La recente sentenza della Cassazione n. 29469/20 rappresenta indubbiamente un punto di riferimento importante per la giurisprudenza nazionale in materia di consenso informato e diritto di autodeterminazione, specie in relazione al dissenso alle emotrasfusioni per motivi religiosi da parte del Testimone di Geova.
Il principio di diritto che la Cassazione enuncia è di particolare importanza: “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.
Con la decisione qui commentata, la Suprema Corte conferma la propria giurisprudenza (conforme a quella della CEDU ai sensi degli artt. 8 e 9 della Convenzione) che ha individuato nel dissenso alle emotrasfusioni del paziente Testimone di Geova una particolare fattispecie, distinta dalla normale autodeterminazione sanitaria inquadrata nel classico schema del consenso informato. La Corte, infatti, rileva come in questo caso si realizzi un’“osmosi di principi costituzionali” che vede come perno l’art. 19 della Costituzione, ossia la libertà religiosa.
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Il fatto
La presente vicenda, che risale al 2004, riguarda il rifiuto alle emotrasfusioni espresso da una paziente Testimone di Geova in occasione di un intervento programmato di parto cesareo.
Durante il ricovero la donna ribadiva ai medici, sia verbalmente che per iscritto, il suo dissenso alle emotrasfusioni, da ritenersi valido in ogni circostanza, anche di fronte al pericolo di vita. A tal fine consegnava ai medici anche una dichiarazione scritta (DAT) nella quale spiegava che tale rifiuto si fondava sulle sue profonde convinzioni religiose.
Dopo l’intervento la signora MG subiva una grave emorragia a seguito della quale i medici la sottoponevano a una laparotomia esplorativa per accertare le cause del sanguinamento. Nonostante il rifiuto opposto dalla paziente, i medici le somministravano sette emotrasfusioni.
La donna citava pertanto in giudizio i medici e la struttura ospedaliera, chiedendo il risarcimento dei danni subiti come conseguenza delle trasfusioni imposte, in grave violazione del suo diritto all’autodeterminazione.
In primo grado, il Tribunale di Milano respingeva le richieste della donna. Secondo i giudici meneghini, con l’accettazione dell’intervento di laparatomia, la signora MG manifestava il desiderio di essere curata e con ciò accettava implicitamente tutte le fasi dell’intervento, inclusa la necessità di eventuali emotrasfusioni. Inoltre, ad avviso dei giudici, non veniva dimostrato che il dissenso preventivo alla terapia trasfusionale fosse manifestato nella piena consapevolezza circa l’effettività e la gravità del pericolo per la propria vita.
La Corte di Appello di Milano confermava la decisione di prime cure, condividendone le argomentazioni circa l’implicito consenso alle emotrasfusioni.
Pertanto, per fare chiarezza anche in relazione al perimetro entro cui la Cassazione, quale giudice di legittimità, si è espressa, il caso riguarda il rifiuto specifico (non generico) alle emotrasfusioni manifestato a voce e per iscritto da un paziente Testimone di Geova cosciente, pre legge n. 219/2017 (legge sul c.d. biotestamento).
Diritto
Con la pronuncia in commento, la Cassazione dà risposta ad alcune importanti domande oggetto di dibattito in campo giuridico e medico. Ne esamineremo quattro.
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Quali princìpi costituzionali trovano applicazione in materia di dissenso alle emotrasfusioni da parte di un Testimone di Geova?
Dato che all’epoca dei fatti non era ancora entrata in vigore la legge n. 219/2017, la Cassazione rileva che “la disciplina della fattispecie resta affidata ai principi costituzionali” sul diritto di autodeterminazione sanitaria (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e di libertà religiosa (art. 19 Cost.).
Quanto al diritto di autodeterminazione, la Corte ribadisce che “la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce …diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute” (Cass. n. 28985/2019) e richiama la fondamentale decisione della Corte Costituzionale n. 438/2008, secondo cui “il consenso informato…si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento” negli artt. 2, 13 e 32 Cost.
Rispetto alla libertà religiosa, la Corte preliminarmente ricorda che si tratta di “un diritto inviolabile” tutelato “al massimo grado” (Corte Cost. n. 52/2016) e chiarisce la portata di tale garanzia che deve essere positiva, «giacché il principio di laicità … è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze Cass. n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenza Cass.n. 67 del 2017)». Quindi, secondo la Cassazione, è necessario che l’ordinamento appresti dei meccanismi volti a dare effettiva attuazione e tutela a tale diritto fondamentale.
Al riguardo, segue un passaggio molto interessante della sentenza. Non ha senso, secondo la Corte, contrapporre all’esercizio del diritto di rifiuto alle emotrasfusioni, quale espressione di libertà religiosa, la garanzia della vita o salute del paziente. Nella fattispecie in esame il Giudice non può ricavare una regola di giudizio del caso concreto operando “[un’] attuazione graduata nell’ambito di un bilanciamento” tra il diritto di manifestare la propria fede religiosa e “la circostanza della necessità dell’emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente”. Questi diritti e interessi rientrano esclusivamente nella “sfera soggettiva [del paziente] … e non ad un bene-interesse contrapposto a tale posizione”. Non sussiste, in altri termini, “un principio da contrapporre a quello dell’autodeterminazione e della libertà religiosa”, garantita con “piena e diretta attuazione” dall’art. 19 Cost.. La Corte, con un’efficace immagine mentale, descrive un processo di “osmosi” di tali diritti costituzionali, non occorrendo pertanto alcuna opera di bilanciamento fra gli stessi. In questo modo la pronuncia conferma il definitivo abbandono dell’abusato concetto di “intervento per stato di necessità”, classico “grimaldello” usato in passato per violare la porta dell’autodeterminazione sanitaria e delle volontà espresse dall’individuo, in nome di un astratto ed eterodeterminato diritto alla vita.
Da tale interpretazione dei princìpi costituzionali, la Corte ricava la seguente regola di giudizio: il “Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione”, essendosi instaurato col medico “uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto”.
Al centro, come da giurisprudenza consolidata, viene pertanto posto il paziente, con le sue scelte di vita e i valori che caratterizzano la persona, fra cui indubbiamente i propri convincimenti religiosi.
La regola di giudizio enunciata permette a questo punto alla Corte di rilevare l’erroneità del ragionamento fatto nei precedenti gradi di giudizio, secondo cui a) l’accettazione dell’intervento chirurgico equivaleva ad un consenso implicito al trattamento trasfusionale; b) l’unico modo per manifestare un autentico dissenso era lasciare l’ospedale. Secondo la Corte “la dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può … essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo”. Pertanto, una cosa è il consenso all’intervento chirurgico e un’altra è il consenso al trattamento emotrasfusionale.
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Quale valore specifico deve essere giuridicamente attribuito al rifiuto delle emotrasfusioni espresso da un paziente Testimone di Geova?
Si può dire che la pronuncia in commento attribuisce un valore peculiare al dissenso alle emotrasfusioni da parte del Testimone di Geova nell’ambito della protezione costituzionale della libertà religiosa in quanto, come testualmente richiamato nella pronuncia, “deve darsi qui continuità alla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha già posto in evidenza il collegamento del diritto di rifiutare il trattamento sanitario all’art. 19 Cost. in relazione a casi in cui il paziente era Testimone di Geova”:
- 7 giugno 2017, n. 14158, relativa a un paziente incosciente in seguito a un incidente sul lavoro e al potere di rifiutare le emotrasfusioni da parte del suo amministratore di sostegno secondo le volontà precedente espresse a mezzo DAT;
- 15 maggio 2019, n. 12998, relativa al diritto di un paziente con emorragie conseguenti a un’invalidante malattia cronica a vedersi nominato un amministratore di sostegno con il potere di rifiutare le emotrasfusioni a protezione del rispetto della volontà del paziente espressa anche a mezzo DAT in previsione del futuro, ma probabile, pericolo di vita;
- 15 gennaio 2020, n. 515, relativa a un sinistro stradale mortale, in cui il risarcimento danni della vittima era stato ridotto in appello del 50% perché il paziente, in stato di incoscienza, aveva rifiutato a mezzo DAT le trasfusioni di sangue, rifiuto da qualificarsi come contributo causale (equivalente a condotta negligente) al danno. Diversamente, la Suprema Corte qualifica il rifiuto alle emotrasfusioni “atto di esercizio di un diritto garantito dall’ordinamento” ed esclude che possa mai equivalere a condotta negligente e causale del danno. Dopo il richiamo sia agli artt. 2, 13, 19 e 32 Cost. che agli artt. 8, 9 e 14 Cedu, si conclude che “è sufficiente ribadire che la natura del diritto esercitato, cioè il rifiuto dell’emotrasfusione, ha acquistato una tale rilevanza anche nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni di sorta al suo esercizio”.
La Cassazione sposa e riporta, nell’illustrare questo concetto, larghi stralci del ricorso presentato dalla paziente, laddove previo richiamo della “sentenza della Corte Edu 10 giugno 2010, “Testimoni di Geova di Mosca vs. Russia”[1], sottolinea che “quella dei Testimoni di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza”, dato che, “se un Testimone di Geova accettasse volontariamente una trasfusione di sangue, ciò equivarrebbe ad un atto di abiura della propria fede”, e che, “non si tratta, quindi, di rispettare solo il corpo della persona nella sua fisicità, ma di rispettare la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici e religiosi”.
L’unicità di questo dissenso sta nel suo duplice valore, come afferma la Corte, ossia quale espressione del “principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario” e della “libera professione della propria fede religiosa”.
Pertanto il medico, nell’approcciarsi ad un paziente Testimone di Geova, deve essere bene consapevole della forza di tale rifiuto che, come riporta sempre la Corte, “non costituisce il mero esercizio del diritto di autodeterminazione sanitaria ma è una vera e propria forma di obiezione di coscienza, radicata in ragioni religiose”.
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Di fronte al peggioramento delle condizioni cliniche che possono far ritenere sussistente un pericolo di vita per il paziente, il suo precedente rifiuto ad un trattamento sanitario considerato dai medici salva vita, mantiene valore o può essere superato?
La Cassazione risponde a tale quesito affermando che “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte”.
La sentenza richiama alcuni precedenti accessi giurisprudenziali (in particolare la sentenza n. 23676/2008) ove la Cassazione ha avuto modo di precisare le caratteristiche che deve avere tale dissenso per considerarsi valido ed operante, ossia che deve essere “espresso, inequivoco ed attuale”. La Corte, all’epoca, escluse valore ad una manifestazione di dissenso alle emotrasfusioni da parte di un Testimone di Geova visto che, in quel caso essa era stata espressa con un cartellino contenente esclusivamente un «sibillino sintagma “niente sangue”».
Tuttavia, già all’epoca, anche prima dell’introduzione delle DAT avvenuto con la legge 219/2017, la Corte aveva chiaramente sancito che in presenza di una manifestazione di volontà anche espressa in forma scritta purché articolata, puntuale ed inequivoca, il dissenso in essa contenuto doveva ritenersi pienamente valido e operante.
Pertanto, se il paziente rifiuta un trattamento sanitario in modo specifico, non conta che vi sia o non vi sia il rischio di pericolo di vita: tale rifiuto diviene insuperabile. Il motivo della centralità di tale dissenso è spiegato dalla sentenza in commento grazie al richiamo dei princìpi costituzionali pertinenti come su illustrati.
L’attualità del dissenso, quindi, non è da riferirsi al momento del peggioramento della situazione clinica o del sorgere del pericolo di vita, ma alla volontà manifestata. Il dissenso dato in condizioni di piena capacità non perde valore, per la Cassazione, qualora sopraggiunga un successivo stato di incapacità del soggetto o una situazione di pericolo.
La ragione del rifiuto della terapia trasfusionale, collegato all’adesione ad una determinata religione, è ragione che di per sé stessa comporta la permanenza nel tempo della volontà, che è espressione dell’osservanza incondizionata dei princìpi di cui alla fede manifestata.
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Intervento e rifiuto alle emotrasfusioni: rispetto del principio di “alleanza terapeutica” tra medico e paziente
La Cassazione fornisce in conclusione anche un c.d. obiter dictum (essendo su altro il fulcro della sentenza), con “uno sguardo” alla legge n. 219/2017 e ai princìpi essenziali nella relazione medico paziente.
In primis, nell’ordinanza si fa richiamo alla prima parte dell’art. 1 comma 6 della stessa laddove si afferma che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
Pertanto, secondo la legge 219/2017, una volta che il medico ha applicato i princìpi in essa espressi tesi alla valorizzazione della volontà del paziente, qualora dal dissenso del paziente derivino conseguenze per lo stesso pregiudizievoli, il medico è esente da conseguenze civili e penali. Peraltro, per inciso, la stessa giurisprudenza penale di merito ha infatti ritenuto penalmente responsabile per violenza privata il medico che procede ad emotrasfusione nonostante il dissenso espresso dal paziente (sul punto si veda Tribunale Termini Imerese n. 465/18 del 8/6/2018 – confermata dalla Corte di Appello di Palermo – su di un caso di paziente Testimone di Geova cosciente; GIP di Tivoli del 17/2/2017 e Tribunale di Tivoli n. 1179/2020 del 9/12/2020, su rifiuto alle emotrasfusioni da parte di paziente Testimone di Geova incosciente manifestato tramite DAT ribadite da parte di un amministratore di sostegno appositamente nominato).
Confermata così l’insuperabilità del dissenso alle emotrasfusioni dalla recente norma di legge, a questo punto, l’Ordinanza considera un solo raro e residuale caso in cui potrebbe trovare applicazione il comma 6 dell’art. 1 della legge n. 219/2017, dove si legge che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Quello in cui un paziente prestasse “il consenso a un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri”.
Colpisce l’uso dell’aggettivo “consustanziale”, proprio in genere del vocabolario teologico, in quanto ben chiarisce quanto fossero diverse le circostanze del caso di specie, in cui il giudice di appello aveva erroneamente affermato che per il medico era legittimo ritenere configurato un consenso implicito alla trasfusione con il consenso all’intervento. La Corte priva di ogni valenza tale ragionamento anche alla luce della nuova normativa, e precisa che il medico deve comunque rispettare il dissenso, potendo legittimamente astenersi dall’intervento chirurgico solo nel raro caso in cui alla realizzazione di un intervento chirurgico fosse “consustanziale” il rischio emorragico, vi fosse cioè una “identità di sostanza” (cioè, in termini scientifici, un’equivalenza del 100%). In tal caso, il paziente non potrebbe pretendere che l’intervento fosse comunque realizzato senza l’utilizzo delle emotrasfusioni; il medico avrebbe già chiarito, prima dell’intervento, che quella specifica operazione chirurgica senza sangue sarebbe incompatibile con la vita e non vi sarebbe alcuna speranza di sopravvivenza.
Una situazione in sostanza non difforme dal caso in cui un paziente chieda una dose di morfina per il dolore che incidendo sulla sua condizione cardiaca causerebbe al 100% la morte.
La Corte di Cassazione, perciò, conformemente alla propria giurisprudenza ma anche a quella della Corte Costituzionale e della Corte EDU, ha chiaramente voluto eliminare ogni possibilità di comportamenti tipici della “medicina difensiva” (tanto dannosa quanto inutile) diretti a compulsare, se non a forzare, un consenso del paziente con lo spettro di rifiutare arbitrariamente l’esecuzione chirurgica per il semplice “rischio emorragico”, che anche se in diversa misura è proprio di ogni intervento.
Perciò anche con riferimento alla nuova legge, la Corte conferma quello che già aveva chiaramente riconosciuto, ossia che “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte”, ovvero, con lo stesso principio di diritto contenuto nella decisione in commento: “Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione … anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.
Conclusioni:
La sentenza e il principio da essa enunciato rappresentano uno strumento di tutela non solo per il paziente, ma anche per gli operatori sanitari che hanno bisogno di certezze e garanzie. In passato i sanitari potevano pensare di trovarsi fra “l’incudine e il martello” di fronte al dissenso alle emotrasfusioni del paziente Testimone di Geova, ostaggi delle loro paure. L’opzione era: rispettare la volontà del paziente e non trasfondere avendo il timore, in caso di esito infausto, di azioni penali, ovvero trasfondere nonostante il dissenso subendo anche in questo caso azioni civili e penali da parte del paziente e dei suoi congiunti? L’evoluzione giurisprudenziale, anche con la sentenza in commento, e indubbiamente la legge n. 219/2017, sembrano aver messo finalmente a tacere questi dubbi e paure. Ora di una cosa non si deve aver paura: applicare la legge e rispettare la Costituzione.
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*- Avv. Federico Papini, foro di Pisa, collaboratore del laboratorio universitario LIDER LAB della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, già autore di articoli su riviste specializzate quali: Rivista Italiana di Medicina Legale, Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, Responsabilità e Risarcimento, e su banche dati (Leggi d’Italia e Lex24). I temi affrontati hanno riguardato il diritto di autodeterminazione sanitaria, anche inerente ai minori.
– Avv. Lucio Marsella, foro di Roma, esperto di diritto di autodeterminazione e responsabilità sanitaria. Relatore in numerosi convegni medici sul tema del consenso informato, con speciale riguardo al trattamento del rifiuto dei pazienti a trattamenti sanitari anche per motivi religiosi. Autore di articoli di commento a sentenza, pubblicati su svariati siti web di settore oltre che su banche dati (Leggi d’Italia e Lex24)
– Avv. Cristina Moşenscaia, foro di Avellino (collaboratrice di studio)
Note
[1] §§ 132, 136 e 141 “Risulta che molti Testimoni di Geova hanno operato la scelta consapevole di rifiutare emotrasfusioni in anticipo e non pressati da un’emergenza, ciò che è dimostrato dal fatto che si erano preparati alle emergenze compilando il documento “Niente Sangue” e portandolo con sé nel borsellino…Concepita per fornire direttive anticipate al medico, la tessera si limitava a certificare la scelta che il paziente aveva già operato per se stesso, e cioè di rifiutare le trasfusioni di sangue e di componenti del sangue.”
“La libertà di accettare o rifiutare particolari cure mediche, o di scegliere cure alternative, è essenziale per i principi di autodeterminazione e autonomia dell’individuo. Un adulto capace è in grado di decidere, ad esempio, se sottoporsi a un determinato intervento chirurgico, a una cura medica o, analogamente, se accettare una trasfusione di sangue. Tuttavia, perché questa libertà abbia significato, il paziente deve avere il diritto di operare scelte che siano in armonia con i suoi convincimenti e valori, a prescindere da quanto ad altri essi possano parere irrazionali, poco saggi o imprudenti. Già numerose autorevoli corti chiamate a esaminare casi di Testimoni di Geova che avevano rifiutato la trasfusione di sangue hanno concluso che, nonostante l’interesse pubblico a preservare la vita o l’incolumità del paziente fosse indubbiamente legittimo e molto sentito, esso è dovuto soccombere all’ancor più sentito interesse del paziente a decidere il corso della propria vita (v. sentenze citate sopra nei paragrafi da 85 a 88). … lo Stato deve astenersi dall’interferire con la libertà individuale dell’individuo in campo sanitario, dato che tale ingerenza può solo diminuire, e non aumentare, il valore della vita (v. sentenze Malette c. Shulman e Fosmire c. Nicoleau, citate sopra nei paragrafi 85 e 87)”
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