Il 17 febbraio 2006 la Suprema Corte, con sentenza numero 6329, nel pronunciarsi su un caso di violenza sessuale su minore, accoglie l’istanza proposta dal ricorrente, dando vita ad una pronuncia alquanto “anomala”, almeno a prima lettura, che accende un focolaio di critiche e disappunto, espressi da parte di media, mondo politico e giudiziario.
La vicenda vede coinvolti ********, all’epoca dei fatti quarantenne ex tossicodipendente, e l’allora quattordicenne figlia della sua convivente. Sull’uomo grava un’accusa pesante: quella di aver perpetrato abuso sessuale con annesse minacce, ai danni della minore, sua “figliastra”.
Il 30 novembre del 2001 giunge la sentenza di condanna da parte del Tribunale di Cagliari: anni tre e mesi quattro di reclusione per il reato di violenza sessuale, oltre a mesi due per percosse. La difesa dell’imputato propone appello avverso la citata sentenza, sulla base di più doglianze, stanti, in sostanza, nell’inesatta ricostruzione dei fatti di causa, nella ritenuta minore gravità del fatto, tenuto conto della già “matura” esperienza sessuale della giovane, ed, infine, nell’intervenuta remissione di querela circa il reato di percosse, motivo per cui, limitatamente a tale capo, si reclamava la non procedibilità, con conseguente rideterminazione della pena.
I Giudici di Appello, con pronuncia del 25 novembre 2003, ritenendo di dover accogliere solo l’istanza di riduzione della pena, relativamente alla non procedibilità per il reato di percosse, respingono ogni altro motivo di impugnazione, facendo salva, per il resto, la decisione dei magistrati di prime cure.
Segue il ricorso in Cassazione, proposto personalmente da ********, e formulato sulla base di un’unica doglianza: la ritenuta mancanza ed illogicità della motivazione addotta dalla Corte d’Appello di Cagliari, laddove non si consente l’applicazione, al caso di specie, della richiesta attenuante del fatto di minore gravità, prevista dal terzo comma dell’articolo 609-quater del codice penale.
In sostanza, la contestazione portata di fronte agli ermellini, verteva sul contestato fatto che, a dir del ricorrente, l’unico rapporto sessuale avuto con la ragazza, solo oggetto di imputazione, veniva erroneamente qualificato dai Giudici di Appello come “modalità innaturale del rapporto” tale da compromettere “l’armonioso sviluppo della sfera sessuale della vittima”.
A detta qualificazione, ******** si opponeva sulla base di due ordini di rilievi.
In primis, egli sosteneva che la ritenuta “modalità innaturale del rapporto”, altro non era se non una scelta consapevole della giovane. In effetti, rilevava l’imputato, dalla ricostruzione dei fatti di causa non poteva evincersi un netto rifiuto della minore alle proposte sessuali ricevute, ma solo un consapevole atteggiamento “sessuale”. A conferma, sempre a parer difensivo, la giovane, temendo per la propria salute, giusto lo stato di tossicodipendenza del T., non acconsentiva, è vero, alla consumazione di rapporto sessuale “completo” con l’imputato, ma optava per uno di tipo orale, a suo avviso meno rischioso. Per tale motivo, si contestava l’“innaturalità del rapporto”, considerandolo quale modalità scelta, non già costrizione.
In secondo luogo, nel ricorso si poneva l’accento sulla circostanza fattuale, per cui la ragazza, che fin dall’età di tredici anni soleva avere rapporti intimi con uomini di età diverse, certamente possedeva una maturità sessuale sviluppata, tale da non potersi dire gravemente compromessa da un rapporto orale, scientemente affrontato.
L’adita Suprema Corte, nel pronunciarsi sulla questione, con particolare riferimento alla prima contestazione, afferma che “in questo contesto non sembra possa convenirsi con l’impugnata sentenza laddove afferma la gravità dell’episodio deducendola dalle modalità innaturali del rapporto in realtà, che in realtà furono scelte con avvedutezza della minore in quanto a suo dire idonee ad evitare i rischi che un diverso rapporto poteva comportare per la sua salute a causa della pregressa condizione di tossicodipendente dell’imputato”.
I Giudici di legittimità vanno nella stessa direzione, anche in ordine al secondo rilievo mosso, relativo all’assai gravosa incidenza del denunciato rapporto, sullo sviluppo sessuale della minore. Sostengono gli ermellini, che “l’affermazione è infatti del tutto apodittica in quanto trascura di considerare quanto nella stessa sentenza poco prima si è rilevato, e cioè che la ragazza già a partire dall’età di 13 anni aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età di guisa che è lecito ritenere che già al momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità dal punto di vista sessuale fosse molto più sviluppata di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età”.
E ancora, rileva la Corte, “la diminuente della minore gravità del fatto di cui all’articolo 609 quater comma 3 c.p. è stata negata dalla Corte territoriale con riferimento alle modalità innaturali del rapporto, ritenute tali da compromettere l’armonioso sviluppo della sfera sessuale della vittima. L’affermazione si pone in contrasto con quanto poco prima rilevato dalla stessa Corte allorché ha proceduto alla ricostruzione dell’unico episodio – quello riprodotto nel capo di imputazione – di abuso sessuale posto in essere dall’imputato ai danni della minore: si era trattato di un rapporto pienamente assentito dalla stessa che ne aveva scelto le modalità. L’imputato infatti intendeva avere un rapporto completo ma la ragazza, consapevole che l’uomo aveva avuto problemi di tossicodipendenza, aveva optato per un, a suo avviso, meno rischioso rapporto orale”.
Si tratta di una sentenza che riconosce "la riprovevolezza della condotta dell’imputato che in realtà si è avvalso dello stato di soggezione in cui la giovane vittima si trovava nei suoi confronti per essere inserita nello stesso nucleo familiare da lui costituito con la di lei madre convivente. Ma – sottolineano gli ermellini – tale relazione interpersonale fa parte dell’elemento oggettivo della fattispecie delittuosa tipica di cui si tratta (punita con la reclusione da 5 a 10 anni di reclusione) senza la quale questa ultima non si sarebbe integrata in quanto pacificamente all’epoca del fatto la ragazza aveva compiuto quattordici anni e come si è visto la stessa aveva prestato il proprio consenso al rapporto sessuale”.
Per questi motivi, la Corte, nell’annullare la sentenza impugnata limitatamente al diniego dell’attenuante de qua, rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Cagliari, affinché in quella sede si provveda a valutare se “il diniego della attenuante in parola possa essere deciso con una motivazione diversa da quella testè censurata”.
Al di là dei rivolti “giornalistici” attribuiti alla sentenza discussa e al di là dello sprezzo personale per simili episodi, in questa sede, deputata al solo esame tecnico della vicenda processuale, interessa procedere con necessaria astrazione da coinvolgimenti di sorta, al fine di ricostruire, sotto il mero profilo giuridico, il pensiero dei Giudici di legittimità.
In punto di diritto, giova rammentare come l’articolo 133 del codice penale, teso ad una giusta determinazione della pena, suole affidare alla discrezionalità del Giudice la valutazione, da effettuarsi caso per caso, circa la gravità del fatto-reato, sulla base del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa. Ne consegue che, in assenza di una tassativa elencazione dei “casi di minore gravità”, sarà l’organo giudicante a dover, di volta in volta, motivare in concreto quali siano gli elementi giustificatori della singola decisione.
Ciò vuol dire, che, ai fini di una corretta applicazione della diminuente di cui all’art. 609-quater c.p., comma 3, andrà valutata, oltre alla condotta materiale integrante il fatto-reato, altresì ogni singola specificità della stessa. In termini pratici, occorre ricostruire la concreta portata criminale della fattispecie denunziata, per poi desumerne la minore o maggiore gravità.
Ebbene, per comprendere la reale portata della pronunzia emessa dalla Suprema Corte, è necessario il previo esame del dato legislativo, tramite l’esplicazione delle norme di riferimento al caso di specie: l’articolo 609-bis (“violenza sessuale”), l’articolo 609-quater (“atti sessuali con minorenne”) e l’articolo 609-quater, comma 3, che prevede una diminuzione della pena fino a due terzi, ove il Giudice ravvisi una minore gravità del fatto.
Un distinguo è d’obbligo, e concerne l’elemento differenziante la condotta prevista e punita dall’articolo 609-bis, da quella di cui al successivo quater.
La fattispecie delittuosa denominata “violenza sessuale” (art. 609-bis c.p.), trova ragion di pena nel mancato consenso da parte della vittima, agli atti sessuali compiuti o subìti. Di contro, nel reato di “atti sessuali con minorenne” (art. 609-quater c.p.), seppur intervenuto il consenso del minore alle attività sessuali, trattasi di manifestazione di volontà non validamente prestata, giusta l’immaturità del soggetto. Per tale ragione, il legislatore ha voluto estendere la pena prevista per la “violenza sessuale”, alla diversa condotta di “atti sessuali con minorenne”, se questi non abbia raggiunto, al momento del fatto, i limiti di età fissati nello stesso articolo 609-quater c.p..
Circa il “tetto” delineato dalla norma anzidetta, si fa riferimento, come regola generale, al mancato compimento di anni quattordici, soglia che si eleva fino ai sedici, in costanza di una particolare e subdola condotta, insita nella condizione soggettiva del reo, che risulti essere “l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione o di custodia, il minore è affidato, o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza”. La ratio è palese: l’autore del reato, in tali circostanze, è solito avvalersi dello stato di “soggezione” del minore, per ottenerne favori sessuali.
Infine, il terzo comma della previsione di cui al 609-quater dispone che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi”.
L’esame della normativa citata, consente di far luce sul corretto alveo di appartenenza della fattispecie concreta: atto sessuale compiuto a danno di minore consenziente, di età compresa tra quattordici e sedici anni. La condotta incriminata, dunque, stando alla volontà legislativa, assume rilievo criminale per l’essersi verificata in costanza della particolare condizione di soggezione intercorrente tra l’autore del reato e la vittima, figlia della convivente. In effetti, in mancanza di un tale rapporto di “familiarità” e convivenza tra agente e minore, la condotta di ******** non avrebbe integrato alcun reato, stante la previsione di cui all’art.609-quater n.2, che subordina la valenza penale della condotta al sussistere di elencati elementi.
Se questi sono i fatti, allora la Corte di Cassazione, con la sua pronuncia, non ha voluto né travisare le circostanze, né negare la riprovevolezza del fatto, tenendo in debito conto la circostanza per cui l’imputato si è certamente avvalso, per ottenere favori sessuali, dello stato di soggezione e del contesto di convivenza con la vittima. Ma, si vuole qui rilevare, trattasi di condotta già prevista e punita, in tutta la sua totalità, dall’articolo 609-quater, comma 1, lett.2.; in effetti, nei fatti di causa, non risulta essersi verificato un quid pluris rispetto al reato in atti, giusta la condotta dell’imputato, che ne esaurisce l’oggettività e ne giustifica la pena comminata.
Sotto il diverso profilo dell’applicabilità o meno dell’attenuante di cui al terzo comma della norma in questione, preme chiarire come la Corte di Cassazione, Giudice di sola legittimità, non può e non ha né concesso, né negato la diminuente richiesta. Gli ermellini, lungi dal voler sottovalutare il fatto-reato, hanno rilevato la contraddittorietà della motivazione di diniego dell’attenuante in parola, così come stesa dai Giudici di appello; per detta ragione, hanno disposto il rinvio della decisione alla giustizia di secondo grado, affinché questa decida se concedere o negare nuovamente la riduzione di pena, questa volta con nuova e più congrua motivazione.
A stretto rigor normativo, la Suprema Corte, non ha ritenuto più o meno grave il reato commesso da ********, in ragione della maggiore o minore esperienza sessuale della vittima: il delitto è già perfetto, ed assume egual valenza, a prescindere dalle abitudini sessuali della minore. Lo conferma costante giurisprudenza, nel cui pensiero la “maturità” sessuale della vittima non può influire sulla materialità del fatto reato, che resta identica in nome del bene tutelato: l’immaturità delle scelte effettuate dal minore di anni quattordici e l’influenzabilità dell’infrasedicenne.
Sulla stessa direzione, interviene di recente il legislatore, il quale, con legge n.38 del 6 febbraio 2006, di modifica dell’articolo 609-quater, così dispone: “Al di fuori delle ipotesi previste dall’art.609-bis, l’ascendente, o il tutore che, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni”.
Ferma, allora, la ratio della legge, e fermo il giudizio di riprovevolezza del fatto de qua, così come espresso a chiare lettere dai Supremi Giudici, la discussa sentenza ha solo inteso sottolineare la contraddittorietà della motivazione espressa dalla Corte d’Appello di Cagliari, circa la nominata “innaturalità del rapporto”. In sintesi, agli ermellini è parso poco chiaro l’iter mentale sotteso alla censurata motivazione, e ciò, in primis, laddove si indicava come “innaturale” una modalità tale di atto sessuale, scelta dalla vittima, previa valutazione dei rischi connessi, e ancora, laddove si discuteva del grave pregiudizio al corretto sviluppo sessuale della minore, in realtà già “maturo”, secondo le risultanze di causa.
E’ unicamente per l’esplicate ragioni, che la Corte di Cassazione, cui è attribuito il potere di sindacare l’utilizzo discrezionale dei parametri di cui all’articolo 133 c.p., sotto il solo profilo della contraddittorietà della motivazione, questo fa e rinvia, per detto incombente, alla magistratura di appello.
In attesa di un nuovo esito della vicenda, una riflessione è d’obbligo.
Un fatto gravissimo, come quello di una violenza su minore, non potrà mai ritenersi meno “grave” in ragione della perduta illibatezza della vittima, piuttosto che in ragione delle esperienze sessuali della stessa, finendo, così, per vanificare le modifiche legislative del 1996, di abrogazione dell’arcaica previsione per cui non integrava violenza sessuale, l’atto perpetrato nei confronti di un minore già “moralmente corrotto”.
Se ciò è vero, e se ogni considerazione emotiva della vicenda non può essere trascurata, d’altro canto, rammarica la ricostruzione del pensiero della Suprema Corte, così come risultante dai media e da cronache giornalistiche di settore, basata più su una volontà di clamore, che sul reale dettato della pronunzia, la quale, si ricorda, non ha né negato la riprovevolezza del fatto, né optato per una benevola concessione delle attenuanti richieste, ma ha solo fatto uso dei poteri concessigli dalla normativa di riferimento.
Avv. **************
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento