L’autotutela nel diritto amministrativo
L’autotutela, ossia il potere di farsi giustizia da sé, è un istituto che attraversa trasversalmente le varie branche del diritto rivestendo in ognuna di esse una portata e delle caratteristiche differenti.
Nel diritto civile e nel diritto penale tale potere è vietato. Vige, infatti, quale principio generale, il divieto di autotutela che affonda le proprie radici nella repressione di tutte le forme primitive di giustizia privata e nel principio del monopolio esclusivo dell’amministrazione pubblica della giustizia. Alla base di tale divieto, infatti, c’è l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico. Inoltre chi si fa giustizia da sé produce inevitabilmente delle conseguenze sfavorevoli nei confronti degli altri collidendo con il principio generale del rispetto dei diritti altrui e del neminem laedere.
Quindi, stante il divieto di autotutela nel diritto civile e nel diritto penale, quest’ultima rappresenta un rimedio ammesso dall’ordinamento solo in via eccezionale, nei casi espressamente previsti dalla legge, contro l’altrui violenza o minaccia ovvero contro l’altrui lesione di un proprio diritto.
Nel diritto amministrativo, invece, l’autotutela si identifica con l’esercizio di un potere ampio utilizzabile dalla pubblica amministrazione per rimuovere unilateralmente ed autonomamente gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’interesse pubblico.
L’autotutela rappresenta, infatti, la possibilità per la pubblica amministrazione di risolvere i conflitti attuali o potenziali, eventualmente insorgenti con i soggetti interessati dai suoi provvedimenti, senza che sia necessario l’intervento di un giudice.
Lo scopo di tale strumento è quello di verificare la legittimità e l’opportunità degli atti amministrativi precedentemente emanati dalla pubblica amministrazione al fine di garantirne l’efficacia e l’esecuzione.
Ciò non significa, tuttavia, che il potere di autotutela sia completamente scevro da ogni limite o vincolo in quanto l’attività amministrativa, quandanche sia discrezionale, deve ritenersi assoggettata al rispetto dei principi cardine che ne regolano l’esercizio definiti a livello costituzionale ed enunciati dall’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo.
In passato, infatti, si riteneva che il potere della p.a. di risolvere i conflitti, potenziali o attuali, relativi ai suoi provvedimenti o alle sue pretese, essendo insito nella stessa potestà autoritativa, fosse, di conseguenza, sempre valido in quanto finalizzato al soddisfacimento di un interesse pubblico preminente su quello privato.
Con la codificazione delle principali figure dell’autotutela – ad opera della L. 15 del 2005 – e grazie alle profonde trasformazioni dell’attività amministrativa – intervenute a partire dagli anni novanta del secolo scorso – invece, la presunzione di legittimità che assisterebbe l’azione amministrativa in sede di autotutela ha progressivamente perso la sua validità e, ad oggi, la pubblica amministrazione deve agire sempre nel rispetto dei rigorosi limiti stabiliti dalla legge al fine di giungere alla soluzione più opportuna e ragionevole per il caso concreto.
Il potere di autotutela è, quindi, saldamente ancorato al principio di legalità grazie al quale sono esattamente disciplinati i modi e le forme attraverso le quali tale potere deve essere esercitato. In nome dell’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, infatti, il potere di autotutela è un potere spendibile unicamente nei modi e nei termini in cui il legislatore lo consente.
Il concetto di autotutela è, tuttavia, molto ampio e comprende sia l’autotutela esecutiva che l’autotutela decisoria.
Autotutela esecutiva
L’autotutela esecutiva consiste nel potere dell’amministrazione di portare ad esecuzione i propri provvedimenti unilateralmente e, se necessario, coattivamente – quindi contro la volontà del destinatario – senza dover ricorrere all’autorità giurisdizionale.
Si parla in questi casi di esecutorietà dell’amministrazione: essa consente alla p.a. di realizzare quei risultati che i privati possono conseguire nei confronti dei terzi solo rivolgendosi al giudice.
Stante il rispetto dei principi generali quali il principio di legalità, il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi e la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost – che escludono che i provvedimenti della p.a. possano essere coercitivamente portati ad esecuzione senza le garanzie offerte da un preventivo vaglio in sede giurisdizionale – l’autotutela esecutiva è espressione di un potere eccezionale come tale esercitabile soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge.
Questa statuizione è confermata dall’art. 21 ter della L. 241/1990 che, nel ricondurre ai soli casi stabiliti dalla legge il potere della p.a. di imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei suoi confronti, ribadisce la necessità che l’attuazione coattiva e unilaterale dei provvedimenti amministrativi avvenga nei soli casi espressamente previsti dalla legge.
Autotutela decisoria
L’autotutela decisoria si configura quando l’amministrazione esercita discrezionalmente un potere di rimozione di provvedimenti precedentemente adottati.
L’esercizio di questo potere è condizionato alla sussistenza di un interesse pubblico e si sostanzia nell’esercizio del potere di ritiro che si manifesta attraverso gli atti dell’annullamento d’ufficio (art. 21 nonies l. 241/1990) ovvero attraverso la revoca (art. 21 quinquies l. 241/1990).
In entrambe le ipotesi, pertanto, la pubblica amministrazione, nell’esercitare tale potere discrezionale, è chiamata a valutare il requisito dell’attualità dell’interesse pubblico ai fini della rimozione degli effetti del provvedimento originario.
La revoca ex art. 21 quinquies l. 241/1990
La revoca, disciplinata dall’art. 21 quinquies della legge sul procedimento amministrativo, rappresenta il ritiro, con efficacia ex nunc, di un atto valido ma inopportuno poiché non conforme all’interesse pubblico.
Il provvedimento in questione, infatti, è conforme al paradigma normativo, e quindi è valido, ma non risponde alle ragioni di pubblico interesse.
La revoca, quindi, interviene se i risultati cui si perviene attraverso un provvedimento valido non meritano di essere conservati.
Tale potere di autotutela discrezionale risponde al principio della costante rispondenza dei rapporti amministrativi all’interesse pubblico.
Il legislatore recentemente è intervenuto modificando i presupposti per l’esercizio del potere di revoca riformulando l’art. 21 quinquies e predisponendo che la revoca è esercitabile solo: per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; nel caso di mutamento della situazione di fatto – purché si tratti di mutamento non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento – e per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. revoca ius poenitendi) ma con l’esplicita esclusione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
La revoca, quindi, in virtù del principio della perenne rispondenza dell’assetto dei rapporti amministrativi all’interesse pubblico, elimina un atto valido ma inopportuno, perché non corrispondente ad un interesse pubblico, facendone venire meno l’efficacia al ricorrere delle condizioni tipizzate dal legislatore.
L’annullameto d’ufficio ex art. 21 nonies l. 241/1990
A differenza della revoca, l’annullamento d’ufficio, disciplinato dall’art. 21 nonies della l. 241/1990 ed espressione anch’esso di autotutela discrezionale, consiste nel potere di eliminazione di un provvedimento amministrativo illegittimo.
Mentre, quindi, nella revoca, il provvedimento è valido ma non risponde all’interesse pubblico, nell’annullamento, invece, il provvedimento è illegittimo perché non conforme al paradigma legislativo e, quindi, essendo invalido, al ricorrere delle condizioni previste dalla legge, l’amministrazione può annullarlo.
L’art. 21 nonies l. 241/1990, così come novellato da ultimo dalla c.d. Riforma Madia (L. 124/2015), individua i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela.
Primo presupposto è l’accertamento, da parte dell’amministrazione, dell’illegittimità del provvedimento amministrativo. L’ambito di operatività del potere di annullamento d’ufficio si estende a tutti i possibili vizi di legittimità (l’art. 21 octies co.1. l. 241/1990 stabilisce, infatti, che è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza).
Fanno eccezione, ai sensi dell’art. 21 octies co. 2 l. 241/1990, e quindi non giustificano l’annullamento in autotutela, i vizi formali e procedimentali che non abbiano inciso sul contenuto del provvedimento perché il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e, altresì, nel caso di mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, qualora l’amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato nel caso concreto.
Secondo requisito che deve ricorrere per potersi procedere all’annullamento d’ufficio è l’esistenza di un interesse pubblico che richieda l’annullamento. Tale interesse deve essere attuale, e cioè riferirsi al momento in cui l’annullamento viene pronunciato, e specifico ossia diverso e ulteriore rispetto alla semplice esigenza di ripristinare l’ordine giuridico violato.
La necessaria sussistenza di tale requisito è volta a tutelare il privato. L’annullamento d’ufficio, infatti, richiedendo la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, rappresenta l’esercizio di un potere discrezionale in quanto l’amministrazione valuterà se l’eliminazione del provvedimento invalido risponda ad un interesse pubblico oppure no. Per tale ragione il riesame non deve limitarsi alla sola constatazione della difformità dell’atto rispetto al paradigma di legge ma implica, altresì, un’adeguata ponderazione degli interessi pubblici e privati concorrenti. Si richiede, in altre parole, una verifica intesa a stabilire se l’assetto di interessi realizzato dall’atto illegittimo non sia comunque tale da considerarsi prioritario rispetto all’esigenza di ripristinare la legalità violata.
A maggiore conferma di tali considerazioni sull’amministrazione grava l’onere di motivare le ragioni della prevalenza dell’interesse pubblico all’annullamento in autotutela.
In mancanza della contemporanea presenza di questi due requisiti l’annullamento d’ufficio è illegittimo.
Terzo requisito affinché la p.a. possa esercitare tale potere di autotutela discrezionale è la ragionevolezza del tempo trascorso tra l’adozione del provvedimento di primo grado e il suo annullamento in autotutela. L’art. 21 nonies L. 241/1990 prescrive, infatti, che l’annullamento d’ufficio deve avvenire entro un termine ragionevole. La ragionevolezza del termine entro il quale deve essere esercitato il potere di autotutela evoca un concetto relazionale riferito al complesso delle circostanze rilevanti nella fattispecie concreta.
Con la Riforma Madia (l’art. 6 della Legge n. 124/2015) sono state apportate delle significative innovazioni alla disciplina dell’autotutela amministrativa attraverso una modifica sostanziale dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 che ha inciso proprio sui termini entro il quale si può esercitarsi il potere di autotutela prevedendo che tale termine ragionevole non può essere superiore ai 18 mesi nel caso di provvedimenti di autorizzazione o di distribuzione di vantaggi economici.
Allo stesso tempo tale termine è derogabile, ex art. 21 nonies comma 2 bis, quando si tratti di provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato. In questi casi, infatti, stante la condotta illecita del destinatario dell’atto non appare ragionevole garantire la tutela dell’affidamento in ordine alla stabilità del provvedimento.
Quarto ed ultimo requisito richiesto dall’art. 21 nonies L. 241/1990, per poter procedere all’annullamento in autotutela, è la valutazione degli interessi dei destinatari e dei soggetti interessati alla conservazione del provvedimento di primo grado.
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