Il fatto
Il Tribunale del riesame di Milano aveva respinto un appello presentato ex art. 310 cod. proc. pen. avverso un provvedimento della Corte di appello di Milano con il quale era stata respinta l’istanza di revoca della misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla P.G., applicata ad una persona accusata di aver commesso il reato di furto aggravato in abitazione.
Per l’addebito che fondava la misura cautelare, l’imputato era stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione e la sentenza di primo grado era stata confermata in appello.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Contro l’anzidetta ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato affidandosi ad un unico motivo di ricorso che lamentava violazione degli artt. 274, 275, 275-bis e 299 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Secondo il ricorrente, il Tribunale del riesame si sarebbe limitato a riportarsi integralmente a quanto statuito cinque mesi prima con l’ordinanza emessa dalla Corte di Appello di Milano senza procedere ad alcuna verifica sull’attualità e concretezza delle esigenze cautelari.
In particolare, si sosteneva come il Tribunale del riesame avesse trascurato di considerare, in primo luogo, il tempo trascorso dal fatto il quale, ancorché non risolutivo, costituisce, per la difesa, comunque un elemento da valutare, tenuto conto che il ricorrente era stato sottoposto a misura cautelare dal 2019 il che aveva certamente esplicato un’efficacia deterrente.
In secondo luogo, avrebbe dovuto essere considerato anche il comportamento del ricorrente avendo costui sempre rispettato le misure cautelari che gli erano state via via applicate e, quando era stato autorizzato ad allontanarsi da casa, aveva scrupolosamente osservato i limiti dell’autorizzazione. Quanto, in particolare, ai precedenti specifici menzionati dalla Corte di appello e dal Tribunale del riesame, il ricorso annotava come l’imputato fosse gravato da un unico precedente penale, per reati commessi nel 2008, quando era dipendente da stupefacenti.
Le dichiarazioni dell’imputato, della cui paternità il Tribunale del riesame aveva dubitato, erano a loro volta riversate in atti in quanto prodotte personalmente dal ricorrente in udienza e trascritte integralmente nella sentenza di primo grado.
Il ricorso, poi, contestava l’affidabilità dell’accertamento sul profilo del DNA svolto per giungere alla sua identificazione quale autore del fatto e rimarcava lo spirito collaborativo che lo aveva animato quando aveva acconsentito a sottoporsi al prelievo di saliva contattando solo successivamente il difensore di fiducia.
Altro elemento che il ricorrente assumeva negletto dal Tribunale del riesame era quello dell’assenza di pericolo di fuga giacché costui era ben radicato sul territorio italiano — avendo moglie e figlie altrettanto radicate e vivendo in un’abitazione di proprietà della moglie — e aveva mostrato grande autocontrollo quando non si era mosso dall’Italia per partecipare alle ricerche del padre scomparso in Albania.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva ritenuto fondato e, quindi, veniva respinto.
In primo luogo veniva evidenziato un profilo di inammissibilità dell’impugnativa laddove la parte agitava, a sostegno della propria tesi, anche le dichiarazioni dell’imputato (tentando di smentire la dubbia paternità delle medesime paventata dal Tribunale della cautela) che, tuttavia, non risultavano allegate al ricorso, ricorso che, quindi, sul punto, non era autosufficiente.
Ciò posto, in secondo luogo, il ricorso de quo era altresì inammissibile quando pareva dirigersi nuovamente verso il giudizio di gravità indiziaria, tema che non era stato devoluto con l’istanza de libertate e che, d’altronde, era “coperto” dalla doppia conforme di condanna.
Venendo al concreto della doglianza, la Suprema Corte riteneva innanzitutto utile osservare come il ricorso fosse infondato avendo, a suo avviso, l’ordinanza impugnata offerto una motivazione corretta in diritto ed immune dai vizi lamentati ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
In particolare, si notava come il Collegio della cautela avesse ribadito, richiamandole testualmente, le considerazioni svolte nel precedente provvedimento emesso ex ad 310 cod. proc. pen. pronunziato dal Tribunale del riesame nell’ottobre 2020.
In primo luogo, erano state valorizzate le modalità professionali del fatto di reato commesso ed il cospicuo maltolto ricavato (tanto che il ricorrente era stato condannato per furto pluriaggravato, sia dall’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità che dalla violenza sulle cose, per aver sia forzato la finestra dell’abitazione che la cassaforte a muro, conseguendo un bottino di 20.000 euro).
In secondo luogo, si sottolineava la presenza, nella biografia delinquenziale del soggetto, di altri reati contro il patrimonio, a questo proposito dovendo replicarsi all’obiezione del ricorrente secondo cui il precedente sarebbe stato unico segnalando che esso concerne comunque più reati (furto in abitazione continuato, tentato furto in abitazione e ricettazione).
In terzo luogo, il ricorrente risultava avere declinato diverse generalità e non essere regolare sul territorio nazionale.
Orbene, tutti questi dati erano stati reputati eloquenti di una propensione alla commissione di reati contro il patrimonio — testimoniata dalla prima condanna e non abbandonata successivamente, come testimoniato dai fatti sub iudice — e dalla conseguente refrattarietà del soggetto alla legalità, sì da richiedere il mantenimento della misura cautelare oggi in applicazione, che costituisce il presidio cautelare — a parte il divieto di espatrio — meno limitante che il codice di rito conosce.
A proposito delle censure, venivano infine svolte due riflessioni ritenute in grado di condurre al rigetto del ricorso.
Da una parte il richiamo testuale, attuato dal Tribunale del riesame, al provvedimento emesso dal Tribunale milanese qualche mese prima, per la Suprema Corte, non significava che il nuovo Collegio della cautela fosse venuto meno al proprio dovere argomentativo dal momento che le circostanze riportate nello stralcio di motivazione trascritto nell’ordinanza impugnata attenevano alle caratteristiche del fatto ed ai precedenti dell’imputato ovvero agli altri indicatori del pericolo di recidiva, e, quindi, a dati oggettivi o soggettivi insuscettibili di mutare nel corso del tempo e, pertanto, utilmente richiamati laddove posti a base anche della nuova valutazione del Tribunale del riesame.
D’altra parte, rispetto a questo compendio, sempre per il Supremo Consesso, non era illogico sostenere — come aveva fatto il Collegio della cautela — che il tempo trascorso dall’applicazione della misura cautelare — peraltro non particolarmente esteso — non avesse avuto un significato dirimente e che altrettanto fosse a dirsi quanto alla condotta rispettosa degli obblighi connessi alla misura cautelare laddove tale atteggiamento non era stato particolarmente meritorio né significativo di una rimeditazione della propria condotta illecita ma era stato imposto dal legislatore e la sua inosservanza comportava la possibilità di aggravamento del vincolo, e ciò anche ponendo mente agli stimoli a recarsi in Albania provenienti dalla scomparsa e dal successivo decesso del padre che — per quanto eventi drammatici — non avrebbero dovuto esonerare, per la Corte di legittimità, il soggetto dall’osservanza della misura cautelare.
In questo senso il Collegio intendeva prestare adesione all’orientamento della Cassazione secondo il quale l’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non possono essere desunte dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura o dall’osservanza puntuale delle relative prescrizioni dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare (Sez. 5, n. 45843 del 14/06/2018; Sez. 5, n. 39792 del 29/5/2017; Sez. 3, n. 43113 del 15/09/2015; Sez. 4, n. 5700 del 02/02/2016).
Ebbene, per gli Ermellini, il Tribunale del riesame aveva chiarito le ragioni per cui tali elementi non fossero ravvisabili nella specie.
Al rigetto del ricorso se ne faceva conseguire la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui, citandosi giurisprudenza conforme, si postula che l’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non possono essere desunte dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura o dall’osservanza puntuale delle relative prescrizioni dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare.
È dunque sconsigliabile, perlomeno alla stregua di tale approdo ermeneutico, sostenere che le esigenze cautelari siano venute meno o si siano attenuate solo per il mero spirare del tempo o perché il ristretto si sia attenuto alle prescrizioni imposte essendo per contro necessario provare un mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare attraverso elementi di sicura valenza sintomatica in tal senso.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, non può che essere positivo.
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