Scopo di questo articolo è ripercorrere l’evoluzione dogmatico-giurisprudenziale della responsabilità del medico, nel tentativo di ricostruire i passaggi più significativi della trasformazione del binomio responsabilità-regime probatorio così come delineato dall’ultimo intervento legislativo – legge ‘Gelli-Bianco’ n. 24/2017 -, seguendo l’iter tracciato dalla III Sezione Civile della Corte di Cassazione con i ‘dicta’ del 2019 e, in ultimo, con la pronuncia n. 5128 del febbraio 2020.
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Dalla ‘Balduzzi’ alla ‘Gelli – Bianco”: la responsabilità ‘extracontrattuale’ del sanitario e il regime probatorio.
Un primo intervento legislativo per contrastare la prassi della medicina difensiva è stato quello del decreto-legge ‘Balduzzi’1 del 2012, che qualificava espressamente la responsabilità del medico operante nella struttura sanitaria come una forma di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c..
Tuttavia, la giurisprudenza ha stabilito che il legislatore nella Balduzzi aveva utilizzato l’espressione “extracontrattuale” in modo improprio.
Il decreto Balduzzi aveva, infatti, introdotto una clausola di esonero da responsabilità penale per colpa lieve per il medico che, pur essendosi attenuto alle buone pratiche e alle linee guida approvate con scienza medica, fosse incorso in un difetto di perizia provocando le lesioni o la morte del paziente.
In tal caso, il medico rispondeva penalmente solo per colpa grave.
Tale distinzione, però, non si estendeva alla responsabilità civile, atteso che il medico che arrecava un pregiudizio al paziente, a prescindere dal difetto di diligenza in cui incorreva, rispondeva sia che avesse rispettato le linee guida, sia che non l’avesse fatto.
I giudici di legittimità, allora, osservarono che in realtà il richiamo all’art. 2043 c.c. non poteva essere considerato come espressione dell’intenzione del legislatore di voler superare l’orientamento giurisprudenziale del contatto sociale e della responsabilità sanitaria di tipo contrattuale.
Siffatta intenzione è stata, invece, espressa chiaramente nella legge “Gelli Bianco”2, che rappresenta il punto di arrivo dell’evoluzione giurisprudenziale della natura della responsabilità medica, e che si applica solo ai fatti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore.
La Gelli Bianco ha introdotto il cd. “doppio binario” di responsabilità, prevedendo all’art. 7 da un lato la responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. delle strutture sanitarie, in ragione del contratto di spedalità tra paziente ed ospedale; dall’altro, la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. dell’esercente la professione sanitaria nell’ambito della struttura sanitaria.
Sotto il profilo probatorio, quindi, laddove il giudizio sia promosso contro il medico, l’onere della prova è sempre a carico del paziente.
Il paziente che cita in giudizio il medico non dovrà soltanto allegare, bensì dovrà provare il fatto illecito dell’operatore sanitario, il danno evento subito ed il nesso eziologico che li lega, nonché l’elemento psicologico.
Con particolare riferimento al rischio della causa ignota relativa al secondo ciclo causale, che nella responsabilità contrattuale grava sul debitore ex art. 1218 c.c. – e, dunque, sul medico -, nella responsabilità aquiliana il rischio della causa ignota grava sul creditore – e quindi sul paziente – il quale, se non riesce a dimostrare al giudice il rapporto di causalità e la diligenza trasgredita dal medico non può ottenere il risarcimento del danno.
La ratio della allocazione del rischio in capo al paziente risiede chiaramente nella scelta mirata del legislatore di tutelare l’attività del medico, delineando un sistema di responsabilità più mitigato al fine di evitare proprio la pratica della medicina difensiva.
Le sentenze n. 28991/2019 e 28992/2019 della III Sezione Civile. Il primo ciclo causale nella responsabilità ‘contrattuale’ del medico.
Il quadro così delineato è stato di recente rivoluzionato dalla III Sez. Civile della Corte di Cassazione con le sentenze gemelle n. 289913 e 289924 del 2019 in tema di responsabilità sanitaria.
Il presupposto da cui partono i giudici di legittimità nelle pronunce del 2019 è che nella fattispecie della responsabilità contrattuale, rispetto a quella aquiliana, viene in rilievo un “duplice ciclo causale”, l’uno relativo all’evento dannoso a monte e l’altro relativo all’impossibilità di adempiere a valle.
Un primo ciclo causale è quello che si innesta tra la condotta tenuta dal debitore ed il danno evento subito dal creditore – cd. causalità materiale –, e tra il danno evento ed il danno conseguenza patito dal creditore– cd. causalità giuridica.
La rivoluzione compiuta dalla III Sezione ha riguardato proprio la causalità materiale nella fattispecie di inadempimento dell’obbligazione professionale assunta dal medico nei confronti del paziente.
Spiegano i giudici di legittimità che nelle obbligazioni comuni, la fattispecie dell’inadempimento coincide sostanzialmente con la causalità materiale.
In effetti, l’inadempimento consta nel mancato compimento della prestazione dovuta dal debitore, il quale ha così determinato la lesione dell’interesse del creditore ad ottenere la prestazione convenuta.
La causalità materiale, a sua volta, consta nel nesso eziologico intercorrente tra la condotta posta in essere dal debitore ed il danno evento patito dal creditore, danno che nelle obbligazioni comuni consiste anch’esso nella lesione dell’interesse del creditore ad ottenere la prestazione indicata nel contratto.
Se, ad esempio, il venditore non adempie all’obbligo di consegnare la cosa al compratore, con la sua inadempienza egli avrà leso l’interesse del compratore ad ottenere proprio la res pattuita nel contratto, provocando nient’altro che il danno evento costituente il secondo termine del nesso di causalità materiale.
Ordunque, nelle obbligazioni comuni, se è indubbio che inadempimento e causalità materiale sono sostanzialmente coincidenti, è altrettanto indubbio che il creditore non deve dare prova nel nesso di causalità materiale, ma sarà sufficiente la mera allegazione del nesso causale.
Essendovi, infatti, coincidenza con l’inadempimento, anche per il nesso causale materiale deve valere la regola enunciata dalle Sezioni Unite nel 20015, secondo cui la condotta dell’inadempiente, sostanziandosi in un fatto negativo, non deve necessariamente essere provata dal creditore, il quale potrà anche solo affermarne l’esistenza in giudizio.
Il creditore, al limite, è tenuto a fornire la prova della causalità giuridica, ossia a dare dimostrazione processuale che dal danno evento prodotto dalla condotta del debitore è altresì scaturito un danno conseguenza.
Tornando all’esempio del compratore, se da un lato può semplicemente allegare che la mancata consegna ha leso il suo interesse ad ottenere la cosa pattuita, d’altra parte egli dovrà dimostrare in giudizio che dalla lesione del suo interesse alla prestazione è scaturito un danno al patrimonio.
Tuttavia, siffatto iter logico-giuridico concernente le obbligazioni comuni non è allo stesso modo valevole anche per le obbligazioni professionali quale quella del medico.
Nell’alveo della responsabilità medica, come nell’alveo della responsabilità di ogni professionista, non è vero che la fattispecie dell’inadempimento coincide sostanzialmente con la causalità materiale.
Il medico, nel momento in cui stipula un rapporto contrattuale con il paziente, si assume l’obbligo di svolgere un’attività medica diligente, rispettosa delle linee guida e delle buone prassi.
La prestazione, cioè, a cui il medico è contrattualmente obbligato, è quella di curare il paziente con la diligenza di cui al co. 2 dell’art. 1176 c.c. che è pur sempre una diligenza media, solo che si sostanzia nello sforzo buono ma non eccezionale che non un uomo medio, bensì un professionista medio è tenuto a compiere nello svolgimento della prestazione.
Il medico, dunque, sarà inadempiente nei confronti del paziente allorquando non esegua la prestazione indicata nel contratto, ovvero non ponga in essere l’attività diligente a cui si era contrattualmente impegnato.
Nessun dubbio sussiste in ordine al fatto che tale inadempimento, conformemente a quanto asserito dalle Sezioni Unite del 2001, può essere semplicemente allegato dal paziente, che non deve dimostrare in giudizio la condotta negativa del medico.
Tuttavia, il mancato compimento dell’attività diligente non coincide affatto con il danno evento patito dal paziente.
L’inadempimento è sempre il mancato soddisfacimento dell’interesse del creditore ad ottenere la prestazione indicata nel contratto, che nel rapporto medico-paziente è lo svolgimento di una attività medica diligente.
Ma la lesione che il paziente ha materialmente subito a causa della condotta negligente del medico è un’altra, ossia la lesione del diritto alla salute, che costituisce appunto il danno evento.
La causalità materiale, quindi, non coincide con l’inadempimento, perché l’interesse danneggiato dalla condotta negativa del medico non è lo stesso interesse indicato nel contratto, ma un interesse diverso, ossia quello di salvaguardia del proprio diritto alla salute.
Orbene, siccome la fattispecie della causalità materiale non può dirsi coincidente con la fattispecie dell’inadempimento, ne consegue che essa non può soggiacere alla regola affermata nel 2001 della mera allegazione dell’inadempimento.
Il paziente, cioè, non può limitarsi ad affermare in giudizio di aver subito un danno alla salute a causa della negligenza del medico, ma sarà necessario che egli dia dimostrazione che, a causa della condotta del medico, si è verificata l’insorgenza di nuove patologie o l’aggravamento della situazione patologica in atto.
Il danno alla salute è la conseguenza naturalisticamente prodotta dalla condotta negativa del medico, la quale non può essere assoggettata al regime probatorio fissato dalle Sezioni Unite nel 2001, atteso che siffatto regime concerne solo ed esclusivamente la lesione dell’interesse dedotto nel contratto che, nella specie, è quello ad una diligente prestazione medica.
La dottrina ha sottolineato come l’importanza delle sentenze gemelle del 2019 è consistita proprio nel fatto di aver messo in evidenza che, se da un lato non può sussistere una distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, sotto il profilo del regime probatorio esiste, invece, una dicotomia tra obbligazioni comuni ed obbligazioni professionali.
Sul paziente, dunque, che intenda ottenere un risarcimento dei danni ex art. 1218 c.c. grava l’onere di allegare l’inadempimento del medico e di provare la causalità materiale, nonché la causalità giuridica, dimostrando il danno alla salute ed il conseguente danno dinamico – relazionale patito, ossia le ripercussioni che quel danno alla salute ha avuto sulla sua vita sociale e di relazione.
Il secondo ciclo causale.
Il regime probatorio, tuttavia, non si esaurisce in questo primo ciclo causale.
La III Sezione Civile compie, infatti, un ulteriore passo in avanti, affermando l’esistenza di un secondo ciclo causale, il quale stavolta deve, invece, necessariamente essere provato dal debitore.
In effetti, con riguardo in particolare alla responsabilità medica, una volta che il paziente/creditore ha provato la causalità materiale, il medico/debitore può provare l’esistenza di una causa esterna sopravvenuta che ha determinato l’impossibilità di adempiere alla prestazione.
L’art. 1218 cc., in effetti, pone a carico del debitore la prova liberatoria.
Tale onere probatorio per lungo tempo era stato inteso dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti nel senso che il debitore poteva esonerarsi dalla colpa provando di aver usato la media diligenza, la quale, tuttavia, non era stata sufficiente a superare la causa esterna sopravvenuta che aveva determinato l’impossibilità della prestazione.
Non occorreva che il debitore provasse la specifica causa esterna sopravvenuta, la quale poteva anche restare processualmente ignota.
Quello che contava, invece, era che il debitore dimostrasse che quella causa non era superabile nemmeno con la media diligenza.
Le sentenze gemelle del 2019 hanno assunto una posizione opposta, asserendo, al contrario, che la dimostrazione processuale della causa esterna è indispensabile, proprio al fine di provare il secondo ciclo causale che esonera il debitore dalla responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c..
Con riguardo sempre alla responsabilità medica, si è detto che grava sul medico l’onere di provare in giudizio l’assenza di colpa.
A tal fine non basta che il medico provi di aver svolto la sua attività professionale con la diligenza di cui all’art. 1176 co. 2 c.c., ma occorre un quid pluris.
Il medico, per andare esente da responsabilità contrattuale, deve altresì dimostrare che nel corso dell’espletamento della sua attività è sopravvenuto un determinato fattore esterno, afferente (ad esempio) alle condizioni fisiche del paziente, non suscettibile di essere bypassato nemmeno seguendo le linee guida e le buone prassi.
Laddove il medico si limiti a provare di aver agito con diligenza, non raggiungerebbe la prova liberatoria, poiché il secondo ciclo causale resterebbe indimostrato.
La diligenza, infatti, deve necessariamente essere parametrata alla specifica causa esterna sopravvenuta, perché il giudice deve poter verificare se quella causa specifica poteva effettivamente essere superata con la diligenza richiesta al professionista medio.
Pertanto, il rischio di una causa esterna processualmente ignota resta sempre a carico del debitore, professionale o comune, che, se non ne fornisce la prova, resta sempre contrattualmente responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c..
La responsabilità del medico che opera all’interno di una struttura sanitaria.
Diversa è la circostanza in cui il medico operi all’interno di una struttura sanitaria.
Prima della riforma Balduzzi del 2012, la giurisprudenza era alquanto controversa in ordine alla natura da attribuire alla responsabilità del medico operante all’interno di una struttura sanitaria.
Mai alcun dubbio è sussistito in relazione alla natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, sia che il paziente lamentasse un inadempimento proprio della struttura sia che lamentasse una condotta negligente del medico.
Nel primo caso, si riteneva che la struttura sanitaria rispondesse contrattualmente in virtù di quello che veniva definito “contratto di spedalità” stipulato con il paziente, un contratto atipico con il quale la struttura si obbligava ad eseguire non solo prestazioni principali di carattere sanitario, ma anche prestazioni secondarie ed accessorie (vitto, assistenza e alloggio).
Pertanto, se il paziente lamentava la lesione del suo interesse ad una permanenza confortevole nella struttura, dovuta alla cattiva organizzazione o ad un cattivo funzionamento dell’azienda ospedaliera, la struttura era responsabile per inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Nel secondo caso, invece, laddove il paziente avesse lamentato una lesione del diritto alla salute a causa di una attività del medico impiegato nella struttura, quest’ultima avrebbe sì risposto contrattualmente, ma ai sensi dell’art. 1228 c.c., ossia per fatto degli ausiliari.
Quanto alla responsabilità propria del medico operante nella struttura, secondo un primo orientamento tale responsabilità aveva natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c., atteso che il paziente non aveva stipulato alcun contratto con il medico ma solo con la struttura, per cui non sarebbe sorto alcun rapporto obbligatorio di tipo professionale.
Un secondo orientamento faceva, invece, leva sul concetto di “contatto sociale qualificato”, ascritto tra le fonti atipiche dell’obbligazione di cui all’art. 1173 c.c..
Si riteneva, in effetti, che tra medico e paziente si instaurasse sempre una relazione qualificata, scaturente da un incontro verificatosi in un contesto specifico e non nella normale vita di relazione. Pertanto, da tale incontro, sarebbe sorto un effetto obbligatorio simile a quello nascente dal contratto, che avrebbe creato una aspettativa in capo al paziente di ricevere una prestazione diligente da parte del medico che, in caso contrario, sarebbe andato incontro alla responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c..
La contrattualizzazione della responsabilità del medico operante nella struttura sanitaria produceva riflessi importanti sul piano probatorio.
Laddove si fosse optato per la natura extracontrattuale, sarebbe stato onere del paziente danneggiato provare il nesso di causalità tra la condotta posta in essere dall’operatore sanitario ed il danno alla salute subito nonché la colpa del medico, ai sensi dell’art. 2043 c.c..
Per altro verso, nel momento in cui tale responsabilità assumeva la natura di responsabilità contrattuale, l’onere della prova liberatoria si spostava in capo al medico inadempiente ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1218 e 1176 c.c., alla stregua del medico operante privatamente in forza di un vero e proprio contratto stipulato con il paziente.
Proprio questo ‘spostamento’ dell’onere probatorio sul medico, aveva determinato nella prassi la nascita della cd. ‘medicina difensiva’.
Il medico, infatti, era indotto a compiere scelte terapeutiche che più che essere finalizzate ad una effettiva tutela della salute del paziente, servivano all’operatore sanitario per precostituirsi una prova al fine di sottrarsi alla responsabilità contrattuale.
Onere della prova in ordine alla responsabilità del medico che opera all’interno di una struttura sanitaria. Cassazione, sentenza del 26 febbraio 2020 n. 51286.
In considerazione della responsabilità del medico operante all’interno di un struttura sanitaria, la Cassazione con la sentenza del 26 febbraio 2020 ha richiamato principi già espressi dalle Sezioni Unite7 prima delle riforme Balduzzi 2012 e Gelli-Bianco 2017, secondo cui oggetto della detta obbligazione non è solo la prestazione del medico, ma una prestazione complessa definita di assistenza sanitaria.
In particolare, veniva considerato irrilevante lo status giuridico del medico, nel momento in cui effettua la prestazione all’interno della struttura sanitaria, il quale è considerato ausiliario necessario, a prescindere dalla presenza di un rapporto di lavoro subordinato. Tale collegamento permane anche se il sanitario risulti essere di “fiducia del paziente”.
Al riguardo, è stato precisato che se il paziente si rivolge direttamente alla struttura sanitaria, della quale il medico fa parte, la responsabilità contrattuale della casa di cura si fonda sul contratto stipulato dal paziente. Qualora, invece, il rapporto sia sorto direttamente con il professionista di fiducia, ma sia stato comunque il paziente a rivolgersi alla struttura sanitaria, quest’ultima sarà responsabile anche in virtù del principio del contatto sociale. Infine, qualora il contratto sia stato concluso direttamente con il professionista e sia stato quest’ultimo a contattare la casa di cura per l’affitto delle attrezzature e la locazione della stanza, quest’ultima sarà responsabile solo per le prestazioni accessorie concordate con il paziente (ad esempio assistenza infermieristica, sala operatoria, ecc.).
In ordine all’onere probatorio, la Cassazione, richiamando i principi espressi dalle suddette pronunce, ha stabilito che il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Mentre, resta a carico del debitore l’onere di dimostrare o che non v’è stato inadempimento ovvero che l’inadempimento sia stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile, non eziologicamente riconducibile alla propria condotta.
Segnatamente, il creditore-paziente dovrà provare, sulla base del criterio ermeneutico del “più probabile che non”, che la condotta del sanitario sia stata causa del danno, determinato da un inadempimento “qualificato”, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
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Note
1 D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito in L. 189/2012
2 L. 8 marzo 2017, n. 24
3 Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza, 11 novembre 2019, n. 28991, secondo la quale “In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione.”
4 Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza, 11 novembre 2019, n. 28992, secondo la quale “La causalità attiene al collegamento naturalistico fra fatti accertato sulla base delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali. Essa attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e fra quest’ultimo e le conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale, integrato, se del caso, da quelli dello scopo della norma violata e dell’aumento del rischio tipico, previa analitica descrizione dell’evento (cfr. Cass. sez. U. 11 gennaio 2008, n. 576 pag. 13 e Cass. 11 luglio 2017, n. 17084), mentre su un piano diverso si colloca la dimensione soggettiva dell’imputazione. Quest’ultima corrisponde all’effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento sulla base di un criterio di valore, che è rappresentato dall’inadempienza nella responsabilità contrattuale e dalla colpa o il dolo in quell’aquiliana (salvo i casi di imputazione oggettiva dell’evento nell’illecito aquiliano – articoli 2049, 2050, 2051 e 2053 c.c.).”
5 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza, 30 ottobre 2001, n. 13533
6 Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza, 26 febbraio 2020, n. 5128
7 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza, 11 gennaio 2008, n. 577
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