La Consulta dichiara (nuovamente) l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, com 4, cod. pen.: vediamo come.
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 69, co. 4)
Per approfondire: La Riforma Cartabia del sistema sanzionatorio penale
Indice
1. Il fatto
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli doveva giudicare, in sede di giudizio abbreviato, nell’ambito di un procedimento in cui delle persone erano state accusate – unitamente ad altri soggetti nei confronti dei quali, previa separazione dei procedimenti, aveva già emesso sentenza con rito abbreviato – del delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui all’art. 74, commi 1 e 2, t.u. stupefacenti, aggravato ai sensi del comma 3 dello stesso art. 74 e dell’art. 61, numero 9), cod. pen..
Ebbene, alla luce delle risultanze processuali, per il giudice di prime cure, sussisteva la responsabilità degli imputati per il delitto di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti, ritenendosi al contempo come l’associazione de qua non avrebbe potuto dirsi costituita per commettere i fatti di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti (art. 74, comma 6), atteso che essa operava all’interno di un istituto penitenziario; circostanza, quest’ultima, che il legislatore considera aggravante rispetto ai fatti di cui al medesimo art. 73 (è richiamato l’art. 80, comma 1, lettere c e g, dello stesso testo unico).
Pur tuttavia, a fronte del fatto che taluni accusati erano divenuti collaboratori di giustizia e avevano reso dichiarazioni etero e autoaccusatorie, di decisiva importanza per lo sviluppo delle indagini, sempre per il Tribunale partenopeo, sarebbe stata dunque applicabile, nei confronti dei quattro imputati, la circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti, che prevede una diminuzione di pena dalla metà a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti, così come avrebbero dovuto essere altresì riconosciute a beneficio degli imputati le circostanze attenuanti generiche, onde adeguare le pene di eccezionale severità previste dall’art. 74, commi 1 e 2 – ossia la reclusione non inferiore a vent’anni per i capi dell’associazione dedita al narcotraffico, e non inferiore a dieci anni per i partecipi – al concreto disvalore del fatto, caratterizzato dal traffico di droga “leggera” (hashish), in quantità non particolarmente elevate.
Oltre a ciò, sempre a detta di quest’organo giudicante, avrebbero dovuto, per altro verso, applicarsi, oltre alle contestate aggravanti di cui agli artt. 74, comma 3, t.u. stupefacenti e 61, numero 9), cod. pen., la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale a carico di molti di questi accusati, e la recidiva reiterata e infraquinquennale a carico di uno di essi (tutte rilevanti ex art. 99, quarto comma, cod. pen.), essendo tutti gli imputati stati «intranei a sodalizi camorristici e quindi dediti per scelta di vita a commettere gravissimi reati», ciascuno con numerosi precedenti penali espressivi sia di una accentuata colpevolezza, sia di una «tendenza a delinquere davvero incontenibile».
Di conseguenza, per il Giudice penale di Napoli, l’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti avrebbe dovuto essere considerata prevalente sulle aggravanti contestate, nonché sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., e ciò sia per valorizzare i contributi dichiarativi degli imputati, sia per evitare «un risultato incongruo in termini di pena», ma la prevalenza di tale attenuante sulla recidiva reiterata sarebbe stata però preclusa dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., discendendo da ciò come tale stato delle cose avrebbe dovuto comportare la necessità di applicare agli imputati collaboranti pene nella sostanza corrispondenti a quelle già irrogate ai coimputati non dissociatisi dall’associazione, ai quali pure erano state riconosciute le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., con giudizio di equivalenza con la recidiva, per adeguare la pena al concreto disvalore dei fatti.
In altre parole, in assenza di una declaratoria di illegittimità costituzionale del divieto contenuto nel censurato art. 69, quarto comma, cod. pen. – che impedisce la prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. – gli imputati in questione avrebbero subito «un trattamento sanzionatorio pari o addirittura peggiore rispetto ai coimputati che essi hanno contribuito in materia decisiva a far arrestare e a far condannare».
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2. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, di conseguenza, alla luce di quanto enunciato in precedenza, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, censurandolo nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..
In particolare, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente lamentava anzitutto il contrasto della disciplina censurata con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. nel senso che l’«astratto e assoluto automatismo», insito nel divieto di prevalenza dell’attenuante della collaborazione ex art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti sulla recidiva reiterata, avrebbe prodotto un risultato disarmonico rispetto alla ratio dell’attenuante medesima, che è quella di favorire il più possibile la dissociazione da un contesto associativo di elevata pericolosità.
Da un lato, infatti, l’art. 74, comma 7, accorderebbe un «fortissimo “sconto” di pena (dalla metà a due terzi) come “ricompensa” per chi, allontanandosi dal sodalizio e mettendo, spesso, anche a rischio l’incolumità propria e dei familiari, “si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti”» e costituirebbe «un importante tassello nella lotta al narcotraffico», quale «strumento per tentare di scardinare quel patto di collaborazione e di omertà, spesso impenetrabile, che è alla base delle organizzazioni criminali, anche di quelle finalizzate allo spaccio di stupefacenti», dall’altro lato, sarebbe «più che verosimile» che soggetti di spessore criminale tale da rivestire il ruolo di capi o promotori di un’associazione dedita al narcotraffico siano anche recidivi reiterati.
Sicché l’attenuante in questione, per il giudice a quo, non potendo spiegare tutta la sua valenza per i recidivi reiterati – in ragione del divieto contenuto nel censurato art. 69, quarto comma, cod. pen. – perderebbe «gran parte della sua ragion d’essere, dal momento che tali soggetti non avrebbero alcun beneficio a dissociarsi, vedendo al massimo eliso l’aumento per la recidiva, sempre che ciò non avvenga già per effetto di altre attenuanti»; con conseguente «totale neutralizzazione della valenza positiva del contributo dichiarativo» degli imputati e «sostanziale “tradimento” del patto che lo Stato intende instaurare con chi si dissocia onde pervenire alla disarticolazione del sodalizio».
Ciò posto, a sostegno di quanto appena esposto, il rimettente richiamava diffusamente, sul punto, le argomentazioni della sentenza n. 74 del 2016 della Consulta, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza, sulla recidiva reiterata, della circostanza attenuante prevista dall’art. 73, comma 7, t.u. stupefacenti per chi si dissoci, in quel caso, da fatti di traffico di stupefacenti commessi al di fuori di un contesto associativo.
In effetti, per il rimettente, le considerazioni allora espresse in sede di legittimità costituzionale – secondo cui la norma censurata, impedendo alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti, ne frustrava in modo manifestamente irragionevole la ratio, perché faceva venire meno quell’incentivo (la sensibile diminuzione di pena) sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l’attività collaborativa – varrebbero a fortiori nel caso di specie visto che, stante la maggiore gravità del reato associativo di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti, rispetto al delitto di cui all’art. 73, «ancora più impellente risult[erebbe] essere l’esigenza di favorire la dissociazione di chi fa parte del sodalizio», tenuto conto altresì del fatto che, poiché «il reato associativo comporta l’adesione a un pactum sceleris dal quale non ci si libera in alcuni ambienti se non a prezzo della vita», non potrebbe non riconoscersi a colui che si dissoci un “premio” «quantomeno della stessa portata».
Peraltro, sempre per il Tribunale partenopeo, la circostanza che, alla luce della sentenza n. 74 del 2016, sia possibile ritenere prevalente sulla recidiva reiterata l’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, t.u. stupefacenti, ma non quella, «in tutto analoga», di cui all’art. 74, comma 7, rivelerebbe un ulteriore profilo di irragionevolezza del censurato art. 69, quarto comma, cod. pen., senza ignorare il fatto che l’irragionevolezza del divieto emergerebbe altresì dal raffronto con il regime della circostanza attenuante prevista per i delitti di tipo mafioso dall’art. 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, poi trasfuso nell’art. 416-bis.1, terzo comma, cod. pen..
Invero, detta attenuante – caratterizzata, secondo il rimettente, dalla medesima ratio di quella che sorregge la disposizione censurata – per consolidata giurisprudenza non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ed è di applicazione obbligatoria (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-18 marzo 2010, n. 10713; sezione sesta penale, sentenza 13 aprile-4 luglio 2017, n. 31983), laddove la circostanza attenuante dell’art. 74, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 non solo è soggetta al giudizio di bilanciamento, ma non può neppure prevalere sulla recidiva reiterata.
Precisato ciò, osservava ancora il rimettente che la Corte costituzionale, con le sentenze n. 251 del 2012, n. 105 e n. 106 del 2014, n. 205 del 2017, n. 73 del 2020, n. 55 e n. 143 del 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza, sulla recidiva reiterata, di una pluralità di circostanze attenuanti, «connesse a ipotesi delittuose di lieve entità o comunque di minor rimproverabilità sotto il profilo dell’elemento soggettivo, in relazione alle quali il divieto di prevalenza si tradurrebbe nell’imposizione di una pena sproporzionata al recidivo reiterato».
A fronte di tali declaratorie, quindi, per il giudice a quo, sarebbe irragionevole la vigente disciplina che impedisce la prevalenza della diminuente di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti, ossia di un’attenuante a effetto speciale, che prevede una riduzione di pena di gran lunga più incisiva (dalla metà ai due terzi), rispetto ad altre circostanze a efficacia comune, il cui divieto di prevalenza è già stato ritenuto costituzionalmente illegittimo, quali quelle di cui agli artt. 89 e 116, secondo comma, cod. pen. (rispettivamente, sentenze n. 73 del 2020 e n. 55 del 2021), tenuto conto altresì del fatto che l’attenuante di cui all’art. 74, comma 7, non potrebbe d’altra parte essere paragonata, per ratio e valenza in termini di riduzione della pena, alle circostanze attenuanti generiche, rispetto alle quali la Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondato il dubbio di illegittimità costituzionale circa il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata (è citata la sentenza della sezione sesta penale, 23-31 marzo 2017, n. 16487), sul rilievo che trattasi di circostanze comuni rispetto a cui il divieto non determina una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio, e ciò in ragione della considerazione secondo la quale la diminuente di cui all’art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309 del 1990, a effetto speciale, prevedrebbe una riduzione di pena di gran lunga superiore a un terzo (dalla metà a due terzi) e avrebbe una finalità del tutto diversa e peculiare rispetto alle attenuanti generiche.
Ciò posto, il rimettente ravvisava infine, nel censurato divieto di prevalenza, un vulnus al principio di proporzionalità della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., «sia sotto il profilo della sua funzione rieducativa che di quella retributiva, in quanto una pena che non tenga in debito conto della proficua collaborazione prestata per effetto di una dissociazione post-delictum, spesso sofferta, e che può esporre a gravissimi rischi personali e familiari, da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro – soprattutto – non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice», rammentandosi a tal proposito che l’impossibilità di prevalenza dell’attenuante ex art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309 del 1990, comporta l’inflizione agli imputati di «un trattamento sanzionatorio pari o addirittura peggiore rispetto ai coimputati che essi hanno contribuito in maniera decisiva a far arrestare e a far condannare e, altresì, peggiore rispetto all’ipotesi in cui non avessero “collaborato”».
3. La soluzione adottata dalla Consulta: incostituzionalità dell’art.69 co. 4 c.p.
Il Giudice delle leggi, dopo avere ritenuto le questioni summenzionate ammissibili, riteneva come, nel merito, la questione sollevata in relazione all’art. 3 Cost. fosse fondata.
Nel dettaglio, i giudici di legittimità costituzionale – dopo avere fatto presente che la disposizione di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen., introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) – la cosiddetta legge “ex Cirielli” – è stata oggetto di molteplici pronunce di illegittimità costituzionale parziale, che hanno colpito il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. (per una recente dettagliata rassegna di tali pronunce e delle loro diverse linee argomentative, sentenza n. 94 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto; nonché, in seguito, sentenze n. 141 e n. 188 del 2023) – osservavano come, in particolare, la sentenza n. 74 del 2016 abbia già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della parallela circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, t.u. stupefacenti, che – rispetto al delitto di traffico di sostanze stupefacenti compiuto al di fuori di un contesto associativo – prevede la diminuzione della pena dalla metà a due terzi «per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti», rilevandosi al contempo come si fosse in quell’occasione osservato che l’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, t.u. stupefacenti «è espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso del reo, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati in materia di stupefacenti», deducendosi contestualmente che il divieto assoluto di operare tale diminuzione di pena in presenza di recidiva reiterata del reo «impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e così ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio, perché fa venire meno quell’incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l’attività collaborativa», e ciò anche considerando che la scelta di collaborare – pur non comportando necessariamente la resipiscenza del reo e potendo essere il frutto di mero calcolo – implica comunque «il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita» (punto 5 del Considerato in diritto).
Orbene, per la Consulta, tali considerazioni non possono non valere anche rispetto alla circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti, che parimenti prevede la diminuzione della pena dalla metà a due terzi «per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti».
Rispetto all’attenuante ora in esame, anzi, le considerazioni svolte dalla sentenza n. 74 del 2016, sempre per la Corte costituzionale, valgono a maggior ragione, dal momento che – come l’esperienza del contrasto alle differenti forme di criminalità organizzata nel nostro Paese ha ampiamente mostrato, dagli anni Ottanta in poi – il contributo dei collaboratori di giustizia intranei ai sodalizi criminosi è di grande importanza ai fini della scoperta dell’organigramma dell’associazione e delle sue attività delittuose.
Di talché appare contraddittorio, per la Corte, come, per effetto del generale divieto introdotto nell’art. 69 cod. pen. dalla legge “ex Cirielli”, questo sostanzioso incentivo alla collaborazione venga meno laddove il potenziale collaboratore sia – come spesso accade, trattandosi di associati a delinquere – già stato più volte condannato, dal momento che, da una parte, la particolare gravità del delitto associativo costituisce una ragione in più per assicurare agli associati che intendano collaborare l’incentivo promesso in via generale dal legislatore, dall’altra, non è condivisibile l’argomentazione secondo cui un incentivo alla collaborazione sia comunque rappresentato, per il recidivo, dalla prospettiva di ottenere il riconoscimento dell’attenuante in parola come meramente equivalente rispetto alla recidiva reiterata dato che tale prospettiva comporterebbe pur sempre, per il collaborante, l’applicazione delle elevate pene previste dall’art. 74 t.u. stupefacenti (vent’anni di reclusione nel minimo per i capi, appena al di sotto della pena minima prevista per l’omicidio volontario): pene che rischiano di scoraggiare qualsiasi scelta collaborativa, e che il legislatore ha invece inteso diminuire – addirittura sino ai due terzi – per favorire simili scelte, ritenute essenziali a fini di indagini, tanto più a fronte della circostanza, già evidenziata dalla sentenza n. 74 del 2016, che la collaborazione processuale espone sempre a gravi rischi la propria persona e la propria famiglia.
Quanto appena esposto, pertanto, per la Consulta, ridonda in un vizio di irragionevolezza intrinseca della disciplina che finisce per frustrare lo scopo perseguito dal legislatore mediante la previsione della circostanza attenuante.
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..
4. Conclusioni
Fermo restando che, come è noto, l’art. 74, co. 7, d.P.R. n. 309 del 1990 prevede una diminuzione della pena da un terzo della metà in riferimento ai reati associativi preveduti da questa norma incriminatrice ai commi 1 e 6, “per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti”, così, come è altrettanto noto, l’art. 99, co. 4, cod. pen., qualora il recidivo commetta un altro delitto non colposo, contempla un aumento della pena nei limiti contrassegnati da questo stesso comma, con la decisione in esame, la Consulta, come appena visto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..
Pertanto, per effetto della pronuncia, è adesso possibile riconoscere la prevalenza di questa attenuante speciale rispetto alla recidiva c.d. reiterata.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, in quanto si allinea lungo il solco già tracciato dalla medesima Corte costituzionale in precedenti pronunce, non può che essere che positivo.
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