Bene culturale: la tutela attraverso la continuità d’uso

Paola Marino 04/05/23
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La Plenaria n. 5 del 2023 interviene sul concetto di bene culturale, colto nella sua dimensione immateriale.
Rispetto allo stesso, quale espressione di identità collettiva (perché, ad esempio, collegato a eventi di rilevanza storica e culturale o a personaggi storici e illustri), si riconosce l’impossibilità di scindere la dimensione materiale da quelle immateriale, stante la loro immedesimazione.
Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata, ma la motivazione del provvedimento dovrà essere adeguata e sorretta dalla rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’.
Nel disporre la continuità dell’uso, che valorizza l’identità collettiva espressa dal bene culturale, l’Amministrazione valorizza la funzione sociale della proprietà, consentendone, coll’imporre il vincolo e la conservazione dell’uso culturale, limitazioni funzionali alla salvaguardia del superiore interesse pubblico, secondo il dettato dell’art. 42 della Costituzione.

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Consiglio di Stato -adunanza plenaria- sentenza n.5 del 13-02-2013

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Indice

1. La vicenda


Un ristorante “di tradizione”, sito in Roma, è allocato in un edificio di interesse storico-artistico, già di proprietà dell’INPS.
In seguito, tale edificio transita nel Fondo Immobili Pubblici e, con specifico provvedimento, viene dichiarato alienabile, quindi venduto a una società, che, sulla scorta di una sentenza del giudice civile, intima all’impresa, che gestisce lo “storico” ristorante, il rilascio dell’unità immobiliare detenuta.
Sennonché, il Ministero della cultura avvia il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, ai sensi dell’art. 14 D.Lgs. n. 42/04, con riferimento al locale ristorante, anche perché, quanto contenuto all’interno dello stesso, compresi gli arredi, è stato ritenuto rilevante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), D. lgs. n. 42/2004 (Codice beni culturali), anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis del Codice, in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.
Pur avendo la società proprietaria dell’intero immobile proceduto in via esecutiva per il rilascio del locale-ristorante, il Ministero, chiesta una sospensiva dell’azione coattiva, ha dichiarato di particolare interesse culturale l’archivio e i libri firma presenti nel locale destinato all’attività di ristorazione e, successivamente, ha dichiarato l’intero ristorante di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), e, in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis (Espressioni di identità culturale collettiva) del d.lgs. 42/2004, l’ha sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo.
Il Ministeroha evidenziato come il patrimonio immateriale del ristorantesia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”: tale patrimonio culturale immateriale è stato trasmesso di generazione in generazione e “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia”, che l’Amministrazione ha ritenuto debba essere tutelato, al fine di garantire la conservazione “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale.
La società proprietaria dell’immobile ha impugnato innanzi al Tar Lazio il decreto ministeriale, che, imposta di fatto una destinazione d’uso esclusivo, ha consentito la continuazione dell’attività imprenditoriale da parte dell’attuale gestore, sotto diversi profili e, in particolare, per eccesso di potere.
L’Amministrazione avrebbe, infatti, imposto, in assenza di una disposizione attributiva del potere, la continuazione dell’attività di ristorazione “per di più con un contratto di locazione scaduto e, dunque, sine titulo”, in violazione sia delle disposizioni regolanti la tutela del bene culturale (che non consentirebbero di imporre un divieto di modificazione della destinazione d’uso, salve ipotesi eccezionali ed espressamente contemplate dalla legge, non sussistenti nella specie), sia dei principi costituzionali in materia di libertà dell’iniziativa economica privata e a tutela della proprietà privata ex artt. 41, primo comma, e 42, secondo comma, Cost., con conseguente emersione di una forma di ‘espropriazione’ in assenza delle garanzie previste dalla legge e senza indennizzo.
Il decreto di vincolo sarebbe viziato per eccesso di potere, in quanto non sarebbe dato cogliere il carattere particolarmente importante del bene, nonché per violazione dell’art. 7 bis d.lgs. 42/2004 e dell’art. 2 della Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 17 ottobre 2003.
Con la sentenza di primo grado, il Tar ha ritenuto che il provvedimento ministeriale avrebbe imposto un vero e proprio vincolo di destinazione dei locali, in cui si svolgono attività tradizionali “espressione di identità culturale collettiva”.
L’esigenza di rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza richiederebbe di limitare la portata del vincolo di destinazione d’uso ai beni per i quali tale possibilità è espressamente prevista dal legislatore.
L’impresa, che gestisce il ristorare, ha impugnato la sentenza di primo grado (e così il Ministero), evidenziando che l’art. 20 del D. Lgs. n. 42/04 consentirebbe di imporre un vincolo di destinazione d’uso al bene culturale.
Inoltre, l’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 sarebbe funzionale all’introduzione di una ‘tutela dell’immateriale’ e, quindi, anche della sola attività in atto in un dato luogo e momento, superando, in tale modo, il regime vincolistico tradizionale delineato dal Codice; in ogni caso, nella specie vi sarebbe anche un riferimento al ‘bene materiale’, dato dall’immobile vincolato, ospitante il ristorante, nonché dalle opere e dagli elementi d’arredo conservati al suo interno.

2. L’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione del Consiglio di Stato


Esaminate le prospettate doglianze, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno sottoporre all’Adunanza Plenaria una serie di quesiti, così riassumibili:
1)    se, in presenza di beni culturali “per riferimento con la storia…della cultura”, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18 e 20 d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali) possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, funzionale alla conservazione dell’integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici;
2)    se ciò possa avvenire soltanto qualora la res  sia connotata da specifica destinazione storico-culturale, ovvero ogniqualvolta le circostanze del caso concreto, secondo la valutazione (tecnico) discrezionale del Ministero, adeguatamente motivata nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale, giustifichino l’imposizione di un siffatto vincolo di tutela al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;
3)    se, in presenza di beni culturali ex art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, che siano espressione di identità culturale collettiva, il predetto potere ministeriale di tutela possa estrinsecarsi in un vincolo di destinazione, che ne garantisca la conservazione, ma, al contempo, perpetui la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa costituisce testimonianza.


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3. La decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5/2023


La Plenaria ha sottolineato come il nodo ermeneutico da sciogliere riguardi la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso.
Sul punto sono invalsi tre diversi orientamenti:
– quello che nega l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso;
– quello che l’ammette in circostanze eccezionali e circoscritte, correlate alla particolare trasformazione del bene con una sua specifica destinazione e al suo stretto collegamento con un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza;
– quello che ammette l’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso, previa adeguata esposizione delle ragioni che ne sono alla base.
L’Adunanza Plenaria ha aderito al terzo orientamento, in quanto basato sulla legislazione vigente, ma anche maggiormente conforme agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, oltre che coerente con il quadro costituzionale di riferimento.
Il potere di imporre limiti all’uso del bene culturale discende dal combinato disposto degli artt. 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, del Codice approvato con il decreto legislativo n. 42/04, il quale:
– da un lato, attribuisce al Ministero il potere di vigilanza sui beni culturali, anche al fine di garantire il divieto di usi non compatibili con il carattere storico o artistico del bene culturale;
– dall’altro, impone di comunicare al Soprintendente il mutamento di destinazione d’uso del bene culturale, perché l’Amministrazione verifichi la compatibilità del nuovo uso con le caratteristiche storiche o artistiche del bene o con la sua materiale conservazione.
Negare la possibilità di imporre vincoli culturali di destinazione d’uso – come  limitare tale potere a fattispecie eccezionali, predeterminate in via astratta o correlate all’avvenuta trasformazione della res in relazione ad eventi culturali di particolare importanza – vanificherebbe le esigenze di tutela alla base del D. Lgs. n. 42/04, in tutte le ipotesi in cui un mutamento di destinazione d’uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del bene e del relativo valore culturale che esso esprime.
Tale interpretazione non produce poi neanche un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica.
Premesso che i vincoli culturali hanno natura non espropriativa, bensì conformativa, e rilevato che l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse – ivi compresi quelli economici, occorre ricordare come la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 118 del 1990, ha affermato principi che depongono nel senso della legittimità dei provvedimenti impositivi dei ‘vincoli di destinazione d’uso’.
La tutela del bene culturale, quindi, non può che estendersi anche al suo uso, ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale.
In tale contesto, si inquadra quell’orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato che ha ammesso l’esercizio del potere di pianificazione territoriale anche in funzione dell’imposizione di vincoli di destinazione d’uso, motivati dal riferimento al carattere storico-identitario, che talune attività possano rivestire in determinati luoghi per la collettività locale: in tali ipotesi, è ben possibile che un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia considerato dagli abitanti (e dagli organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato e a rammentarlo (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5029, per un vincolo di destinazione a “caffè-bar”).
Ad avviso del Collegio, argomenti contrari a tale tesi non possono, invece, ricavarsi dall’art. 51 D. Lgs. n. 42/04 in materia di studi d’artista.
Se per gli studi d’artista l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso discende direttamente dal dato positivo, per effetto della mera qualificazione della res in tali termini, e, quindi, dell’accertamento di tale qualitas del bene, viceversa per le altre categorie di beni culturali occorre una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale.
Deve così ritenersi non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico o artistico la previsione del potere amministrativo di porre limiti alla loro destinazione, quando la misura imposta miri a salvaguardare l’integrità e la conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741), senza che ciò si risolva nell’obbligo di gestire una determinata attività.
Si tratta di uno strumento di tutela del bene culturale, che deve ritenersi generalmente ammesso dalla legislazione di settore e che è riconducibile ai poteri di cui è titolare il Ministero della Cultura, occorrendo però – a differenza delle ipotesi tipicamente normate, in cui la valutazione circa la necessità del vincolo di destinazione d’uso è operata a monte, in via generale e astratta dal legislatore – l’intermediazione del potere amministrativo e una valutazione motivata in relazione alle peculiarità concrete, all’esito di un’adeguata istruttoria.
Tuttavia, va ribadito che il vincolo di destinazione non deve, comunque, imporre alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una ‘riserva di attività’ in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione”.
In definitiva, quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati.
Tale tipologia di vincolo, a carattere e contenuto “misto” (di tipo “intrinseco” e di tipo “relazionale esterno” o “testimoniale”), ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, è funzionale sia alla conservazione della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, se inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale.
Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata: e ciò anche in assenza di un processo di trasformazione della res e a prescindere dal suo riferimento a una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza.
La motivazione del provvedimento dovrà essere adeguata e sorretta dalla rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’.
Tali valutazioni potranno poi essere oggetto di sindacato giurisdizionale nei consueti limiti previsti per gli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica riservata all’Amministrazione in merito alla qualitas di bene culturale, ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere: l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione, preposta alla tutela, potrà essere sindacato sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche; non sarà, invece, ammissibile alcun sindacato di tipo sostitutivo che vada a sovrapporre a una valutazione connotata da discrezionalità tecnica, implicante l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura e caratterizzata da ampi margini di opinabilità, una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
La soluzione, condivisa con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04, va seguita anche con riguardo alle ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali, come rilevato dal giudice remittente, si ravvisa l’esigenza di salvaguardare non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità della condivisione, della riproduzione e della trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.
Ne consegue che possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva (perché in quel bene o per suo tramite sono accaduti eventi di rilevanza storica e culturale ovvero perché personaggi storici e illustri vi hanno trovato, in un dato momento, la loro collocazione), per i quali si riconosca l’impossibilità di scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione.
La nozione di bene culturale, in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio: essa, pur presupponendo res quae tangi possunt, può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale.
Nel ponderato contemperamento degli interessi coinvolti, la tutela dei beni culturali può comportare delle limitazioni alla libertà di impresa e alla proprietà privata (entrambe garantite dalla Costituzione nei limiti della loro funzione sociale), se del caso ponendosi in contrasto con tendenze del “mercato” al fine di “garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” (art. 3, comma 1, del Codice).

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Paola Marino

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