenere a mente il luogo nel quale si abita permanentemente o in cui ci siano relazioni personali ed economiche. 
Senza addentrarsi poi nel dismatch che, nei casi concreti, si instaura tra questi due impianti normativi quando, sebbene in linea teorica, la normativa europea dovrebbe portare a una disapplicazione del diritto interno confliggente in quanto avente carattere di specialità rispetto al diritto interno stesso (Cass. n. 24112/2017), dall’altro lato, la discrezionalità dei giudici può portare anche ad esiti difformi, come quando, in luogo di criteri sostanziali, si fanno valere criteri puramente formali per una pretesa ‘autosufficienza’ della materia tributaria (Cass. n. 21970/2015).
Pertanto, non si capisce perché bisogna andare a turbare ulteriormente il sonno degli addetti ai lavori con la fatica di doversi confrontare, nonostante la pletora di concetti già presenti, con questa nuova nozione di “presenza”, che finisce con l’assumere connotati ambigui.
Vero è che si potrebbe interpretare questa presenza come criterio residuale, ma per quanto è dato osservare nei diversi ambiti amministrativi e giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su fattispecie evasive, i criteri di valutazione non seguono un percorso ad excludendum, ma si avvalgono più che altro di interpretazioni sistematiche e, quindi, assai più discrezionali (seppur, alle volte, mal giustificate dal principio iura novit curia).
Anche la nozione di domicilio esce traumatizzata da questo nuovo approdo dell’art. 2 co. 2 del TUIR. 
Attualmente, com’è noto, ci si rifà alla nozione di domicilio stabilita dall’art. 43 del codice civile, per cui il domicilio è il centro degli affari e interessi della persona, interessi da valutarsi sia dal punto di vista familiare che economico-sociale. 
La nozione civilistica va sistematizzata poi con il modello fornito dall’OCSE, che sembra privilegiare maggiormente gli aspetti personali, e, dato che il governo si riferisce in primis a questi aspetti, parrebbe sancita l’osmosi tra i due ordinamenti. 
Tuttavia, questa interpretazione suscita qualche difficoltà nel momento in cui dobbiamo affrontare gli orientamenti perlomeno di Cassazione, che sono tutt’altro che univoci e costanti.
La prevalenza degli interessi personali e affettivi, se ha prodotto sentenze di Cassazione orientate in questo senso (Cass. n.14434/2010), riesce non sempre armonizzabile con i casi in cui l’aspetto della cura dei propri affari e dei propri interessi economici ha finito con l’essere prevalente (Cass. n.6501/2015). 
Pur avendo la propria famiglia in Italia, il professionista che abbia radicato la propria posizione fiscale in un altro Stato dovrà essere considerato residente fiscale in Italia, perché, per esempio, i figli vanno a scuola in Italia? E ciò nonostante la Corte di Cassazione stessa si sia espressa in modo tale da scongiurare questa ipotesi? (Si pensi al famoso caso dell’attrice residente a Montecarlo i cui figli frequentavano un istituto scolastico romano e che la Cassazione risolse in favore dell’attrice, sia riconoscendone gli interessi economici e lavorativi all’estero, sia non impiantando la potestà genitoriale sulla presenza continua e ininterrotta al fianco dei figli, Cass. n.23249/2010).
Prodigo di iniziative, il Consiglio dei Ministri si è intrattenuto anche sulla questione dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente e alla presunzione, suscettibile di prova contraria, di residenza fiscale in Italia, in caso di mancata cancellazione dall’anagrafe.
Come è noto, l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente è il criterio che spesso è stato usato per decidere se una persona è residente oppure no in Italia, a prescindere da ogni altra considerazione. 
Ciò con una interpretazione dagli evidenti profili di incostituzionalità, perché fa dipendere la potestà impositiva dello Stato da una assunzione puramente formale, dando così luogo a un contrasto con gli artt. 2 e 53 Cost. che sottintendono un collegamento con il territorio e con l’orientamento di segno contrario più volte espresso in ambito europeo, che sfocia in una presunzione legale assoluta.
Da questo punto di vista, il Consiglio dei Ministri, ammettendo la prova contraria, sembra porgere la mano ai cittadini italiani che si sono inavvertitamente dimenticati di fare l’iscrizione all’AIRE
Questo approccio, al netto della combinazione di questa interpretazione con le problematiche delineate sopra, lascia naturalmente aperte questioni come quella per cui gli smemorati cittadini italiani, pur residenti fiscalmente all’estero, in virtù della mancata cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente, pretendono poi di usufruire, per esempio, del trattamento sanitario di base, non spettante a chi si iscrive all’AIRE.
Dovrebbe quindi il Consiglio dei Ministri valutare attentamente se e fino a che punto mostrare indulgenza per questi distratti concittadini.
E, a parere di chi scrive, non perdere quest’occasione per prendere posizione sulle summenzionate questioni, con una legislazione al passo con i tempi, che non ghettizzi chi legittimamente decide di pagare le tasse altrove e che accolga le istanze internazionali, più attente ai fatti e alla tradizionale ripartizione dell’onere probatorio, che a presunti formalismi fatti propri del diritto tributario e opinabili presunzioni assolute.

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Avv. Savino Mauro

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