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Premessa
Con sentenza n. 13486 del 22 maggio 2019 (di seguito “Sentenza”)[1], la Suprema Corte si è pronunciata sul valore probatorio degli accertamenti antitrust posti in essere da un’Autorità indipendente diversa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito “AGCM” o “Autorità”) e, precisamente, dalla Banca d’Italia, che fino all’entrata in vigore dell’art. 19, comma 11, della Legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”, aveva un potere di accertamento analogo a quello dell’Autorità in relazione alle pratiche di intesa nel settore bancario e creditizio.
La Sentenza, seppure dettata con riferimento a un contesto normativo peculiare, oramai superato, rappresenta l’occasione per una riflessione sul valore di prova da ascrivere agli accertamenti posti in essere da un’Autorità indipendente diversa da quella preposta. Tema che pare di attuale interesse in ragione (i) della crescente attenzione che l’AGCM sta dedicando alla tutela del consumatore, dove spesso le competenze delle varie Autorità indipendenti si sfiorano o addirittura intersecano, e (ii) delle strutturali difficoltà ad attecchire del private enforcement correlato a illeciti consumeristici[2].
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2. La vicenda processuale
2.1. La Sentenza discende dall’azione promossa da un fideiussore, al fine di ottenere la nullità del contratto di fideiussione omnibus e la conseguente liberazione dagli obblighi nei confronti dell’istituto di credito.
In particolare, parte attrice aveva lamentato che il contratto riproducesse determinate clausole contenute in uno schema generale elaborato dall’Associazione Bancaria Italiana (di seguito “ABI”), il quale, a seguito di un procedimento avviato da Banca d’Italia, era stato ritenuto illecito in quanto tale da configurare un’intesa restrittiva della concorrenza ex art. 2, comma 2, lett. a), della Legge 10 ottobre 1990, n. 287/1990, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del Mercato” (di seguito “Legge antitrust”), avente ad oggetto la fissazione di prezzi e altre condizioni contrattuali inique (di seguito “Provvedimento”)[3].
Nonostante le argomentazioni della attrice, la Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado sull’assunto che il procedimento di Banca d’Italia, nonostante l’accertamento posto in essere, non avesse imposto una diffida o una sanzione, con conseguente impossibilità di attribuire una qualche valenza probatoria al Provvedimento.
2.2. La decisione della Corte veniva, dunque, impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e 33 della Legge antitrust, consistente – per quanto di interesse – nella mancata considerazione della natura di prova privilegiata del Provvedimento.
2.3. Ad esito del relativo grado di giudizio, la Suprema Corte ha accolto il ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni.
Innanzitutto, la Corte ha inquadrato sistematicamente il singolo contratto stipulato tra la banca e il fideiussore, considerandolo attuazione “a valle” dell’intesa perpetrata “a monte” ovverosia in sede ABI. Infatti, la ratio della nullità ai sensi dell’art. 33 della Legge Antitrust è quella di togliere alla volontà anticoncorrenziale, formatasi a monte, ogni funzione di copertura formale dei comportamenti a valle[4]..In riferimento alla violazione del divieto di intese, la Corte ha stabilito, dunque, che “Gli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a)”.
Proseguendo, limitatamente al profilo che più rileva in questa sede e cioè quello della peculiare “attitudine probatoria” del Provvedimento, la Corte ha richiamato la propria consolidata giurisprudenza – riferita al contesto normativo previgente al Decreto Legislativo 19 gennaio 2017, n. 3, recante “Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea” – secondo la quale le conclusioni assunte dall’AGCM, se non impugnate o passate in giudicato a seguito del relativo contenzioso dinanzi al Giudice amministrativo, costituiscono “prova privilegiata” in relazione alla sussistenza del comportamento accertato, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti possano offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie[5].
Come anticipato, nel caso di specie, l’accertamento di Banca d’Italia era avvenuto prima della riforma apportata dall’art. 19, comma 11, della Legge n. 262/2005 e, pertanto, in un contesto normativo in cui il Provvedimento risultava ontologicamente assimilabile a una decisione oggi adottata dall’AGCM.
Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha concluso che parte attrice avesse adempiuto al proprio onere della prova e ha ritenuto viziata la pronuncia della Corte di Appello, ritenendo (a) irrilevante il difetto di diffide e sanzioni nel Provvedimento e sufficiente l’accertamento ivi contenuto, nonché (b) coincidenti le clausole di cui al contratto oggetto di contenzioso rispetto a quelle individuate in via generale dall’ABI.
3. Private enforcement e onere della prova
3.1. Come noto, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., è onere della parte, che introduca una domanda risarcitoria antitrust, provare in giudizio l’effettiva sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito lamentato, ovverosia il fatto illecito, il danno ingiusto, il nesso di causalità (giuridica e materiale) tra il fatto e il danno, la colpevolezza dell’agente e l’imputabilità del fatto lesivo.
È altrettanto noto che tale onere si declina diversamente a seconda che l’azione risarcitoria si configuri quale c.d. follow-on action o quale c.d. stand alone action[6].
Nel primo caso, infatti, ovverosia quando l’iniziativa dell’attore segue l’accertamento di un illecito da parte di un’Autorità antitrust, la violazione delle regole a presidio della concorrenza è rilevata dalla preposta Autorità antitrust con un provvedimento che ne costituisce il presupposto logico-giuridico, e di cui l’azione di risarcimento ne richiama in tutto o in parte il contenuto. In tali casi, pertanto, l’accertamento dell’Autorità varrà quale “prova privilegiata” con riferimento almeno all’esistenza della violazione della normativa, rimanendo in capo all’attore l’onere di provare i residui elementi costitutivi della propria domanda.
Successivamente all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 3/2017, il suddetto principio giurisprudenziale è stato codificato, prevedendo che “Ai fini dell’azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell’autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all’articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato. Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima. Quanto previsto al primo periodo riguarda la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l’esistenza del danno” (art. 7, co. 1).
Diversamente, nel caso delle stand alone actions, e quindi delle azioni risarcitorie promosse in assenza di qualsivoglia accertamento da parte di un’Autorità antitrust, sulle cui conclusioni non è possibile pertanto fare affidamento, l’onere della prova di cui all’art. 2697 cod. civ. impone alla parte di provare tutti gli elementi costitutivi della propria domanda.
3.2. Nella motivazione della Sentenza, facendosi riferimento ad un contesto fattuale cui il Decreto Legislativo n. 3/2017, non era applicabile, la Suprema Corte ha fatto ampio ricorso alla giurisprudenza della c.d. prova privilegiata.
A sua volta, detta giurisprudenza è fondata sua una particolare dottrina facente riferimento all’istituto della c.d. presunzione impropria o “verità interinale”[7]. Secondo tale dottrina, lo strumento giuridico della presunzione semplice di cui all’art. 2727 cod. civ. non sarebbe in grado di sussumere tutte le fattispecie cui il nostro ordinamento affida un valore presuntivo. In alcuni casi, infatti, non è possibile applicare la predetta norma in quanto la sua meccanica fallisce nel momento in cui non è presente un fatto noto o provato da cui dedurre il fatto presunto. Esistono, dunque, dei casi in cui l’ordinamento ritiene senz’altro vere determinate proposizioni fattuali sino a prova contraria e senza la presenza di un fatto certo da cui dedurre tale circostanza. Per fare un esempio, si pensi alla presunzione di buona fede, ex art. 1147, comma 3, cod. civ: in tal caso, il legislatore non presume la buona fede sulla base di un fatto noto, ma comanda al Giudice di ritenerla esistente a meno che non sia provato il contrario
Su tali assunti, si è ritenuto non sussistano ostacoli all’introduzione di presunzioni analoghe ad opera della giurisprudenza. Ad esempio, in una pronuncia a sezioni unite[8], in tema di patteggiamento penale, la Cassazione ha osservato come la sentenza di applicazione della pena patteggiata, nonostante non possa avere valore di giudicato sostanziale in relazione al fatto di reato contestato, esoneri la parte che se ne avvale nel giudizio risarcitorio dall’onere probatorio con riferimento alla ricostruzione dell’illecito, il quale viene appunto presunto.
Evidente il parallelismo con quanto accadeva con riferimento alla c.d. “prova privilegiata” in relazione agli illeciti anticoncorrenziali. In entrambe le ipotesi, secondo la dottrina citata in nota, si ordinava al Giudice di ritenere senz’altro vera la ricostruzione di un fatto operata da un’altra Autorità a prescindere da una circostanza nota o provata da cui desumerne l’accettabilità.
3.3. Quanto delineato fino ad ora rappresenta il bagaglio giuridico e argomentativo che la Suprema Corte ha utilizzato al fine di dirimere la controversia oggetto della Sentenza. Tuttavia, introducendo il Decreto Legislativo n. 3/2017, il legislatore ha inteso affidare efficacia vincolante alla decisione amministrativa divenuta inoppugnabile, o confermata da sentenza passata in giudicato, con riferimento all’accertamento dell’illecito in sede di private enforcement.
In altre parole, viene a configurarsi un’efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 2909 cod. civ. prima in senso formale, una volta diventata definitiva la decisione, e poi in senso sostanziale, divenendo la fattispecie di volta in volta valutata “definitivamente accertata”. La ratio sottesa alla norma è dichiaratamente quella di rafforzare l’efficacia delle azioni civili c.d. follow on. Il soggetto danneggiato, infatti, può in questo modo fare uso ab utilibus della decisione dell’Autorità e viene di conseguenza esentato dall’onere probatorio dell’elemento costitutivo più complesso della fattispecie, ovvero del fatto contra legem.
4. Efficacia probatoria dei provvedimenti di Autorità indipendenti diverse dall’AGCM ai fini del private enforcement
In tale contesto, la Sentenza offre l’occasione di una ulteriore riflessione circa l’efficacia probatoria dei provvedimenti di altre Autorità indipendenti, diverse dall’AGCM, che incidentalmente si pronuncino su profili di natura antitrust, latu sensu intesi.
Il tema sembra interessante soprattutto per quei settori regolati, in cui le Autorità di settore sono preposte anche alla tutela dei consumatori, sebbene non all’accertamento degli illeciti consumeristici rimessi – dopo annosa questione – alla sola AGCM. Si pensi, a tal fine, a quanto di competenza di Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (di seguito “AGCom”) o dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, a titolo esemplificativo.
In tali ambiti, dunque, la linea di demarcazione tra follow-on e stand-alone può assottigliarsi, posto che l’AGCom, ad esempio, potrebbe avere perimetrato una fattispecie, che sebbene non abbia (rectius: possa avere) i crismi propri dell’illecito consumeristico, sotto il profilo oggettivo ben potrebbe non essere molto distante dal giudizio di disvalore che sottende un accertamento da parte dell’AGCM.
Su tali premesse, riconoscere al consumatore la possibilità di far affidamento sul valore di prova, se non privilegiata almeno rafforzata, dell’accertamento di una Autorità indipendente, diversa dall’AGCM, ma sempre preposta alla tutela dei consumatori in un settore regolato, ben potrebbe aiutare a rinvigorire quel private enforcement in ambito consumeristico, che stenta ad oggi ad attecchire.
Se, infatti, nel diritto antitrust lo sviluppo del private enforcement ha rappresentato un obiettivo primario di politica della concorrenza, come tale particolarmente attenzionato dal legislatore comunitario e nazionale, in ambito consumeristico lo stesso rappresenta ancora uno strumento sostanzialmente “acerbo” e non solo in considerazione del valore mediamente esiguo degli interessi privatistici direttamente lesi da un illecito consumeristico.
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Note
[1] Massima annotata in Giustizia Civile, Massimario 2019.
[2] Sia permesso rinviare a C. E. Cazzato, Il danno da pratiche commerciali scorrette, in Diritto dei consumatori, a cura di G. Alpa – A. Catricalà, Bologna, 2016 (seconda edizione in via di pubblicazione).
[3] Provvedimento Banca d’Italia del 22 magio 2005, n. 55, recante “ABI – Condizioni generali di contratto per la Fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie”.
[4] Cass. Sez. U., 4 febbraio 2005, n. 2207.
[5] Cass., Sez. I, 13 febbraio 2009, n. 3640. Cfr., tra le altre, Cass., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13456; Cass., sez. III, 9 maggio 2012, n. 7039; Cass., Sez. III, 31 agosto 2011, n. 17891.
[6] Sul distinguo tra follow-on e stand-alone action, cfr., da ultimo, S. Marino, Il rafforzamento dell’azione delle Autorità nazionali garanti per la concorrenza: un nuovo impulso dall’Unione europea, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.3, 1° agosto 2019, pag. 536; F. Cintioli, Giusto processo, sindacato sulle decisioni antitrust e accertamento dei fatti (dopo l’effetto vincolante dell’art. 7, d. Lg. 19 gennaio 2017, n. 3), in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.4, 1 dicembre 2018, pag. 1207; F. Valerini, Il private enforcement antitrust dopo il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, a cura di B. Sassani, Pisa, 2017, p. 121 e ss.; C. Fratea, Il private enforcement del diritto della concorrenza dell’Unione europea, Napoli, 2015, p. 13 e ss.; P. Iannuccelli, La responsabilità delle imprese nel diritto della concorrenza dell’Unione europea e la Direttiva 2014/104, Milano, 2015, p. 107 e ss.; B. Giliberti, Accertamento amministrativo e risarcimento del danno nell’art. 9, co. I della Direttiva antitrust 104/2014, in AIDA, fasc.1, 2015, p. 154; v. M. Libertini, Diritto della concorrenza nell’Unione europea, Milano, 2014, p. 489 e s.
[7] L. Castelli, Disciplina antitrust e illecito civile, Milano, Giuffrè Editore, 2012, p. 114. L’autrice vede questa ipotesi pratica sussumibile nella teoria della “verità interinale” proposta da J. Hunger, System des osterreischiscend, allgemein Privatrechts, Wien, Manz, 1986, p. 598. Cfr. anche P. Biavati, Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, in Rivista trimestrale di diritto processuale civile, Volume 1, Fascicolo 61, 2007, p. 104.
[8] Cass. Pen., Sez. Un., 31 Luglio 2006, n.17289, in Diritto e Giustizia, 2006, p. 41.
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