Anna Costagliola
Nella fattispecie del contratto di associazione in partecipazione non può ritenersi la prestazione dell’associato limitata ad una mera prestazione di opera intellettuale, consistente nell’applicazione delle proprie capacità intellettive e non nell’obbligo di inventare prodotti perfetti e funzionali, tali da raggiungere il successo commerciale. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7426 del 14 maggio 2012 con cui ha accolto il ricorso dell’associante che, in sede di merito, aveva visto per ben due volte rigettata la propria domanda di risoluzione del contratto di associazione in partecipazione per grave inadempimento dell’associato e di conseguente risarcimento del danno.
In particolare, la Corte ha ritenuto la impugnata sentenza di appello inficiata da difetto di motivazione per una incongruità di carattere logico cui essa è pervenuta all’esito dell’iter interpretativo del testo del contratto. Da un lato, infatti, si afferma che l’associato era tenuto a mettere a disposizione ogni sua energia intellettuale e fisica necessaria per realizzare determinati prodotti da immettere sul mercato. Dall’altro, per contro, si riconosce che la prestazione a carico dello stesso associante, individuata nello studio, nel coordinamento stilistico nei disegni tecnici e in ogni consulenza necessaria per la realizzazione dei prodotti costituenti l’oggetto dell’associazione, non andasse al di là della mera prestazione di opera intellettuale, svincolata da qualsivoglia obbligo di ideare prodotti da utilizzare a fini commerciali.
I giudici di legittimità rilevano, sul punto, come la mera prestazione di un’opera progettuale slegata da qualsivoglia riscontro della sua utilizzabilità sul piano commerciale si palesi come del tutto inutile ai fini perseguiti dall’associazione in partecipazione. D’altra parte, appare assolutamente illogico un comportamento negoziale inteso all’acquisizione di una prestazione di mero contenuto intellettuale, altrimenti acquisibile mediante un semplice contratto d’opera, senza coinvolgere il progettista nell’impresa.
Concludono pertanto gli Ermellini nel senso che, nel giudizio di merito, in sede di interpretazione del contratto non si è tenuto conto della piena sinallagmaticità del rapporto, per cui l’associante doveva adoperarsi a reperire finanziamenti e curare l’aspetto commerciale, mentre l’associato avrebbe dovuto ideare prodotti da immettere sul mercato per la loro commercializzazione, prodotti tuttavia che sono risultati gravati da importanti vizi di progettazione. Escluso, quindi, che il progettista possa evitare il risarcimento danni per inadempimento, sostenendo di essere vincolato ad una mera prestazione intellettuale, i giudici della Cassazione rimettono la parola al giudice del rinvio.
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