Astensione del giudice che aveva giudicato con giudizio abbreviato

AR redazione 09/11/15

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Nella sentenza n. 33591 emessa dalla sezione terza della Corte di Cassazione in data 30 luglio 2015, è stato affrontato il delicato tema inerente l’incompatibilità del magistrato deputato a giudicare[1].

Nel caso di specie, la difesa aveva preliminarmente eccepito, nel ricorso proposto in sede di legittimità, la nullità della sentenza ivi impugnata «sul rilievo che nel corso del giudizio di primo grado uno dei componenti del collegio avrebbe dovuto astenersi ai sensi dell’art. 34 c.p.p. in quanto aveva giudicato con giudizio abbreviato (e pertanto con l’acquisizione di tutti gli atti di indagine) la posizione dell’imputato omissis, posizione processuale strettamente connessa a quella degli imputati omissis, tutti imputati nel presente procedimento».

La Corte di Cassazione, dal canto suo, non ha ritenuto fondato tale motivo sulla scorta delle seguenti considerazioni.

            Innanzitutto, il Supremo Consesso ha inquadrato la fattispecie così come “processualmente” configurata prendendo atto che «il giudice – che aveva definito con il rito abbreviato la posizione di un coimputato (neppure dello stesso reato ma di un reato collegato a quello attribuito ai ricorrenti) e che, sulla base delle previsioni tabellari, era componente del Collegio d’appello chiamato a giudicare nel procedimento ordinario la posizione dei coimputati – ha formulato una dichiarazione di astensione che è stata rigettata dal presidente del Tribunale».

            Una volta preso atto di quello che era effettivamente avvenuto in sede di merito, i giudici di legittimità hanno ritenuto come ciò non integrasse alcuna violazione di legge (in questo caso processuale) evidenziando che, in «siffatti casi, quando il giudice non si è pronunciato sui fatti oggetto dell’imputazione, non sussiste alcuna causa di incompatibilità perchè la sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., comma 2, limitatamente alla “parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata”».

Nello specifico, veniva evidenziato che: a) la «Consulta (sentenza n. 283 del 2000) ha infatti ribadito che le situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità del giudice riconducibili all’istituto dell’incompatibilità operano all’interno del medesimo procedimento in cui interviene la funzione pregiudicata e si riferiscono ad atti o funzioni che hanno di per sè effetto pregiudicante, a prescindere dallo specifico contenuto dell’atto stesso o dalle modalità con cui la funzione è stata esercitata (sentenza n. 308 del 1997); le incompatibilità trovano, dunque, la loro rado nell’esigenza obiettiva, attinente alla stessa logica del processo, di preservare l’autonomia e la distinzione della funzione giudicante, in evidente relazione all’esigenza di garanzia dell’imparzialità di quest’ultima, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo processo (sentenza n. 306 del 1997)» in guisa tale che «le situazioni di incompatibilità, essendo astrattamente tipicizzate dal legislatore, sono prevedibili e quindi prevenibili e, in quanto tali, postulano un onere di organizzare preventivamente la terzietà del giudice, che viene così a manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo di essere della giurisdizione nella sua oggettività (sentenza n. 307 del 1997)»; b) il «carattere di fondo delle situazioni di incompatibilità – di essere, cioè, sempre riferite a rapporti che interessano il medesimo procedimento – è confermato dalla sentenza n. 371 del 1996 perchè in tale decisione la Corte costituzionale ha ritenuto che anche le valutazioni di merito in ordine alla responsabilità di un terzo non imputato espresse in una precedente sentenza penale rientrano tra le situazioni di incompatibilità, essendo idonee a determinare un pregiudizio per l’imparzialità del giudice chiamato a giudicare il medesimo soggetto in un diverso procedimento penale, ma tale estensione è stata operata in un contesto caratterizzato dal fatto che i due procedimenti, derivanti da un procedimento originariamente unico, riguardavano la medesima vicenda processuale (vedi sentenze n. 306 e n. 307 del 1997), sicchè la valutazione pregiudicante risultava espressa sostanzialmente nel medesimo procedimento, intendendo l’unicità di questo in senso non formalistico (cfr. ordinanza n. 404 del 1995), nel senso cioè che la valutazione pregiudicante, pur essendo stata espressa in un procedimento penale formalmente diverso, riguardava una vicenda processuale sostanzialmente unitaria, che avrebbe potuto, ed anzi normalmente avrebbe dovuto essere giudicata nel medesimo contesto processuale (v. in tale senso le sentenze della Corte costituzionale numeri 306, 307 e 308 del 1997)».

Da tali considerazioni la Corte di Cassazione è giunta quindi alla conclusione secondo la quale «la sentenza n. 371 del 1996 della Corte costituzionale ha inciso sull’art. 34 c.p.p. sempre che il giudice abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale abbia valutato la posizione di altro imputato in ordine alla sua responsabilità penale e, dunque, contempla una fattispecie diversa da quella oggetto del presente procedimento nel quale il giudice non ha espresso alcuna valutazione di merito sulle imputazioni elevate nei confronti dei coimputati».

Una volta rilevata questa chiave di lettura della sentenza n. 371 del 1996, la Cassazione, sulla scorta di questo criterio ermeneutico, ha ravvisato come detto principio non fosse applicabile nel caso di specie constatando per un verso, che il «giudizio abbreviato celebrato nei confronti del omissis ha infatti riguardato l’illecita detenzione dello stupefacente nella disponibilità di quest’ultimo sicchè alcuna funzione pregiudicante, in assenza di espresse e diverse valutazioni (neppure riportate nei ricorsi) in tale senso contenute nella sentenza, quel giudizio poteva avere su colui che avesse ceduto la droga al omissis o su quelli che si erano interessati per le conclusioni delle trattative», per altro verso, che la conoscenza degli atti del procedimento non «può fondare la causa d’incompatibilità sicchè correttamente il presidente del Tribunale ha rigettato la dichiarazione di astensione con provvedimento che, secondo la giurisprudenza di questa Corte sottratto ad ogni forma di impugnazione, sia per il principio di tassatività delle impugnazioni, sia per la natura meramente ordinatoria di atto di amministrazione e non di giurisdizione (Sez. 1, n. 40159 del 30/09/2009, Castronovo, Rv. 245203)».

A fronte di tali considerazioni giuridiche, la Corte suprema evidenziava, in chiusura del suo ragionamento giuridico intrapreso su questo specifico aspetto procedurale, che invece la «Corte di appello, seppure sinteticamente, ha enunciato le ragioni dell’insussistenza della causa di incompatibilità (ragioni ampiamente esposte nell’ordinanza con la quale il tribunale aveva respinto analoga eccezione)».

Posto ciò, quanto statuito dalla Cassazione in questi termini si palesa condivisibile per le seguenti ragioni.

Innanzitutto, il puntuale richiamo alle numerose pronunce emesse dalla Corte costituzionale in subiecta materia, evidenzia un lettura costituzionalmente orientata dell’istituto della compatibilità proprio perché interpretato alla luce di quanto affermato dal giudice delle leggi.

Come è noto, l’art. 34 c.p.p. è stato oggetto di numerose pronunce da parte della Consulta la quale, anche con interventi volti a declamarne l’illegittimità costituzionale con sentenze interpretative di accoglimento, ha chiaramente contributo a chiarirne il significato ermeneutico.

Infatti, senza ovviamente ripetere pedissequamente quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia in commento (ed in precedenza esaminato), è sufficiente in sede di commento rilevare quanto segue.

La Corte costituzionale, sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale costante, ha in primo luogo postulato che i principi della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e della sua precostituzione rispetto all’oggetto del giudizio (art. 25 Cost.) garantiscono «l’indipendenza del giudice e la sua necessaria estraneità rispetto agli interessi ed ai soggetti coinvolti nel processo ed escludendo che la sua designazione e la determinazione delle sue competenze possano essere condizionate da fattori esterni, rappresentano i presidi fondamentali dell’imparzialità e ne definiscono il contenuto ineliminabile di connotato intrinseco dell’attività del giudice in quanto non finalizzata al perseguimento di alcun interesse precostituito»[2]; condizione questa necessaria affinchè la disciplina dell’incompatibilità «sia volta ad assicurare la genuinità e la correttezza del processo formativo del convincimento del giudice e si ricollega alla garanzia costituzionale del giusto processo»[3].

In altri termini, sempre secondo quanto dedotto dalla Consulta, l’«istituto dell’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento penale concorre ad esprimere la garanzia di un giudizio imparziale, che non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni sulla responsabilità penale dell’imputato manifestate dallo stesso giudice, tali da poter pregiudicare la neutralità del suo giudizio»[4].

Infatti, come appena esposto prima il principio del “giusto processo” «implica e presuppone che il giudizio si formi in base al razionale apprezzamento delle prove legittimamente raccolte ed acquisite e non sia pregiudicato da valutazioni sul merito dell’imputazione e sulla colpevolezza dell’imputato, espresse in fasi del processo anteriori a quella del quale il giudice è investito»[5].

            Tal che il giudice delle leggi ha dunque evidenziato che la «ratio della disciplina dell’incompatibilità è dunque primariamente quella obiettiva del rispetto della logica del processo penale, delle sue scansioni e delle differenze di ruoli che in esso i diversi soggetti sono chiamati a svolgere: il giudizio non si deve confondere, attraverso una sorta di unione personale, con altre attività che attengono al processo e che hanno una loro diversa ragion d’essere e il cui compimento potrebbe costituire pre-giudizio rispetto al giudizio medesimo»[6].

Chiarita la natura teleologica di questo istituto, un secondo profilo processuale da esaminare è quello afferente il fatto che il giudizio, con cui è stato giudicato il coimputato del reato collegato, è stato definito con il rito abbreviato.

La ragione di tale esame deriva dal fatto che il termine giudizio menzionato nell’art. 34 c.p.p. potrebbe essere interpretato come solo quello in cui si svolge il dibattimento in quanto unico rito procedurale in cui le garanzie previste dall’art. 111 Cost. ricevono integrale attuazione.

Sul punto giova osservare che invece la Corte costituzionale, con un orientamento ermeneutico consolidato, ha da tempo rilevato che «la locuzione <giudizio> é di per sè tale da ricomprendere qualsiasi tipo di giudizio, cioé ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito, compreso quello che si svolge con il rito abbreviato»[7].

E’ chiaro che la natura speciale del rito prescelto non dispieghi alcuna rilevanza giuridica nel caso di specie.

Posto ciò, un altro profilo di criticità procedurale è quello di comprendere se sia astrattamente configurabile una ipotesi di incompatibilità quando il reato oggetto di un precedente giudizio non sia lo stesso di quello poi successivamente giudicato (in relazione ad altri imputati) ma sia distinto come può essere, come nel caso di specie, un illecito penale collegato.

Al riguardo, la Consulta ha rilevato che non vi è una identità di giudizio che possa quindi determinare una situazione di incompatibilità, non solo nel caso in cui «alla comunanza dell’imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni sotto il profilo tanto materiale che psicologico, e ben possono, quindi, sfociare in un accertamento positivo per l’uno e negativo per l’altro»[8], ma anche qualora a due imputati «siano contestati reati autonomi, pur se commessi nel medesimo contesto»[9].

            In effetti, anche in questo caso, si trattava di illeciti penali autonomi e distinti l’uno dall’altro essendo il primo (ossia quello per cui è stato emessa la sentenza di condanna con il rito abbreviato) consistito in una cessione di sostanze stupefacenti mentre l’altra condotta delittuosa (oggetto del giudizio ordinario) sarebbe consistita nell’interessamento per la conclusioni delle trattative.

L’autonomia dei giudizi in ordine all’accertamento di questi reati, connessi ma comunque indipendenti l’uno dall’altro, non dovrebbe di conseguenza ritenere configurabile una situazione di incompatibilità che, come suesposto in precedenza, richiede che vi sia stata una formulazione sul merito dell’imputazione e sulla colpevolezza dell’imputato, espressa in fasi del processo anteriori a quella del quale il giudice è investito.

A questo proposito, non dovrebbe inficiare quanto appena sostenuto la sentenza n. 241 emessa dalla Consulta il 17 giugno del 1999[10].

In quella occasione, invero, come rilevato da un’attenta dottrina[11], lo scrutinio di legittimità costituzionale verteva sull’art. 34, co. II, c.p.p. nella parte in cui «nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare precedente sentenza, nei confronti del medesimo imputato, su reato formalmente concorrente, ai sensi dell’art. 81, comma primo, c.p. con quello sul quale è chiamato a decidere»[12] mentre, nella fattispecie in esame, il giudice decide su un reato annoverabile sempre nel genus dei reati collegati (essendo il continuato una species a norma dell’art. 371, co. II – 12, co. I, c.p.p.), ma commesso da altri.

Infine, un terzo profilo di criticità attiene il richiamo alla sentenza n. 371 del 1996[13] dato che, secondo quanto evidenziato da una parte di un’autorevole letteratura scientifica[14], questa pronuncia avrebbe rappresentato una pronuncia isolata, successivamente abbandonata dalla nota «trilogia» costituita dalle sentenze nn. 306, 307 e 308 emesse dalla Consulta nel 1997.

Si pone dunque il problema di comprendere dunque se i passaggi argomentativi di questa pronuncia possano considerarsi eventualmente superati dalla giurisprudenza costituzionale successiva a partire dall’emissione di queste pronunce avvenuta l’anno successivo.

Si ritiene come tale pur autorevole opinione non rilevi nel caso di specie.

Infatti, come già rilevato nel 1997 in una di quelle pronunce appena citate, venne riconosciuta la validità di quanto statuito nella sentenza n. 376 pur riconoscendone la eccezionalità rispetto alla costante giurisprudenza di legittimità costituzionale, circa l’ambito di operatività dell’istituto dell’incompatibilità del giudice nel processo penale.

Invero, venne ritenuta la sua validità argomentativa proprio in ragione «dalla particolarità della fattispecie in quell’occasione esaminata»[15], che, come quella in commento, riguardava (in questo caso per negarne la sussistenza) la situazione in cui un giudice abbia già pronunciato una sentenza nei confronti di altri soggetti e dalla quale si evinca come sia già valutata la posizione dell’imputato per cui il giudicante è chiamato a decidere.

Una volta rilevata l’esattezza di questo richiamo giurisprudenziale (che costituisce il nucleo portante della motivazione in esame), è parimenti condivisibile l’ulteriore passo argomentativo utilizzato ossia quello secondo il quale il provvedimento di rigetto della dichiarazione di astensione è sottratto ad ogni forma di impugnazione.

Difatti, nella sentenza in commento, vi è un puntuale richiamo ad un precedente emesso dalla Suprema Corte di Cassazione in cui si è giunti alla medesima considerazione giuridica affermandosi che «il decreto presidenziale che decide senza formalita’ sulla dichiarazione di astensione e’ sottratto ad ogni forma di gravame, sia per il principio di tassativita’ delle impugnazioni, sia perche’ si tratta di provvedimento meramente ordinatorio, di natura amministrativa e non giurisdizionale, i cui effetti rimangono limitati nell’ambito dell’ufficio; ne’ puo’ ritenersi che tale regime sia lesivo in alcun modo dei principi costituzionali di uguaglianza, tutela della difesa ed imparzialita’ del giudice, potendo la parte interessata proporre tempestivamente dichiarazione di ricusazione, la decisione in ordine alla quale e’ emessa all’esito di una procedura svolta nel contraddittorio ed e’ ricorribile per Cassazione ai sensi dell’art. 127 c.p.p.»[16].

La sentenza in commento, in conclusione, per le ragioni esposte in precedenza, si palesa perfettamente condivisibile.

            Infine, solo per dovere di completezza espositiva, si ritiene che, pur ribadendo la piena con divisibilità delle argomentazioni sin qui illustrate, il range interpretativo dell’art. 34 c.p.p. potrebbe ampliarsi nel futuro alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

            Invero, quest’organo di giustizia conferisce al significato di imparzialità una portata applicativa molto più ristretta rispetto a quella adoperata dal nostro diritto domestico.

            In effetti, la Corte EDU, nell’affermare che l’«esistenza di imparzialità ai sensi dell’articolo 6 par. 1 (art. 6-1) deve essere determinato secondo un test soggettivo, cioè sulla base della convinzione personale di un particolare giudice in un dato caso, ed anche secondo un criterio oggettivo, cioè verificare se il giudice offerto garanzie sufficienti per escludere ogni legittimo dubbio a questo riguardo»[17], stima al riguardo importante «il punto di vista degli accusati»[18] che può reputarsi anche decisivo «se questa paura può essere considerata oggettivamente giustificata»[19].

            Del resto, anche la Corte di Giustizia ha fatto proprio tale approdo ermeneutico affermando parimenti che «il tribunale deve essere imparziale sotto il profilo oggettivo; esso è cioè tenuto ad offrire garanzie sufficienti per escludere al riguardo qualsiasi legittimo dubbio (v. sentenza Chronopost e La Poste/UFEX e a., cit., punto 54, e, in tal senso, Corte eur. D.U., sentenze Fey c. Austria del 24 febbraio 1993, serie A n. 255-A, pag. 12, § 28; Findlay c. Regno Unito del 25 febbraio 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-I, pag. 281, § 73, nonché Forum Maritime S.A. c. Romania del 4 ottobre 2007, non ancora pubblicata nel Recueil des arrêts et décisions, § 116)»[20].

            Orbene, senza entrare nel merito della vicenda in questione, una ermeneutica di questo tipo, sebbene applicabile in casi limite, ben potrebbe comportare una nuova chiave di lettura dell’art. 34 c.p.p. maggiormente aderente al dettato normativo europeo.

Infatti, si consentirebbe in tal modo di ravvisare una ipotesi di incompatibilità pure qualora vi sia almeno un dubbio, ovviamente fondato da solide circostanze e non mere ipotesi generiche, che un certo condizionamento dubitativo (in questo caso contra reo) da parte dell’organo giudicante vi sia effettivamente stato anche se non emerga la prova di un suo condizionamento per avere emesso una precedente decisione inerente lo stesso fatto o fatti collegati rispetto a quello per cui è chiamato a decidere.

Una interpretazione dell’art. 34 c.p.p. in questi termini, difatti, a parere di chi scrive, si porrebbe in un’ottica non solo comunitariamente ma anche costituzionalmente orientata in virtù di quanto sancito dall’art. 117, co. I, Cost. e quanto enunciato dalla Consulta nelle noti sentenze nn. 348 e 349 del 2007.

 


[1]Sull’argomento, senza nessuna pretesa di completezza bibliografica, vedasi: R. GARGIULO, sub art. 34, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretto da Lattanzi-Lupo, vol. I, t. I, Giuffrè, 2012, p. 579 ss.; G. GUIDUCCI, L’incompatibilità a giudicare, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, vol. I, Utet, 2009, p. 241; T. RAFARACI, sub art. 34, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, Cedam, 2005, p. 105 s.; R. APRATI, In tema di incompatibilità del giudice per atti compiuti nel procedimento (osservaz. a Cass., sez. V pen., 12 dicembre 2007 (ud.); 8 gennaio 2008 (dep.) n. 371), in Cass. pen., fasc. 5, 2007, pag. 2074; G. TODARO, L’incompatibilità del giudice penale tra indirizzi consolidati e vuoti di tutela (nota a Cass., sez. VI pen., 27 settembre 2005 (ud.); 24 ottobre 2005 (dep.) n. 39209), in Cass. pen., fasc. 5, 2007, pag. 2074; S. BELTRANI, Magistrati e conflitti di interesse. Astenersi dal giudizio è un dovere (nota a Cons. Sup. Magistratura, sez. Discipl., 7 aprile 2005), in DeG – Dir. e giust., fasc. 31, 2006, pag. 106.

 

 

 

 

 

[2]Corte Cost., sentenza ud. 3 ottobre 1991 (dep. 13 aprile 1992), n. 186, in www.giurcost.org.

[3]Ibidem.

[4]Corte Cost., sentenza ud. 27 maggio 1996 (dep. 31 maggio 1996), n. 177, in Cass. pen. 1996, 2884 con nota di P. RIVELLO, La Corte costituzionale ribadisce la tesi volta ad escludere l’incompatibilità in caso di pluralità di decisioni emesse da un unico giudice nel corso della stessa fase procedimentale.

[5]Ibidem.

[6]Corte Cost., sentenza ud. 29 settembre 1997 (dep. 1 ottobre 1997), n. 306, in www.giurcost.org.

[7]Corte Cost., sentenza ud. 4 novembre 1991 (dep. 12 novembre 1991), n. 401, in www.giurcost.org. In senso conforme: Corte Cost., sentenza ud. 1 giugno 1992 (dep. 8 giugno 1992), n. 261, in www.giurcost.org; Corte Cost., sentenza ud. 2 dicembre 1993 (dep. 16 dicembre 1993), n. 439, in www.giurcost.org.

[8]Corte Cost., sentenza ud. 13 aprile 1992 (dep. 22 aprile 1992), n. 186, in www.giurcost.org.

[9]Corte Cost., sentenza ud. 7 febbraio 1994 (dep. 17 febbraio 1994), n. 42, in www.giurcost.org. In senso conforme: Corte Cost., sentenza ud. 4 giugno 2003 (dep. 18 giugno 2003), n. 218, in www.giurcost.org.

[10]E segnatamente: Corte Cost., sentenza ud. 9 giugno 1999 (dep. 17 giugno 1999), n. 241, in Indice pen. 2000, 929.

[11]G. DI CHIARA, Incompatibilità del giudice e concorso formale di reati: contenuto e limiti di un’incostituzionalità «difficile», in Giur. cost., fasc.3, 1999, pag. 2137.

[12]Ordinanza di rimessione degli atti alla Corte (App. Venezia, ord. 9 luglio 1997, omissis) è pubblicata in G.U., 1ª serie spec., 1997, n. 41, 106.

[13]E precisamente: Corte Cost., sentenza ud. 17/10/1996 (dep. 2 novembre 1996), n. 371, in Cass. pen. 1997, 943 Cass. pen. 1997, 660,1287, 
Dir. pen. e processo 1996, 45,1449
Foro it. 1997, I, 15
Giust. pen. 1997, I, 33
Giust. pen. 1997, III, 449
Giur. it. 1997, I, 392, con note di G. DE FALCO,  Reati concorsuali ed incompatibilità del giudice. Un nuovo intervento della Corte costituzionale, in Cass. pen., fasc.5, 1997, pag. 1287; P. P. RIVELLO, L’incompatibilità del magistrato che abbia anticipato, in una precedente sentenza, le proprie valutazioni sulla responsabilità penale del soggetto sottoposto al suo giudizio, in Cass. pen., fasc.3, 1997, pag. 660; D. POTETTI, Princìpi fondamentali elaborati dalla Corte costituzionale in tema di art. 34 c.p.p. In particolare: incompatibilità del giudice e concorso di persone nel reato, in Cass. pen., fasc.4, 1997, pag. 943.

[14]D. POTETTI, Le tappe della giurisprudenza costituzionale verso la terzietà ed imparzialità del giudice, dal sistema delle incompatibilità a quello dell’astensione e ricusazione, nota a Corte Costituzionale , 14 luglio 2000, n.283, in Cass. pen., fasc.4, 2001, pag. 1108.

[15]Corte Cost., sentenza ud. 29 settembre 1997 (dep. 1 ottobre 1997), n. 306, in www.giurcost.org.

[16]Cass. pen., sentenza ud. 30 settembre 2009 (dep. 15 ottobre 2009), n. 40159, in CED Cass. pen., 2009.

[17]Ex plurimibus: Corte EDU Chambre, ric. n. 13396/87,  26 February 1993, case Padovani c. Italy, in http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22fulltext%22:[%22Padovani%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-57812%22]}.

[18]Ibidem.

[19]Ibidem.

[20]CGE, Sez. I, sentenza 19 febbraio 2009, n. 308, Koldo Gorostiaga Atxalandabaso  C.  Parlamento europeo, in Redazione Giuffrè, 2010.

AR redazione

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