E’ questo il principio di diritto fatto proprio dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, con sentenza n. 13237 del 28 maggio 2018, nell’ambito di un procedimento disciplinare a carico di un avvocato, che si era opposto alla sospensione dall’esercizio della professione per un periodo di due mesi (in una vicenda legata ad una querela penale, il legale si era messo direttamente in contatto con la controparte e non con il suo difensore, così incorrendo nella violazione degli artt. 22 e 27 Codice deontologico).
Secondo l’avvocato ricorrente, in particolare, il Cnf, nel comminargli la sospensione di due mesi, erroneamente non aveva posto a confronto la disciplina sanzionatoria astrattamente applicabile all’illecito secondo il Codice vigente al momento della commissione, e quella invece più favorevole, di cui al nuovo Codice deontologico entrato in vigore il 16 ottobre 2014. In forza del nuovo Codice, difatti, l’illecito addebitato alla ricorrente sarebbe stato sanzionabile con la sospensione determinata nel massimo sino ad un anno, ma non determinata nel minimo di due mesi (come invece nel vecchio Codice), per cui irrogabile anche in misura inferiore, finanche di un giorno.
Limite minimo per la sospensione: non è previsto espressamente, ma lo si deduce
L’esegesi dell’art. 22, come prospettata dalla ricorrente – controbatte la Corte Suprema – risulta priva di fondamento e tanto rende la censura infondata. Infatti il disposto della lett. b), quando prevede che “nei casi più gravi, la sanzione disciplinare può essere aumentata, nel suo massimo (…) fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore ad un anno, nel caso sia prevista la sanzione della censura”, non si presta affatto ad essere inteso nel senso che non vi sia un limite minimo per la sospensione. Il limite invece c’è, ed è appunto di due mesi.
Lo si deduce, chiariscono le Sezioni Unite, almeno da un paio di disposizioni. La prima è il comma 1 del medesimo art. 22, laddove definisce la sospensione come una sanzione consistente nell’ “esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni (…)”. La seconda, è lo stesso comma 2 dell’art. 22, laddove prevede che “nei casi più gravi, la sanzione disciplinare può essere aumentata nel suo massimo (…) fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi”.
Si può dunque evincere che, in presenza di una metanorma definitoria della durata minima e massima della sanzione della sospensione, il silenzio del nuovo Codice deontologico implica solo un rinvio ad essa. Il motivo è dunque infondato e la sanzione comminata alla ricorrente, confermata.
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