Anche il recidivo può ottenere le attenuanti generiche se ha avuto un comportamento collaborativo successivamente alla commissione del reato. E’ questa la implicazione pratica immediata della declaratoria di incostituzionalità della Corte (sent. n. 183 del 10 giugno 2011) che ha coinvolto l’art. 62bis, co. 2, c.p., come sostituito dalla L. 251/2005, nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo in materia di concessione delle attenuanti generiche, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato nel caso di imputato che ha commesso un grave reato trovandosi in una situazione di recidiva reiterata.
Pur premettendo che non dà luogo a una disparità di trattamento, né è di per sé irragionevole prevedere un regime di maggior rigore nei confronti di una persona che ha commesso un grave reato trovandosi nella anzidetta situazione di recidiva, tuttavia la Corte riconosce che contrasta con il principio di ragionevolezza la scelta normativa di escludere il potere del giudice di valutare ed apprezzare la condotta tenuta dal colpevole nel periodo successivo alla commissione del reato. La disposizione impugnata, infatti, precludendo al giudice di fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla condotta successiva al reato, privilegia uno dei parametri indicati dal secondo comma dell’art. 133 c.p., vale a dire la precedente attività delittuosa del reo, come sintomatico della capacità a delinquere rispetto agli altri e in particolare rispetto alla condotta successiva alla commissione del reato, benché questa possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità.
La preclusione disposta dal comma 2 dell’art. 62bis c.p. risulta pertanto fondata, come argomentato dal Giudice di legittimità, su una valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza generalizzabile e, come tale, deve considerarsi arbitraria ed irrazionale. Nulla esclude, infatti, da un lato, che la recidiva possa fondarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante gravità e, dall’altro, che la decisione intervenga anche a distanza di anni dalla commissione del fatto, per cui nelle more l’imputato potrebbe in ipotesi aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona completamente diversa da quella che a suo tempo commise il reato.
Sotto un ulteriore profilo, la rigida preclusione introdotta dalla novella del 2005 espropria il giudice del potere di valutare adeguatamente le peculiarità del caso concreto e pervenire così alla definizione del trattamento sanzionatorio più conforme alle esigenze di risocializzazione e di rieducazione del reo. Per converso, la finalità rieducativa della pena non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce «una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Né, d’altra parte, il privilegio che può eventualmente accordarsi, nel caso concreto, all’obiettivo di prevenzione generale e difesa sociale della pena rispetto a quello di prevenzione speciale e di rieducazione può spingersi sino ad obliterare del tutto tale ulteriore finalità.
Posti questi principi, la Corte conclude che con l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i «recidivi reiterati», autori di determinati reati, senza la possibilità di tenere conto del loro comportamento successivo alla commissione del reato, anche quando dovesse risultare particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, la norma censurata, in violazione dell’art. 27, co. 2, Cost., privilegia un profilo general-preventivo, eludendo la funzione rieducativa della pena.
E’ sulla base dei motivi illustrati che la pronuncia della Corte ha sancito la illegittimità costituzionale dell’art. 62bis, co. 2, c.p., nella parte, appunto, in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato (Anna Costagliola).
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