Un’interessante e per certi versi innovativa sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia Sezione Staccata di Catania ha affrontato il tema della sindacabilità del provvedimento di diniego di annullamento in autotutela in materia tributaria.
La vicenda processuale riguardava un socio di una società di fatto a cui, a seguito di una verifica della Guardia di Finanza, erano stati notificati diversi avvisi di accertamento avverso i quali (negligentemente) non veniva proposto ricorso. Tuttavia, il contribuente ha presentato all’Agenzia delle Entrate, a distanza di un notevole lasso di tempo, un’istanza con la quale ha richiesto l’annullamento degli avvisi di accertamento poiché, per gli anni d’imposta oggetto di accertamento, lo stesso non era più socio della società avendo ceduto le proprie quote ad altro soggetto. L’Amministrazione Finanziaria ha risposto negativamente a tale richiesta sottolineando la grave inerzia del contribuente nel non essersi opposto a tempo debito agli avvisi di accertamento nonché il danno erariale che sarebbe derivato dall’annullamento dei provvedimenti impositivi nell’impossibilità di poter recuperare, visto anche il tempo trascorso, i presunti proventi non dichiarati nei confronti del soggetto cessionario delle quote.
I Giudici del primo grado di giudizio hanno dato ragione all’Amministrazione Finanziaria ritenendo prevalente le ragioni di pubblico interesse all’incasso dei tributi sul diritto all’annullamento degli atti emessi nei confronti di un soggetto non tenuto al pagamento degli stessi per mancanza di legittimazione passiva.
In secondo grado, invece, la Commissione Tributaria ha ritenuto prevalente il diritto alla giusta imposizione sancito dall’art. 53 della Costituzione che non può essere compresso e che è prevalente anche sulle ragioni creditorie del Fisco.
Prima di commentare gli aspetti più interessanti della sentenza oggetto del presente articolo, è d’obbligo fornire brevi cenni sull’istituto dell’autotutela in materia tributaria. Il decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37, all’art. 2, prevede, per l’Amministrazione Finanziaria, la possibilità di annullare o revocare, l’atto in autotutela attivando la procedura, sia spontaneamente sia su istanza del contribuente , anche in pendenza di giudizio ovvero in caso di non impugnabilità dell’atto. L’esercizio del potere di annullamento d’ufficio trova le sue ragioni di legittimità nella sussistenza congiunta dell’illegittimità dell’atto nonché di uno specifico, concreto e attuale interesse pubblico all’eliminazione dello stesso, “diverso dal generico interesse al ripristino della «legalità», che, in esito a un apposito processo logico di comparazione, risulti prevalente rispetto all’interesse pubblico alla stabilità delle situazioni giuridiche”. In particolare, l’interesse pubblico all’annullamento del provvedimento va ricercato nella necessità di un’imposizione giusta e conforme alle regole dell’ordinamento e nell’esigenza di eliminare o evitare controversie inutili e onerose. E’ interessante ricordare che l’Amministrazione finanziaria, nella risoluzione ministeriale n. 4079 del 18 luglio 1994, aveva già precisato che “nel settore tributario, tra gli interessi pubblici idonei a sorreggere, sul piano della legittimità, l’intervento in autotutela è sicuramente da annoverare anche l’esigenza che al contribuente non sia richiesto di corrispondere al Fisco più di quanto effettivamente dovuto in base alle norme in vigore; cosa che, altrimenti, urterebbe contro i principi di trasparenza e giustizia sostanziale oramai riconosciuti come immanenti a qualunque attività della pubblica amministrazione”.
La sentenza della CTR Sicilia Sez. Staccata di Catania, n. 493/34/15 dell’11.2.2015, fornisce degli spunti interessanti in materia di impugnabilità del diniego di annullamento in autotutela sia sotto il profilo della giurisdizione che sui limiti alla sindacabilità del provvedimento stesso.
In ordine alla prima questione, la sentenza in commento si pone sulla stessa lunghezza d’onda delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze nn. 16776 e 7389, datate rispettivamente 10 agosto 2005 e 27 marzo 2007), evidenziando che l’attribuzione al giudice tributario di tutte le controversie di qualunque genere e specie rappresenta una clausola generale che comporta una competenza specifica anche per gli atti di autotutela tributaria, in quanto incidenti sul rapporto obbligatorio tributario, a prescindere dalla natura discrezionale di tali provvedimenti. Pertanto, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, le ipotesi di diniego di autotutela rientrano nella competenza della giurisdizione tributaria, anche se tale tipologia di atto non trova posto nel “catalogo” degli atti autonomamente impugnabili di cui all’art. 19 del decreto legislativo n. 546/1992. Ciò posto, occorre osservare che la giurisprudenza di legittimità – pur riconoscendo la giurisdizione sulla materia alle Commissioni tributarie – non si è spinta fino a estendere il sindacato dei giudici tributari sugli atti di autotutela. Essendo, infatti, tali atti frutto di un’attività discrezionale dell’Amministrazione sottesa a un interesse pubblico, essi possono formare oggetto di sindacato da parte del giudice tributario solo per i profili attinenti alla legittimità della condotta dell’Ufficio, non potendo, invece, detto sindacato estendersi fino a giudicare, nel merito, la fondatezza della pretesa tributaria. In questo senso è stato affermato che “l’esercizio del sindacato sull’attività di autotutela costituisce procedimento autonomo e ben distinto dal procedimento di impugnazione di un atto impositivo, con cui non interferisce” e, in ogni caso, non rappresenta “un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti”. Tale posizione sembra rispondere alla necessità di evitare che il contribuente possa utilizzare il diniego di autotutela come “escamotage” per contestare la pretesa tributaria in presenza di atti divenuti definitivi, così da aggirare la normativa e rivolgersi al giudice tributario una volta spirato il termine ordinario per proporre ricorso.
Nel caso di specie, i Giudici della CTR Sicilia hanno correttamente operato in quanto hanno sindacato esclusivamente la legittimità del provvedimento di diniego di annullamento e, forse per la prima volta nel panorama giurisprudenziale, hanno ritenuto che quest’ultimo fosse illegittimo (con conseguenziale mandato all’Ufficio di riemettere il provvedimento tenendo conto dei fatti esposti nell’istanza e dei principi costituzionali) in quanto, a fronte di una palese carenza di legittimazione passiva nei confronti dell’obbligazione tributaria scaturente dagli avvisi di accertamento (divenuti definitivi per negligenza del contribuente), l’Ufficio non avrebbe potuto comunque denegare l’annullamento motivandolo con la prevalenza della necessità di garantire la riscossione dei tributi (pretesamente evasi e non più recuperabili per il decorso dei termini), pena la violazione del principio costituzionale di giusta imposizione sancito dall’art. 53 della Costituzione e riconosciuto, anche dall’Amministrazione Finanziaria, come principio di interesse pubblico idoneo a sorreggere l’annullamento degli atti illegittimi.
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