L’articolo 2 della Costituzione cosi’ recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”
La tutela ex art. 2 della Costituzione è connessa ad almeno un altro diritto costituzionalmente garantito che ne concretizzi la sua materiale strutturalità.
Ciò emerge sin dai lavori preparatori della Carta Costituzionale, dai quali si evince che i diritti inviolabili proprio perché enunciati non in un numerus clausus o in una categoria esemplificativa, rimandano necessariamente ad altri diritti che li concretizzino.
Quanto sopra deriva dal fatto che l’articolo de quo fa dei diritti inviolabili una enunciazione volutamente aperta, da inquadrare di volta in volta nel loro preciso e concreto significato.
Si rileva poi che, poiché il fine del sistema di libertà cui fa riferimento la Costituzione è la persona, l’articolo in esame va inteso come norma di apertura solo nei confronti di quelle libertà che siano essenziali per il libero sviluppo della persona umana.
· Le libertà inviolabili sono finalizzate allo sviluppo della persona;
· Perché non scada a individuo, la persona va considerata non solo in quanto tale, ma anche nella sua apertura sociale che la mette in relazione alle altre persone;
· Il diritto di proprietà ha il riconoscimento costituzionale di inviolabilità se è espressione del fatto che non è espressione solo di interessi, ma anche di valori, se non si pone in contrasto con altre libertà, e soddisfa i valori di solidarietà che lo rendono un diritto funzionale;
· Le formazioni sociali meritano tutela nella misura in cui sono strumenti di partecipazione e non di passiva difesa. A maggior ragione per gli enti locali, attraverso le loro forme di decentramento.[1]
Il percorso che conduce all’attuale qualificazione del danno esistenziale trae origine sin dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso quando, nella sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 14 luglio 1986, emanata da un collegio il cui presidente era Livio Paladin, venivano dati alcuni punti fondamentali in subiecta materia. Con questa sentenza l’ambito dell’art. 2059 è ristretto ai soli danni morali subiettivi.
Afferma infatti tale sentenza che “almeno nelle intenzioni del legislatore penale del 1930, il danno non patrimoniale, di cui al secondo comma dell’art. 185 c.p., costituisce l’equivalente del danno morale subiettivo e che i danni direttamente od indirettamente incidenti sul patrimonio non possono essere compresi nei danni non patrimoniali ex art. 185 c.p.
Se a tutto ciò s’aggiunge che già la dottrina precedente al 1930, contraria alla risarcibilità dei danni morali, era partita da una nozione ristretta dei medesimi ed aveva sottolineato che l’ansia, l’angoscia, le sofferenze fisiche o psichiche ecc., appunto perché effimere e non durature, non sono compensabili con equivalenti monetari e non possono, pertanto, costituire oggetto di risarcimento; se si aggiunge ancora che la giurisprudenza precedente al 1930, sensibile alle già citate critiche di una parte della dottrina, aveva finito con il ritenere esclusa, in via di principio, la risarcibilità dei danni morali subiettivi, sempre partendo da una nozione ristretta di questi ultimi, s’intende appieno l’ambito di comprensione della nozione di "danno non patrimoniale" ex art. 185 c.p”.[2]
Acutamente nella sentenza si passa attraverso un excursus storico che dalla relazione della commissione reale al progetto del libro "Obbligazioni e contratti", che definisce danno morale "quello che in nessun modo tocca il patrimonio, ma arreca solo un dolore morale alla vittima" conduce alla relazione ministeriale al vigente codice civile, secondo la quale gli effetti dell’illecito che non hanno natura patrimoniale non trovano estensione a tutti della risarcibilità o della compensabilità che l’art. 185 del codice penale pone soltanto per i reati".
Secondo il legislatore, la non estensione della risarcibilità dei danni morali,dipendeva dal fatto che la resistenza della giurisprudenza a tale estensione può considerarsi limpida espressione della nostra coscienza giuridica. Questa avvertiva che soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo".[3]
Consegue da ciò che il danno non patrimoniale è un altro effetto dell’illecito (è cioè danno-conseguenza, al pari di quello patrimoniale) e che il risarcimento dei danni non patrimoniali persegue scopi di più intensa repressione e prevenzione, certamente estranei al risarcimento degli altri tipi di danno.” Nella sentenza veniva affermato in ultima analisi che l’art. 2059 c.c., nel sancire che il danno non patrimoniale deve essere risarcito nei casi espressamente determinati dalla legge, si riferisce solo al danno morale soggettivo, consistente in ingiuste perturbazioni dell’animo, o in sensazioni dolorose. In presenza di tale tipo di danno era ritenuta costituzionalmente sostenibile il risarcibilità delle lesioni alla salute, ancorché improduttive di pregiudizio patrimoniale, note come danno biologico.
L’ assunto affermato nel 1986 è stato ribadito nella sentenza n. 372/1994 dellaCorte Costituzionale.[4]
Con la sentenza del Tribunale di Torino del 5/8/1995 il danno esistenziale divenne anche modalità di tutela anche del danno all’immagine. Iniziarono a trovarsi nel danno esistenziale anche danni c.d. “bagatellari,” quale quello in cui la vittima di un sinistro stradale che aveva dovuto farsi accompagnare per un mese riteneva di aver sofferto un danno esistenziale (Giudice di Pace di Sora, sentenza n. 187 del 22/8/2001; altra fattispecie, di cui si parla nella sentenza del Tribunale di Torino del 21/3/2001, era data dalla perdita di autovettura andata perduta a seguito di uno scontro.
Importanti e significative nel persorso che conduce alla pronuncia in oggetto sono lesentenze della Corte di Cassazione n. 8827 e 8828/2003[5]le qualihanno affermato che “nell’ipotesi di lesione di un valore inerente alla persona costituzionalmente garantito da cui sia scaturito un pregiudizio di natura non patrimoniale, quale il danno da compromissione del rapporto parentale subito dai congiunti della vittima rimasta uccisa o gravemente lesa a seguito di fatto illecito, il danno non patrimoniale, seppur ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, andrà anch’esso risarcito ai sensi dell’art. 2059 c.c., ma in tal caso tale norma, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, andrà svincolata dal limite della riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. “ Con tale pronuncia, la Suprema Corte ha affermato l’estensione del danno non patrimoniale inteso come danno da lesione di valori inerenti la persona e non più solo come danno morale soggettivo.
A sua volta lasentenza della Corte Costituzionale n. 233, 11 luglio 2003[6], aderendo a tale impostazione, ha sostituito alla vecchia tripartizione 1) danno patrimoniale; 2) danno biologico; 3) danno morale, un sistema bipolare costituito da a) danno patrimoniale; b) danno non patrimoniale (consistente in ogni danno non patrimoniale derivante da valori inerenti alla persona che comprende il danno biologico e il danno morale in senso lato (danno morale in senso stretto e danno esistenziale).
Secondo tale sentenza,non vi è dubbio che l’art. 2059 c.c., stabilendo che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, circoscriveva originariamente la risarcibilità all’ipotesi, contemplata dall’art. 185 c.p., del danno non patrimoniale derivante da reato, e le conferiva un carattere sanzionatorio, reso manifesto, tra l’altro, dalla stessa relazione al Codice civile, secondo la quale soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo.
Coerentemente a ciò, si riteneva, poi, che il riferimento al reato, dovesse essere inteso nel senso della ricorrenza in concreto di una fattispecie criminosa in tutti i suoi elementi costitutivi, anche di carattere soggettivo. Con la conseguente inoperatività, in tale ambito, della presunzione di legge destinata a supplire la prova, in ipotesi mancante, della colpa dell’autore della fattispecie criminosa.
A sua volta, la sentenza della Corte di cassazione n. 26972/2008, facendo propri i contenuti delle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, afferma non solo la risarcibilità del danno derivante da reato, ma anche quella del danno cagionato dalla violazione di un diritto inviolabile.
A risolvere ogni questione e dubbio di natura interpretativa in merito, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 6572/2006, hanno identificato il danno esistenziale in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno ”.
Il danno esistenziale, quindi, si distingue dal danno morale in quanto non consiste in “mere sofferenze”, che rimangono nella sfera interiore del soggetto leso, ma deve aver determinato “ concreti mutamenti in senso in senso peggiorativo nella qualità della vita” (Cass. Sez. Un. N. 6572/2006); mentre diversifica dal danno biologico poiché, a differenza di questo, rimane integrato a prescindere dalla accertabilità in senso medico-legale.
Queste alcune significative pronuncie in materia qua del periodo immediatamente precedente la sentenza S.U. Corte di Cassazione 11. 11. 2008 n. 26972:
1) La Corte costituzionale (nella sentenza n. 233/2003) ha concluso: deve essere ricompreso, nell’astratta previsione dell’art. 2059 c.c., "ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima, sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina e giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona".[7]
2) Avendo come prodromi le accurate sentenze pronunciate dalle Corti negli ultimo anni in subiecta materia scaturisce, alle soglie della sentenza n. 26972 dell’11.11.2008, tale giurisprudenza: “Secondo la giurisprudenza, il risarcimento per il cd. danno esistenziale è dovuto nei casi in cui il fatto dannoso abbia determinato, oltre alla compromissione del bene salute, che riceve tutela con il risarcimento del danno biologico, anche la lesione di un altro valore della persona umana costituzionalmente protetto. Il danno esistenziale, come "ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto inducendolo a scelte di vita diverse, quanto all’espressione ed alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, da quelle che avrebbe compiuto se non si fosse verificato il fatto dannoso", non è danno "in re ipsa" ma deve essere oggetto di allegazione e di prova da parte del danneggiato. “[8]
3) Il danno esistenziale, autonoma e legittima categoria dogmatico giuridica in seno all’art. 2059 c.c., si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, propria del cosiddetto danno morale, ma oggettivamente accertabile attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso e richiede una specifica allegazione e prova, anche per presunzioni, allegazione nella fattispecie non offerta, né documentalmente, né testimonialmente.[9]
Si perviene pertanto alla sentenza S. U. Corte di Cassazione 11.11.2008 n. 26972 che, come si vedrà, costituisce un punto di arrivo, ma anche di partenza in materia di danno non patrimoniale.
Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., è il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Poiché la definizione di danno non patrimoniale non è contenuta nell’art. 2059 c.c., occorre da esso rinviare alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. [10]
Come visto sopra, sulla base del passaggio che dalla relazione della commissione reale al progetto del libro "Obbligazioni e contratti" conduce alla relazione ministeriale al vigente codice civile, riportato nella sentenza della Corte Costituzionale del 1986, si considera in primo luogo come danno non patrimoniale quello derivante ex art. 185. c.p.
Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (art 29, comma 9, 1. n. 675/1996: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi).
Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.(e ciò con particolare riferimento alla violazione degli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione).
La sentenza de qua ha dato anche un importante contributo alla delineazione della possibilità del risarcimento in materia di liti bagatellari, quelle, cioè, in cui il danno è futile o irrisorio, o comunque, seppur serio, insignificante socialmente.
In altro termini, non è sufficiente che vi sia la lesione di un diritto costituzionale inviolabile; occorre altresì che tale lesione avvenga oltre il limite di una soglia minima, provocando un serio pregiudizio, la cui serietà, per essere tale, deve eccedere una soglia minima di tolleranza.
Si ha pertanto che, ai fini del risarcimento del danno, è necessario che siano compresenti :
a) la gravità della lesione;
b) la serietà del danno (requisiti accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).
In questo modo si realizza la compenetrazione tra la solidarietà verso la vittima e la tolleranza verso il fatto. Ne consegue che danni caratterizzati dall’elemento della futilità non avranno titolo per il risarcimento, poiché, in tali casi, l’elemento solidaristico nei confronti della vittima cede il passo alla tolleranza per l’evento accaduto.
Ne consegue pertanto che non sono meritevoli dalla tutela risarcitoria,a titolo di danno esistenziale,i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
Dall’excursus giurisprudenziale che va dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 14 luglio 1986 a oggi, è possibile pertanto evincere e concludere non tanto in favore della considerazione della categoria del danno esistenziale, quanto invece dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Sotto il profilo dottrinale, si scontrano due opposte tesi, una favorevole e l’altra contarria alla categoria del dano esistenziale.
Per la tesi favorevole Cendon sostiene che, profili del danno morale a parte, si debba far riferimento a due sottocategorie del danno esistenziale: in primo luogo, il danno esistenziale biologico, laddove la prerogativa colpita inerisca l’universo dell’integrità psicofisica e della salute; vi è poi il danno esistenziale non biologico, riferibile a violazione di posizioni familiari, processuali, di diritti della persona, situazioni lavorative, ecc…
Secondo questo autore il risarcimento del danno esistenziale funge da elemento di innalzamento del tasso di difendibilità della persona. [11]
Il sostrato che Cendon pone al fondamento del danno esistenziale consiste nel fatto che al di là delle prerogative relative alla salute e all’ integrità psicofisica, vi è un ambito esistenziale dell’uomo che coincide con il suo fare non reddituale. Esso viene in causa in tutti i casi in cui, a motivo dell’evento dannoso, l’uomo si trovi a non essere come prima, rinunciando così a momenti di felicità.[12]
Altro autore[13], muovendo dalla definizione di danno esistenziale data dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233/2003, la quale accanto ai pregiudizidi carattere morale e biologico individua la ricorrenza di un danno, spesso definito in dottrina e in giurisprudenza come esistenziale, delinea tale tipo di danno quale tertium genus rispetto al danno morale e al danno biologico.
Secondo Ziviz , mentre il danno esistenziale attiene alla sfera del fare a reddituale del soggetto, che è data dalla lesione di un precedente sistema di vita, che si sostanzia nella vita esteriore della persona, il danno morale è caratterizzato da una diversa ontogenesi, poiché è circoscritto nella sua sfera interiore, senza mai pervenire alla esteriorizzazione.
Per quanto riguarda poi la differenza tra danno biologico e danno esistenziale, va rilevato che mentre l’uno riguarda la salute della vittima che ha subito la lesione, l’altro è suscettibile di riverberarsi in maniera negativa sulla sfera delle atività realizatrici della persona, per mezzo di violazione di interessi diversi da quello all’integrità psicofisica.
Tale autore sostiene, in ultima analisi, che il danno esistenziale non abbia natura suppletiva, poiché il ricorso a tale categoria di risarcimento è possibile anche quando non ricorrano gli estremi per la riparabilità del danno morale.[14]A fronte di tali considerazioni, favorevoli alla categoria del danno esistenziale, si è sviluppata una tesi contrapposta, la quale invece ne ritiene la non sussistenza.
Avviene, recentemente, di leggere sentenze in cui larga parte del momento motivazionale è assorbita: a) dalla ricostruzione della elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ha portato alla creazione di tale figura; b) da ampie dissertazioni in ordine al concreto interesse sostanziale, nella fattispecie posta all’esame del giudicante, che potrebbe venire ad essere tutelato dal ricorso a tale nuova figura di danno.Tali consistenti motivazioni si rinvengono peraltro in sentenze in cui, tuttavia, si perviene a rigettare la domanda di risarcimento del danno esistenziale per difetto dei presupposti e/o della relativa prova , ovvero si perviene ad accogliere la domanda di risarcimento del danno morale, essendosi in presenza di un fatto-reato (Trib. Milano,27.11.2000, in Resp. civ., prev., 2001, 669, con nota di ZIVIZ, Bene affettivamente rilevante e risarcimento del danno e in Danno e resp., 2001, 735, con nota di COMAI, Il tentato furto della motocicletta nuova).
E’ stato infatti esattamente rilevato che la valutazione del danno esistenziale non può prescindere dalla considerazione, alla luce dei dettami insiti nella nostra carta costituzionale (la quale si configura non solo come un insieme di diritti da tutelare, ma anche come un insieme di libertà da preservare) della necessità di un giusto contemperamento tra solidarietà e tolleranza.
Ultima, ma non meno importante, la questione della prova. Come acclarato dal Giudice di Pace di Torino nella sentenza del 21.3.2001, in Danno e resp., 2002, 789, con nota di TORRI, il quale ha rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale per totale perdita dell’autovettura a seguito di sinistro: “La sussistenza del danno esistenziale deve essere in ogni caso provata, sia dal punto di vista ontologico, sia dal punto di vista eziologico, non essendo sufficiente l’allegazione della mera lesività del fatto illecito, secondo criteri puramente astratti in base all’id quod plerumque accidit, dovendosi necessariamente individuare il confine tra il fastidio o il disagio psico-fisico normalmente conseguente ad ogni sorta di inadempimento o illecito civile che determini una perdita patrimoniale –da ritenersi privo di autonoma tutela in quanto assorbito nella tutela del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio- ed una vera e propria violazione dell’integrità psico-fisica, che dà luogo a significativi fenomeni di sofferenza”; v. Trib. Milano, 20.5.2000, in Resp. civ. prev., 2001, 673, che precisa che chi invoca il mobbing come fatto produttivo di danno deve provarne l’esistenza e deve dimostrarne la potenzialità lesiva e stimmatizza la “disinvoltura con la quale si invoca [da parte dell’attrice] una persecuzione sorprendentemente avallata dal primo giudice”).[15]
La sussistenza della categoria del danno esistenziale viene altresì negata da un autore, secondo il quale “il danno esistenziale supporrebbe quel diritto alla ricerca della felicità, bensì codificato dalla Costituzione degli Stati uniti, ma a noi sconosciuto perchè ben diverso dal diritto alla salute, pur se psichica.”[16]
Altri giungono alla stessa conclusione affermando che “ammettendo la simultanea liquidazione delle voci di danno sopra descritte, insorgono perplessità circa le interrelazioni tra danno biologico, morale ed “esistenziale”, stante la necessità di non duplicare artificiosamente i danni di cui il responsabile deve il risarcimento.”[17]
La categoria del danno esistenziale non può trovare un suo locus standi nel nostro sistema ordinamentale per i seguenti ordini di ragioni.
In primo luogo, essa è di creazione dottrinale-giurisprudenziale, laddove l’art. 2059 c.c. afferma che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.” Manca pertanto una norma che preveda tale tipo di categoria di risarcimento la quale, in sua assenza, darebbe origine a una immotivata moltiplicazione di danno.
II ristoro di tale tipo di danno implica peraltro la previsione normativa del diritto alla ricerca della felicità, che non è contemplato nella Costituzione italiana, mentre tale diritto si trova nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (pursuing of happiness), composta da una commissione presieduta da Beniamino Franklin e approvata nella seduta del 4 luglio 1776.
La sentenza della Corte di Cassazione ha prodotto nel periodo trascorso dalla sua pronuncia alcuni importanti effetti sul piano normativo, giurisprudenziale e tabellare.
Sotto il profilo cronologico, tra le conseguenze della sentenza delle Sezioni Unite de quibus, si novera, in primo luogo, la pronuncia della Corte di Cassazione, sezione III, 28/11/2008 n. 28407.
In tale pronuncia è affermato che “ il danno morale parentale per la morte dei congiunti deve essere integralmente risarcito mediante l’applicazione di criteri di valutazione equitativa rimessi alla prudente discrezionalita’ del giudice, in relazione alle perdite irreparabili della comunione di vita e di affetti e della integrita’ della famiglia, naturale o legittima, ma solidale in senso etico (Cass. 9 novembre 2006 n. 23918 e vedi Cassazione 24 aprile 2007 n. 9681). In relazione a tale principio guida, costituzionalmente orientato al rispetto dei vincoli della solidarieta’ familiare, appare riduttiva e illogica la riduzione della sua entita’ rapportata alla vita effettiva dei superstiti, deceduti nel corso di un giudizio, la cui lentezza non e’ loro ascrivibile se non come denegata giustizia.
La motivazione della sentenza si muove nel quadro della sentenza de qua sotto l’aspetto dell’inquadramento ontologico del danno morale (o non patrimoniale, in questo caso da perdita del valore parentale, primario e assoluto secondo il nostro sistema di tutele costituzionali).
In questa pronuncia la privazione delle funzioni vitali (e quindi del bene vita ontologicamente diverso dal bene salute che ne costituisce semmai l’antecedente logico) diviene danno in sé e quindi
fonte di autonoma e distinta veste risarcitoria.
Con tale sentenza, si pone il passaggio del danno biologico iure hereditatis da danno temporaneo
da lesione della salute (apprezzato dalla vittima in un sensibile lasso di tempo) a perdita del bene
vita in quanto tale.
Il che rappresenta un quid pluris rispetto alla sentenza dell’11 novembre 2008 n. 26972.[18]
Vi è poi il recente D.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 il quale, a norma dell’art. 5, comma 1, lettera c), afferma che “la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico.”
Si rileva che il legislatore, nel collegare il decreto n. 37/2009 al d. Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private) indica che la determinazione del danno morale deve tener conto della lesione alla dignità della persona. Ciò conduce al risarcimento del danno biologico compatto e omologato, come previsto dagli articoli 138-139 del d. Lgs. n. 209/2005.
Recentemente, in linea con la sentenza n. 26972/2008, sono state emanate quindi le tabelle milanesi 2009 per la liquidazione del danno non patrimoniale. Con esse si propone la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a lesione permanente dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, sia nei suoi valori anatomo-funzionali medi ovvero peculiari unitamente alla liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza soggettiva. Tale ultima voce di risarcimento comprendeva precedentemente il danno biologico, la personalizzazione per particolari situazioni soggettive del danno biologico, e il danno morale. Importante è poi la personalizzazione del danno che viene affermata con queste tabelle.
La concretizzazione del risarcimento con riferimento alla persona sofferente del danno lamentato viene ottenuta attraverso la personalizzazione complessiva della liquidazione, qualora il caso presenti peculiarità che siano allegate e provate., sia con riferimento agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali, sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva.[19] Con riferimento all’adeguamento del risarcimento alle caratteristiche del caso concreto, una recente sentenza del Tribunale di Torino ha ribadito e rafforzato il criterio della personalizzazione affermato nelle tabelle milanesi, sostenendo che sulla base delle allegazioni delle parti e delle prove raggiunte è possibile modulare il trattamento liquidatorio anche al di sotto dei valori minimi e non solo oltre i massimi, laddove manchi del tutto la prova circa la sussistenza dei pregiudizi componenti il danno non patrimoniale ulteriori rispetto al danno biologico.[20] Questo il dato a tutt’oggi, in una materia in costante evoluzione.
Matteo Boscolo Anzoletti
[1] A. Barbera, Commento all’articolo 2 della Costituzione, in Commentario della Costituzione, Bologna 1975, p. 50 e ss.
[2] Corte Costituzionale, sentenza n. 184 del 14 luglio 1986, in Giurisprudenza Costituzionale, 1986, fasc. 8.
[3] CorteCostituzionale, sentenza n. 184 del 14 luglio 1986, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. fasc. 8.
[4] Corte Costituzionale, sentenza n. 372/1994, in Giurisprudenza Costituzionale, 1994, fasc . 5, p. 1267.
[5] Corte di Cassazione, sentenze n. 8827/2003 e n. 8828/2003 in Guida al Diritto, n. 25/2003, p. 38 e ss.
[6] Giurisprudenza Costituzionale 2003, 4
[7] Tribunale Milano, sez. VI, 04 marzo 2008, n. 2847.
[8] Tribunale Milano, sez. X, 30 aprile 2008, n. 5567.
[9] Tribunale Milano, sez. V, 25 marzo 2008, n. 3895.
[10] S.U. Corte di Cassazione 11.11.2008 n. 26972, in Guida al Diritto, n. 47 del 29 novembre2008, p. 20-21.
[11] P. CENDON-F. BILOTTA, Nota a Tribunale di Alba, 9 agosto 2004, in Resp. civ. e prev. 2005, 3, 815.
[12] P. CENDON, Prospettive del danno esistenziale, in Dir. famiglia 2000, 1, 257.
[13] P. ZIVIZ, Danno non esistenziale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, in Resp. civ. e prev. 2008, 5, 1011 B
[14] P. ZIVIZ, Recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di danno esistenziale. Il danno esistenziale dopo la svolta interpretativa del 2003, in Giur. Merito 2006, 5, 1077 B.
[15] Dr. ssa STEFANIA TASSONE, Giudice della Sezione III Civile del Tribunale di Torino, “Il danno esistenziale al vaglio del giudizio di serietà e rilevanza dell’offesa”.
[16] F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli 1998, p. 695.
17 A. TORRENTE-P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano 2004, p. 673.
[18] Corte di Cassazione, sezione III, 28/11/2008 n. 28407, in Guida al Diritto 2008 n. 50, con nota di F. Martini.
[19] (Le istruzioni dell’Osservatorio meneghino, Osservatorio per la giustizia civile di Milano-Tabelle “2009” per la liquidazione del danno non patrimoniale-Milano, 25 giugno 2009, in Giuda al Diritto, n. 29 del 18 luglio 2009, pag. XI).
[20] Tribunale di Torino, Sezione IV civile, sentenza 4 giugno 2009 n. 4297, in Guida al Diritto, n. 30 del 25 luglio 2009, pag. 23.
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