Indice
(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 129, co. 2)
1. La questione
La Corte di appello di Bologna, riformando una sentenza emessa dal Tribunale di Rimini, assolveva, perché il fatto non sussiste, l’imputato dal reato di appropriazione indebita di un assegno in danno del fratello, revocando al contempo le statuizioni civili di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della moglie e delle figlie della persona offesa deceduta, risarcimento da quantificarsi in separata sede.
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di secondo grado proponevano ricorso per Cassazione le parti civili costituite, deducendo violazione dell’articolo 157 cod. pen. e omessa motivazione in odine all’eccezione di intervenuta prescrizione del reato, posto che, sebbene il procuratore generale presso la Corte d’appello avesse concluso richiedendo sentenza di proscioglimento per l’intervenuta prescrizione del reato di appropriazione indebita, la Corte territoriale aveva ritenuto di assolvere l’imputato con la formula dubitativa prevista dall’art. 530 comma 2 cod. proc. pen., in difetto di un’espressa dichiarazione di rinunzia alla prescrizione, così contravvenendo ad una specifica disposizione di legge.
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il ricorso proposto manifestatamente infondato.
In particolare, a sostegno di tale giudizio, gli Ermellini rilevavano – una volta fatto presente che con il ricorso il ricorrente ipotizzava una presunta incompatibilità tra la intervenuta prescrizione del reato, in epoca precedente alla sentenza di appello, e la pronuncia da parte della corte territoriale di sentenza di assoluzione con formula dubitativa, ai sensi dell’art. 530 secondo comma cod. proc. pen. – come, a loro avviso, il ricorrente non avesse considerato che, nel caso in esame, si era costituita in giudizio la parte civile.
Orbene, in tale situazione, ravvisavano gli Ermellini nella pronuncia qui in commento, secondo consolidata giurisprudenza, non si applica la regola della immediata declaratoria di prescrizione del reato ex art. 129 cod. proc. pen., in quanto si deve anche statuire in ordine alle questioni risarcitorie, che presuppongono l’affermazione di responsabilità anche solo ai fini civili, essendo stato per l’appunto precisato, in sede nomofilattica, che la previsione di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. non trova applicazione nel giudizio di legittimità relativo a sentenza di assoluzione resa in grado d’appello promosso dalla sola parte civile in quanto, essendo ispirata a ragioni di economia processuale, risulta compatibile con le garanzie difensive nel solo caso in cui il giudice si pronunci sulla “regiudicanda” penale e non su questioni civili atteso che, solo nel giudizio penale, l’operatività del criterio di prevalenza di formule previsto da tale norma è bilanciato dalla possibilità, per l’imputato, di rinunziare alla causa di estinzione del reato (Sez. 5, Sentenza n. 19917 del 09/04/2021). Al contrario, invece, sempre ad avviso dei giudici di piazza Cavour, risulta necessario formulare un pieno accertamento di responsabilità per disporre la condanna al risarcimento del danno da fatto illecito.
Tal che se ne faceva conseguire come nel caso in esame la Corte ben potesse assolvere l’imputato con la formula dubitativa e revocare, di conseguenza le statuizioni civili disposte in primo grado, sebbene il reato fosse già prescritto, dal momento che l’art. 576 cod. proc. pen. riconosce alla parte civile la legittimazione a presentare impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento o di assoluzione e a chiedere la condanna dell’imputato alla restituzione o al risarcimento del danno, indipendentemente dall’impugnazione del P.M. e anche in assenza di questa: in siffatte ipotesi, la parte civile, in deroga a quanto previsto dall’art. 538 cod. proc. pen., può chiedere al giudice penale un accertamento incidentale sulle questioni penali (da valere solo virtualmente come una condanna) ai soli fini dell’accoglimento della sua domanda di restituzione o di risarcimento del danno causato dal reato, senza tuttavia poter ottenere alcun mutamento delle statuizioni sull’azione penale che, avendo consolidato il giudicato interno, restano formalmente immodificabili, in assenza dell’impugnazione del rappresentante della pubblica accusa (in questo senso, ex multis, Sez. 6, n. 43644 del 11/09/2019; n. 22170 del 2019; Sez. 4, n. 48781 del 23/09/2016; Sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011; cfr. anche Sez. 2, n. 17108 del 22/03/2011; Sez. 5, n. 3670 del 27/10/2010); in altri termini, in siffatte circostanze, l’accertamento sulla responsabilità penale viene compiuto dal giudice dell’impugnazione solo in motivazione e in maniera funzionale all’adozione dell’unico esito decisorio consentitogli, da esplicitare nel dispositivo, cioè quello sulla fondatezza o meno della richiesta della parte impugnante alla restituzione o al risarcimento del danno, costituendo l’ipotesi, disciplinata dall’art. 576 cod. proc. pen., un’eccezione alla regola generale fissata dall’art. 538 dello stesso codice e dovendo il giudice dell’impugnazione pronunciarsi sulla fondatezza dell’azione civile indipendentemente dalla contestuale formalizzazione di una pronuncia di condanna penale.
Con il ricorso congiunto, invece, per gli Ermellini, era stata dedotta solo una questione relativa alla presunta violazione di legge determinata dall’assoluzione in termini dubitativi che risultava, a loro avviso, infondata per le ragioni sin qui esposte mentre, di contro, non era stata contestata la manifesta illogicità o la contradditorietà del giudizio di assoluzione formulato nei confronti dell’imputato che costituisce il presupposto della revoca delle statuizioni civili.
Da ciò se ne faceva discendere come tale questione, non essendo stata devoluta alla Cassazione, non potesse formare oggetto di scrutinio nel caso di specie.
Si imponeva pertanto, per la Corte di legittimità, la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi con conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della cassa delle ammende.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che l’art. 129, c. 2, c.p.p. non trova applicazione nel giudizio di legittimità relativo a sentenza di assoluzione resa in grado d’appello promosso dalla sola parte civile in quanto si deve anche statuire in ordine alle questioni risarcitorie, che presuppongono l’affermazione di responsabilità anche solo ai fini civili, tenuto conto altresì del fatto che l’applicabilità di siffatta disposizione legislativa – che, come è noto, dispone che, quando “ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta” – risulta compatibile con le garanzie difensive nel solo caso in cui il giudice si pronunci sulla “regiudicanda” penale e non su questioni civili atteso che, solo nel giudizio penale, l’operatività del criterio di prevalenza di formule previsto da tale norma è bilanciato dalla possibilità, per l’imputato, di rinunziare alla causa di estinzione del reato.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione, dovendosi escludere, alla stregua di quanto ivi previsto, che l’art. 124, co. 2, cod. proc. pen. sia applicabile nel giudizio di legittimità relativo a sentenza di assoluzione resa in grado d’appello promosso dalla sola parte civile.
Ciò posto, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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