Cenni sulle conseguenze patrimoniali della crisi dei rapporti familiari
Secondo l’art 29 Cost., il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Il testo originario del codice civile, era invece improntato alla supremazia del marito, identificato come il “capo della famiglia”, titolare di una “potestà maritale” nei confronti della moglie.
La riforma del 1975 ha affermato, come primo e fondamentale principio regolatore dei rapporti coniugali, quello per cui con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Il principio di parità è stato sancito anche quanto ai doveri di solidarietà economica: entrambi i coniugi sono infatti tenuti, in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Il codice civile, ispirato inizialmente al principio della indissolubilità del matrimonio, prevedeva, in caso di dissidi tra i coniugi, la possibilità di addivenire ad una separazione personale: l’istituto è rimasto nel nostro ordinamento anche dopo l’introduzione del divorzio, ma è stato profondamente modificato con la legge di riforma del diritto di famiglia del 1975.
La separazione personale, a differenza del divorzio, non comporta la cessazione degli effetti giuridici del matrimonio, essendo considerata dalla legge come situazione in sé transitoria: la stessa può essere cessata in qualsiasi momento, senza bisogno di formalità alcuna, con una riconciliazione che può manifestarsi anche in via di mero fatto, mediante la ripresa della convivenza.
Il codice si occupa solo della separazione legale: si può però avere anche una separazione di fatto, ossia un’interruzione della convivenza coniugale non sanzionata da alcun provvedimento giudiziale, ma voluta e attuata liberamente sulla base di un accordo informale dei coniugi.
La separazione può essere giudiziale o consensuale. Secondo le norme previgenti, la separazione giudiziale poteva essere ottenuta dal coniuge soltanto adducendo una “colpa” dell’altro, che doveva necessariamente consistere in una delle cause di separazione tassativamente elencate nel testo allora vigente del codice civile.
L’art. 151 comma 1 c.c., consente invece oggi a ciascun coniuge di chiedere la separazione per il solo fatto che la prosecuzione della convivenza sia diventata intollerabile ovvero tale da recare grave pregiudizio all’ educazione della prole. Qualora sia possibile far risalire la responsabilità del fallimento della vita in comune a comportamenti contrari ai doveri che derivano dal matrimonio, il giudice, purchè gli sia chiesto, può dichiarare nella sentenza a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione: il che, come si vedrà, spiega effetti soltanto di ordine patrimoniale e successorio.
Qualora uno dei coniugi non abbia redditi propri adeguati, il giudice può imporre all’altro l’obbligo di versare un assegno di mantenimento periodico corrispondente a quanto necessario al suo mantenimento, la cui entità deve essere determinata tenendo conto dei redditi del coniuge obbligato e dei bisogni dell’altro. La Suprema Corte ha inoltre ritenuto che la mancata istaurazione della comunione materiale e spirituale propria del matrimonio (nel caso specifico il matrimonio era durato meno di cento giorni e la convivenza meno di dieci) esclude la sussistenza dei presupposti per la debenza dell’assegno di mantenimento (Cass. n. 6164/2015).
L’assegno non può essere attribuito al coniuge cui sia stata addebitata la responsabilità della separazione, al quale, pur ricorrendone i presupposti, può essere riconosciuto soltanto il diritto agli alimenti, cioè a ricevere periodicamente una somma nei limiti di quanto necessario al suo sostentamento. Il coniuge cui sia stata addebitata la responsabilità della separazione, vede gravemente limitati anche i suoi diritti successori nei confronti del patrimonio dell’altro coniuge.
Inoltre, anche nel caso in cui gli sia stata addebitata la separazione, al coniuge separato spetta la pensione di reversibilità.
Ad ogni modo, le statuizioni contenute nella sentenza di separazione, possono essere in qualsiasi momento modificate o revocate dal tribunale, per tenere conto di eventuali mutamenti della situazione di fatto.
Finora si è parlato della separazione giudiziale, ma la separazione può essere anche consensuale: per quest’ultima, non è sufficiente il solo consenso dei coniugi che trovano un accordo sulle condizioni della separazione, ma è altresì necessaria l’omologazione del tribunale. Tale provvedimento non è una semplice formalità, non solo perché prima di concedere l’omologazione il presidente del tribunale deve esperire un tentativo di conciliazione, ma soprattutto perché l’accordo dei coniugi non può essere omologato qualora sia in contrasto con l’interesse dei figli.
E’ inoltre importante osservare come la l. n. 162/2014, abbia introdotto due nuove modalità per separarsi, divorziare o modificare le condizioni di separazione o di divorzio, senza l’intervento del giudice: la negoziazione assistita e gli accordi conclusi dinnanzi al Sindaco nella veste di Ufficiale dello stato civile, con l’assistenza soltanto facoltativa degli avvocati.
Quanto agli effetti, oltre a quanto già precisato, con la separazione personale (giudiziale o consensuale) cessano per entrambi i coniugi l’obbligo di convivenza e l’obbligo di assistenza in tutte le forme che presuppongono la convivenza; l’obbligo di fedeltà, secondo l’opinione maggiormente diffusa, risulta attenuato; non cessa l’obbligo di collaborazione, specie con riguardo ai figli; cessa la presunzione di paternità; si scioglie la comunione legale dei beni.
E’ ben noto che, con la l. n. 898/1970, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del divorzio. Tale legge è stata più volte modificata e integrata: da ultimo, è intervenuta la l. n. 55/2015, sul cosiddetto “divorzio breve”.
Il divorzio si atteggia nell’ordinamento italiano quale rimedio al fallimento coniugale, ed è quindi ammissibile solamente quando la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostruita. L’accertamento di tale dissoluzione dell’unione coniugale, ai fini dello scioglimento, con i conseguenti effetti giuridici, è però ammissibile esclusivamente quando ricorra una delle cause indicate dall’art. 3 della legge sopra citata. Tra queste, quella statisticamente e socialmente di gran lunga più importante, è costituita dalla separazione; vi sono tuttavia altre cause che rendono ammissibile il divorzio, tra cui, a titolo esemplificativo, una condanna penale passata in giudicato di particolare gravità o la mancata consumazione del matrimonio.
L’assegno divorzile
Con la sentenza di divorzio, il tribunale può disporre l’obbligo per uno dei due coniugi di corrispondere all’altro un assegno periodico (di regola mensile), purchè quest’ultimo non disponga di mezzi adeguati e comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive. La misura dell’assegno è determinata discrezionalmente, tenendo conto di numerosi fattori, menzionati dalla legge: le condizioni economiche e sociali dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno di essi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello di ciascuno di essi e il reddito di entrambi. Tutti i suddetti elementi devono essere valutati anche in rapporto alla durata del matrimonio.
Secondo un tradizionale indirizzo della giurisprudenza, l’assegno divorzile doveva essere idoneo a consentire al coniuge beneficiario di conservare un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio.
Parte della dottrina riteneva invece che l’assegno dovesse essere limitato alle risorse necessarie per assicurare all’ex coniuge un regime di vita decoroso, ma non necessariamente conforme a quello di cui godeva durante la convivenza. Il suddetto criterio non è stato ritenuto illegittimo da Corte Cost. n. 11/2015, ma sul presupposto che esso è solo uno dei criteri che il giudice è chiamato ad applicare, dovendo egli in ogni caso determinare l’assegno in modo equilibrato sulla base di tutti i parametri indicati dalla legge.
Il tema è stato recentemente oggetto di un intenso dibattito giurisprudenziale.
Con la sent. n. 11504/2017, la Corte di Cassazione aveva innovato l’orientamento precedente, affermando che l’assegno, avendo natura assistenziale, spetta esclusivamente all’ex coniuge che sia privo di mezzi economici adeguati ad assicurargli una condizione di autosufficienza economica e che non possa procurarseli per ragioni oggettive, escludendosi un diritto alla conservazione del tenore di vita goduto durante il matrimonio.
I due orientamenti interpretativi appena prospettati, hanno trovato una sintesi in una nota sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass., sez. un., n. 18278/2018) : secondo i giudici, ai fini della determinazione dell’assegno, occorre tener conto non solo del tenore di vita dei coniugi precedente lo scioglimento del matrimonio, ma di un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente l’assegno, alla formazione del patrimonio comune e personale dell’altro coniuge, alla durata del matrimonio, nonchè alle potenzialità future ed all’età dell’avente diritto.
Ed infatti, il contributo fornito alla conduzione della vita familiare, costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi che possono incidere sul profilo economico-patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine del matrimonio.
Pertanto, secondo le sezioni unite, l’assegno di divorzio avrà, al contempo, natura assistenziale, compensativa e perequativa. Siffatta natura discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, che trova il suo referente nell’art. 2 Cost.
Il criterio “composito” sottende, secondo la Corte, un giudizio prognostico sulla concreta possibilità per il richiedente di recuperare il pregiudizio professionale derivante dall’assunzione di un impegno, nell’ambito del rapporto coniugale, che abbia impedito o ridotto l’attività lavorativa, sicchè al coniuge economicamente più debole risulti riconosciuto, nell’ambito della quantificazione dell’assegno, l’impegno e il contributo personale al benessere della famiglia.
La Cassazione, nell’occasione, ha pure chiarito l’iter di determinazione del quantum debeatur.
In specie, lo squilibrio economico patrimoniale tra i coniugi costituisce una precondizione fattuale, il cui accertamento è necessario per l’applicazione dei parametri di cui all’art. 5, comma 6°, prima parte, l. n. 898 del 1970.
Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge richiede, ai fini dell’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, l’applicazione dei criteri contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, i quali costituiscono, in posizione equiordinata, i parametri cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.
Il giudizio, premessa la valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, deve avere per oggetto, come già sopra accennato, una indagine attorno al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, al contributo offerto alla formazione del patrimonio personale di ciascuno degli ex coniugi e infine, deve tenere conto della durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto.
In forza del principio costituzionale di solidarietà, l’assegno così determinato sarà tale da consentire al richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare.
Ad ogni modo, la sentenza di divorzio deve anche stabilire un criterio di adeguamento automatico periodico dell’assegno, con riferimento agli indici di rivalutazione monetaria. Inoltre la misura dell’assegno è sempre rivedibile, in caso di mutamento delle circostanze.
Su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno può avvenire anche in un’unica soluzione, purchè l’attribuzione sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso, tuttavia, non può essere in seguito proposta alcuna domanda di contenuto economico; pertanto l’avente diritto all’assegno che pattuisca la corresponsione in un’unica soluzione, non può reclamare altre provvidenze, neppure in caso di sopravvenute esigenze economiche.
L’obbligo di corresponsione dell’assegno, cessa peraltro se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze, perché in tal caso acquista diritto all’assistenza economica nei confronti del nuovo coniuge.
L’istaurazione da parte dell’ex coniuge di una convivenza di fatto
La giurisprudenza si è inoltre orientata, dopo un pluriennale dibattito, a ritenere che anche l’istaurazione di una nuova convivenza, determinando la costituzione di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, da parte del divorziato, ha l’effetto di estinguere ogni rapporto post-matrimoniale, con conseguente cessazione automatica del diritto all’assegno (Cass. n. 2466/2016; Cass. n. 6855/2015). Sulla base di tale orientamento, qualora la convivenza cessi, l’ex coniuge che venga nuovamente a trovarsi in stato di bisogno, non può ottenere il ripristino del trattamento economico a suo favore.
Tuttavia di recente, con l’ordinanza n. 28995/2020, la Prima Sezione della Corte di Cassazione, ha sollecitato un nuovo intervento delle Sezioni Unite sulla estinzione automatica dell’assegno divorzile.
In particolare, il rimettente, alla luce della funzione retributivo-compensativa dell’assegno, dubita della possibilità di fare applicazione dell’ormai consolidato orientamento che impone l’estinzione automatica dell’assegno una volta accertata una sopravvenuta stabile convivenza di fatto.
Se la legge individua nel nuovo matrimonio la causa di estinzione dell’assegno, l’interpretazione evolutiva inaugurata dalla giurisprudenza ha ampliato il perimetro dell’art. 5, comma 10, l. divorzio, anche alle altre formazioni sociali, tutelate ai sensi dell’art. 2, 3, 29 e 30 Cost. Tra queste si annoverano le convivenze more uxorio, dotate di una relazione affettiva e di un carattere di stabilità.
In questo senso, è stato affermato che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, realizza una rescissione rispetto ad ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale.
L’opzione esegetica in esame trova applicazione dal 2015 e da allora individua nel nuovo costrutto sociale una cesura che fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge.
Come è evidente, tale l’automatismo estintivo, deriva dalla lettura marcatamente assistenziale dell’assegno, alla stregua del tenore di vita precedentemente goduto: occorre allora verificare se tale orientamento possa resistere oggi alla funzione equilibratrice dell’assegno divorzile, affermata, come già osservato, dalla Cassazione nel 2018.
Nulla quaestio per quanto concerne i casi in cui non sussiste un contributo alla formazione del patrimonio familiare o dell’ex coniuge. Diversamente, il dubbio si pone a fronte di una accertata attività del soggetto economicamente più debole tesa ad accrescere o quantomeno a preservare siffatto reddito. Per i giudici va dunque colta l’esigenza di dare all’assegno divorzile una lettura che, emancipandosi dalla prospettiva diretta a valorizzarne la natura assistenziale, resti invece finalizzata a riconoscere all’ex coniuge economicamente più debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione per la formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’altro coniuge. In altre parole, il beneficiario gode dell’assegno divorzile non solo perché soggetto economicamente più debole, ma anche per quanto egli abbia fatto e sacrificato nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge, il tutto per un percorso in cui le ragioni assistenziali perdono di forza, lasciando il posto a quelle dell’individuo e della sua dignità.
Pertanto, la Cassazione ritiene che il principio di autoresponsabilità, come ricostruito anche alla luce della citata sentenza delle Sezioni Unite del 2018, non possa escludere e per intero il diritto all’assegno divorzile là dove il beneficiario abbia instaurato una stabile convivenza di fatto con un terzo. A tal fine, si ritiene necessaria una differente declinazione, più vicina alle ragioni della concreta fattispecie, e in cui si combinano la creazione di nuovi modelli di vita con la conservazione di pregresse posizioni, in quanto entrambe esito di consapevoli e autonome scelte della persona.
In conclusione, la Prima Sezione sollecita l’intervento delle Sezioni Unite per stabilire se “instaurata la convivenza di fatto, definita all’esito di un accertamento pieno su stabilità e durata della nuova formazione sociale, il diritto dell’ex coniuge, sperequato nella posizione economica, all’assegno divorzile si estingua comunque per un meccanismo ispirato ad automatismo, nella parte in cui prescinde di vagliare le finalità proprie dell’assegno, o se siano invece praticabili altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato all’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, sostengano dell’assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione, anche, se del caso, per una modulazione da individuarsi nel contesto sociale di riferimento”.
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