Succede spesso che pronunzie giurisdizionali suscitino interesse e clamore nell’opinione pubblica, in quanto riprese dagli organi di stampa e dai media televisivi, con un’enfasi talora eccessiva e sproporzionata rispetto alla realità della portata dell’evento giuridico.
E’ certamente questo il caso della pronunzia del Supremo Collegio, in materia di responsabilità penale del datore di lavoro che abbia avuto alle sue dipendenze un cittadino extracomunitario privo di permesso di soggiorno, che si commenta.
Nella specie, infatti, la Corte di Cassazione, con motivazione estremamente sintetica, riafferma un principio giurisprudenziale che, già in epoca passata, ha trovato adesione nelle decisioni di legittimità e che, pertanto, appare privo del carattere dell’originalità, siccome non inedito.
L’interesse che, in realtà, siffatta pronuncia può sollevare, sul piano giuridico, attiene alla circostanza che persiste, in ambito di legittimità, una visione estremamente “rigorista e massimalista” dell’interpretazione dell’art. 22 comma 12° d.l.vo 286/1998, indubbiamente sorda – nella sua astrattezza – alla necessità di comparare la norma alla concretezza delle vicende fattuali, pur senza giugnere ad uno stravolgimento della stessa.
Già con la pronunzia Pace dell’8 Febbraio 2005, n. 8661 (rv. 230911), (in Riv. Pen., 2006, 2, 253 e Mass. Giur. Lav., 2005, 12, 986) la I Sezione della Corte Suprema aveva sostenuto in modo del tutto lapidario che “Integra il reato di illegale assunzione al lavoro di stranieri (art. 22, comma dodicesimo, D.Lgs. n. 286 del 1998) l’occupazione di lavoratori privi del permesso di soggiorno, anche se con il "patto di prova" previsto dall’art. 2096 c.c., in quanto la norma non distingue tra rapporti di lavoro stabili o soggetti a condizione”.
Nel caso cui si opera richiamo, i giudici di legittimità avevano avuto modo di valutare proprio una situazione nella quale la difesa aveva invocato, quale scriminante del comportamento penalmente sanzionato, la circostanza che il lavoratore straniero fosse stato assunto interinalmente, a titolo di prova.
Or bene, emerse anche in quell’occasione che tale tipologia di assunzione del dipendente non potesse assolutamente sfuggire alla più generale previsione normativa data dal comma 12 dell’art. 22 d.l.vo 286/98.
Si può tranquillamente affermare che la posizione del Supremo Collegio ha, quindi, sempre presentato connotati di totale rigore sullo specifico punto, in quanto i giudici di legittimità hanno escluso recisamente, infatti, in ogni loro pronunzia qualsiasi eventualità derogatoria al principio generale portato dalla disposizione di legge.
In tale ottica, quindi, è apparsa naturale l’assimilazione nel concetto di datore di lavoro, sia dell’imprenditore che di altro soggetto privato che “assuma alle proprie dipendenze, a tempo determinato o indeterminato, dietro la corresponsione di un compenso, una o più persone, aventi il compito di svolgere un’attività lavorativa subordinata di qualsiasi natura”.
La Corte [Sez. I, 04-04-2003, n. 25665, Iovino, Guida al Diritto, 2003, 38, 94] ha, pertanto considerato "datore di lavoro" anche il semplice cittadino che assuma alle proprie dipendenze una singola persona per svolgere attività di collaborazione domestica o di "badante".
Chi scrive, però, non reputa di poter condividere l’arroccamento su tali trincee interpretative, che – come già rilevato – appaiono sintomatiche di una frattura nel processo valutativo fra teorico stereotipo normativo e concreta realtà del fatto specifico.
Quale effetto naturale, quindi, alla notevole severità della Corte hanno fatto da contraltare, invece, pronunzie di merito dissenzienti rispetto all’indirizzo esplicitato, che hanno configurato ipotesi di disapplicazione del disposto dell’art. 22 citato.
E’ il caso, ad esempio, del Tribunale di Genova, che, con la pronunzia 7 Gennaio 2004, (in Guida al Diritto, 2004, 13, 82) ha ritenuto che “Nel caso in cui il lavoratore extracomunitario abbia presentato domanda rivolta a ottenere permesso di soggiorno, sulla base della circolare del 25 novembre 1991 del ministero del Lavoro e della previdenza sociale, secondo cui l’assunzione del lavoratore extracomunitario può avvenire dopo la presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno e prima del rilascio effettivo, va esclusa la sussistenza del reato di cui all’articolo 22, comma 12, della legge 286 del 1998, quantomeno sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato”.
Si tratta di una decisione particolarmente importante.
Essa, infatti:
a). da un lato, focalizza la scansione temporale degli adempimenti amministrativi rilevanti, in base ai quali l’assunzione di un cittadino extracomunitario può essere effettuata in ossequio alle normative vigenti e non costituisc e reato,
b) dall’altro, sopratutto, pone l’accento sul dovere attribuito al giudice di dare corso alla valutazione concernente l’elemento psicologico dell’indagato, aspetto che, in relazione ai reati contravvenzionali, usualmente viene pretermesso, in ossequio al principio che, in assenza di dolo, la colpa debba essere presunta.
Sotto il profilo dell’ipotizzazione della violazione penale, appare, poi, significativo che il Tribunale ritenga non configurabile il reato in ogetto, proprio l’assunzione della persona, ove essa avvenga nel lasso di tempo che va dalla presentazione della richiesta di permesso di soggiorno al rilascio vero e proprio dello stesso.
Si tratta di un orientamento di merito che appare assolutamente improntato a ragionevolezza e che merita adesione, siccome esso non risulta, ispirato a pura teoria e non è affatto svincolato da quelle quotidiane dinamiche fattuali che connotano le procedure di acquisizione del permesso di soggiorno da parte dei cittadini extracomunitari.
Esso, inoltre, privilegia l’analisi completa del comportamento del datore di lavoro, [soggetto che può essere indagato].
Viene, infatti, operata una naturale quanto opportuna distinzione fra colui che assuma con atteggiamento di attenzione consapevole nei confronti della effettiva condizione dello straniero e, quindi, lo assuma sul presupposto o della regolarità o della regolarizzazione in atto della situazione, rispetto a chi, invece, non si ponga proprio tale problema e scientemente eluda la legge, mirando solo a costruirsi falsi alibi processuali.
La specificazione del giudice di merito, a parere di chi scrive, si pone, quindi, in contrasto proprio con quanto affermato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, laddove il Collegio sostiene che la sentenza della Corte d’Appello di Milano va confermata, perchè la motivazione addotta “appare invece del tutto congrua e logica non potendo l’imputato invocare la sua buona fede, visto che doveva sapere che la legge richiede il permesso di soggiorno per potere assumere una cittadina extracomunitaria, e visto che anche un’assunzione in prova costituisce instaurazione di un rapporto di lavoro”.
La Suprema Corte, infatti, in tal modo esclude, peraltro, in maniera poco convincente:
- che il datore di lavoro possa ritenere ammissibile e non penalmente sanzionabile l’assunzione di un cittadino di cui sia provata la effettiva condizione di attesa dell’emisisone di provvedimento di regolarizzazione della propria posizione in Italia;
- che, comunque, sia percorribile la via dell’esame dell’elemento piscologico dell’indagato, proprio in relazione a siffatto specifico profilo.
A fronte dei due punti che precedono non si possono non ribadire le perplessità già manifestate in precedenza.
Parimenti dissonante dall’insegnamento di legittimità è la recente pronunzia del Tribunale di Trento del 30 Settembre 2005, (Degiampietro e altri, in Riv. Pen., 2006, 2, 217).
L’ottica di intervento dei giudici trentini seppur, all’apparenza parzialmente differente (nel caso concreto il mancato rilascio del permesso di soggiorno sarebbe dipeso esclusivamente da ritardi burocratici), nella sostanza risulta sempre orientato nel senso di considerare la liceità dell’assunzione di cittadini extracomunitari privi temporaneamente di permesso di soggiorno.
La prospettiva da cui muove il Tribunale è anch’essa, pertanto, del tutto differente, rispetto a quella del Supremo Collegio.
Anche in questo caso, infatti, il giudice di merito ammette che si possa procedere all’assunzione, nonostante il permesso di soggiorno non sia stato ancora rilasciato sall’autorità competente, cioè il perfezionamento del rapporto sinallagmatico può avvenire in pendenza del procedimento amministrativo.
In buona sostanza se, per la Corte di Cassazione il rilascio del permesso di soggiorno concreta un vero e proprio effetto costitutivo della legittimazione dello straniero al lavoro, momento prima del quale non è per nulla possibile stipulare rapporti leciti (a pena di commissione del reato in disamina), per il giudice di merito è, invece, possibile una ratifica successiva, attraverso la valorizzazione della procedura di regolarizzazione (la cui sussistenza sia provata in nuce) che si ponga come conseguenza logica all’assunzione.
Vale a dire, quindi, che l’interpretazione ermeneutica del pensiero del Tribunale porta indiscutibilmente a ritenere che, diversamente da quanto opinato dalla Corte Suprema, la quale nega la correttezza dell’instaurazione del rapporto lavorativo, in carenza di documentazione idoneo a dimostrare, già in tale fase, la regolare presenza dello straniero in Italia, il conseguimento del detto permesso, anche in prosieguo di tempo (purchè sia stata avviata procedura in tale senso all’atto dell’assunzione), si pone come causa di non punibilità del datore di lavoro.
Nel caso specifico trattato dal Tribunale di Trento, l’esimente in questione ha trovato ulteriore elemento di rafforzamento e conferma nel fatto che sussistesse un ritardo nel rilascio dell’autorizzazione amministrativo non imputabile allo straniero interessato, bensi proprio alla P.A., ma – si ribadisce – questo è profilo non decisivo ai fini che ci occupano
[1].
In dissenso dall’orientamento di merito sin qui richiamato, va segnalato il Tribunale di Milano (Sez. IX, 24 settembre 2004)
[2], il quale riconoscendo titolarità dell’azione civile nel processo penale per violazione dell’art. 22 comma 12, alle organizzazioni sindacali, ha evidenziato l’antigiuridicità dell’utilizzo di manodopera priva dei documenti di soggiorno ed il correlativo favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sicocme comportamenti che permettono l’occupazione di un rilevante numero di lavoratori irregolari clandestini, come tali privi della possibilità di rivendicare diritti sindacali e di avvalersi dei trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva.
Appare, a parere di chi scrive, quindi, la necessità di seguire la via proposta dai giudici di merito, che si pone contraddistingue per il suo equilibrio.
In buona sostanza, appare chiaro che il testo normativo sia sufficientemente indentificativo quelle situazioni che il legislatore ha reputato meritevoli di sanzione penale, anche se va riconosciuto che il modello legislativo utilizzato, che ricalca, per sommi capi, il disposto dell’art. 14 comma 5 ter, può presentare zone di ombra, cioè si dimostrino inidoneo a coprire tutte le possibili fattispecie.
A conferma di quest’ultimo timore va rilevato che non è un caso che, nelle plurime ipotesi portate dal testo del comma 12
[3] dell’art. 22, non rientri il caso del lavoratore privo di permesso di soggiorno, per mancato rinnovo dello stesso pur in presenza di rituale domanda di rinnovo.
Ciò premesso, mantenendo fermo l’impianto precettivo-sanzionatorio vigente, una serena e seria interpretazione dello stesso deve, però, indurre a ritenere che il momento di commissione dell’illecito previsto deve essere individuato nell’atto di assunzione dello straniero di cui il datore di lavoro conosca la condizione di piena clandestinità, cioè di soggetto non solo privo del permesso di soggiorno, ma assolutamente inerte rispetto all’attivazione di procedure strumentali all’acquisizione dello stesso, per non averle attivate in quella fase.
Vale a dire che, ad opinione di chi scrive, la giurisprudenza di merito – nelle due situazioni delineate in precedenza – ha fatto certo buon uso della discrezionalità tecnica del giudice, posto che se si fosse dovuto seguire il rigidissimo orientamento invalso presso la Suprema Corte, anche in presenza di situazioni nella quali sia ravvisabile una circostanza esimente, si dovrebbe ravvisare la responsabilità dell’imputato.
In concreto credo, quindi, che il giudice debba pervenire ad una decisione sulla base di tre criteri.
- Un giudizio ex post, cioè verificare se al momento in cui il rapporto di lavoro è stato instaurato fra le parti – pur in assenza del permesso di soggiorno – fosse in corso concretamente da parte dello straniero una procedura per l’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa.
- Un giudizio involgente la reale conoscenza – da parte del datore di lavoro – della situazione del dipendente e cioè se l’assuntore abbia attivato meccanismi concreti e seri di verifica del fatto ed abbia constatato se fosse notoria e, sopratutto, documentata la circostanza che era in corso un procedimento amministativo volto alla regolarizzazione del cittadino straniero.
Questo passaggio appare infatti particolarmente importante, perchè un simile controllo, ove dimostrasse che il datore di lavoro era consapevole dell’insussistenza di qualsiasi procedura o non fosse in grado di provare la pendenza della procedura di regolarizzazione, potrebbe escludere in radice la possibilità di addurre una condizione di buona fede.
- Un giudizio afferente alla condotta successiva all’assunzione, posto che dovrebbe essere fornito riconoscimento, a fini di esimente penale, alla eventuale interruzione del rapporto di lavoro, solo se intervenuto immediatamente all’atto della conoscenza della impossibilità a pervenire alla regolarizzazione della posizione dello straniero e se tale condotta possa essere provata documentalmente con data certa.
La ragione dei criteri sopra esposti deriva dalla considerazione che un eccesso di rigorismo, avrebbe un effetto boomerang in quanto finirebbe per colpire – in concreto – non solo i datori di lavoro, ma sopratutto dipendenti stranieri, i quali per svariate ragioni in attesa del permesso, lo venissero ad ottenere purtroppo troppo tardi rispetto all’opportunità lavorativa.
Allo stato pare prevalere, quanto meno nell’immaginario collettivo giuridico, la posizione della Corte Suprema, ma attese la condivise resistenze interpretative della giurisprudenza di merito, non è illogico attendersi nuovi motivi di conflitto e nuove occasioni di confronto serrato.
Rimini, lì 15 Novembre 2006
Carlo Alberto Zaina
Cassazione – Sezione prima penale –
sentenza 25 ottobre-13 novembre 2006, n. 37409 in materia di immigrazione e lavoro
Presidente Fazzioli – Relatore Piraccini
Pg Consolo – Ricorrente ***
Fatto e diritto
La Ca di Milano confermava la sentenza di condanna emessa dal Tribunale della stessa città nei confronti di *** *** per il reato di cui all’articolo 22 legge 286/98, per avere occupato alle proprie dipendenze una cittadina extracomunitaria priva del permesso di soggiorno. Rilevava che l’imputato aveva sostanzialmente ammesso il fatto limitandosi a sostenere che aveva ritenuto in buona fede di poterlo fare in quanto la donna gli aveva mostrato la richiesta per ottenere il permesso di soggiorno. Secondo la Corte il principio di buona fede non era invocabile da parte dell’imputato in quanto a lui incombeva l’obbligo di prendere visione del permesso di soggiorno prima di assumere la cittadina extracomunitaria, non essendo sufficiente la semplice richiesta. Inoltre il *** conosceva la situazione della donna in quanto abitava vicino alla sua trattoria, la pena appariva congrua visto che vantava precedenti penali proprio in materia di violazione delle norme sul lavoro.
Contro la decisione presentava ricorso l’imputato deducendo:
– manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui dava per scontato che egli conoscesse la condizione di clandestina della donna solo perché abitava vicino alla sua trattoria, e nella parte in cui non aveva valutato che l’assunzione della donna era stata limitata ad una sola settimana di prova, dopo di che, non avendo ricevuto il permesso di soggiorno, la licenziava;
– contrasto tra dispositivo e motivazione nella parte in cui aveva ritenuto che la pena non potesse essere convertita, mentre nel dispositivo veniva confermata la sentenza di primo grado che invece aveva concesso la conversione;
– intervenuta prescrizione del reato.
La Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile in quanto richiede di effettuare una rivalutazione degli elementi di fatto posti alla base della decisione. La motivazione appare invece del tutto congrua e logica non potendo l’imputato invocare la sua buona fede, visto che doveva sapere che la legge richiede il permesso di soggiorno per potere assumere una cittadina extracomunitaria, e visto che anche un’assunzione in prova costituisce instaurazione di un rapporto di lavoro.
Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 500 alla Cassa delle ammende.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 500 alla Cassa delle ammende.
[1] Non è configurabile il reato di cui all’art. 22, comma 12, del D.Lgs. n. 286/1998 nei confronti del datore di lavoro che, per ragioni contrattuali, abbia dovuto utilizzare, nelle more della definizione del procedimento di rilascio delle relative autorizzazioni, la manodopera di lavoratori extracomunitari trovati privi del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, qualora il mancato compimento dell’"iter" di legge, iniziato nei termini prescritti, sia dovuto al ritardo dell’amministrazione nell’evasione della relativa pratica burocratica.
[2] Lavoro nella Giur., 2005, 158 nota di ASSAEL
[3] Il comma 12 dell’art. 22 sancisce, infatti, che “Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato”.
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