Beni pubblici e beni comuni

Per poter discorrere di beni pubblici e beni comuni si deve procedere, preliminarmente, all’identificazione delle categorie di beni pubblici e di beni comuni, al fine di elaborarne una nozione mediante un’analisi circa la loro natura e i caratteri essenziali di cui questi si compongono; si rende necessario, poi, individuare lo specifico regime giuridico cui tali beni sono assoggettati, sia per quanto attiene alla loro disciplina sia per quanto attiene alla loro tutela, nonché esaminare i diversi profili problematici di natura sia sostanziale sia processuale che sono emersi in seguito alle evoluzioni legislative e giurisprudenziali.

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Proprietà pubblica: cenni storici e considerazioni di ordine generale

È doveroso prendere le mosse da alcuni cenni storici e qualche considerazione generale di diritto pubblico circa la nascita del concetto di “proprietà pubblica”.

Fino al 1789, cioè all’avvento dell’era contemporanea che coincide con la Rivoluzione Francese, vi era una piena identificazione dello Stato con il sovrano: emblematica la frase di Luigi XIV “lo Stato sono io”. Esisteva, quindi, in relazione ai beni dello Stato, esclusivamente quello che i francesi definivano “domaine de la Couronne”: le res erano oggetto di proprietà privata la cui titolarità si rinveniva in capo alla persona del monarca, il quale aveva la facoltà di disporne pienamente e liberamente nella realizzazione dei propri scopi personali[1].
Con il superamento dell’assolutismo mutano i presupposti ideologici che caratterizzano la nozione di Stato e muta, quindi, anche il modo d’intendere lo stesso: non si ha più l’identificazione dello Stato con il sovrano, bensì questo costituisce un soggetto diverso dalla persona fisica che lo regge.

Da questo cambio di paradigma discende necessariamente la nascita del concetto di “proprietà dello Stato”, poiché non è più possibile l’identificazione dei beni oggetti di proprietà pubblica con quelli di proprietà privata di chi fisicamente governa: la proprietà dello Stato persegue fini pubblici, non scopi personali.

Una dottrina francese ottocentesca elabora la teoria della proprietà-sovranità, poi recepita dal Code Napoleon e confluita nel Codice civile italiano del 1865: la proprietà pubblica era qualcosa di “altro” rispetto alla proprietà privata e costituiva una manifestazione della sovranità stessa dello Stato. Sarebbe più corretto parlare di “dominio pubblico”, in quanto il potere dello Stato di disporre di tali beni pubblici coincideva con il potere assoluto e originario dello Stato: si distingueva, infatti, tra un “domain public”, che ricomprendeva veri e propri beni pubblici caratterizzati da una destinazione alla pubblica utilità, e un “domain privé” residuale[2].

Grazie all’apporto del pensiero di Harrou, in Francia, e Santi Romano[3], in Italia, si supera quest’impostazione e si giunge all’idea che proprietà pubblica e privata costituiscano determinazioni di uno stesso genus: i due tipi di proprietà hanno stessa natura, ma regime giuridico e caratteri diversi. La proprietà pubblica viene, quindi, intesa come una proprietà speciale[4] diversa dalla nozione classica di proprietà privata, ma comunque a questa parallela e affine nella sua essenza costitutiva, in quanto diritto che insiste su una res nella sua totalità.

Questa nuova elaborazione s’impone nel pensiero novecentesco e ispira sia il Codice civile del ’42 sia la Carta costituzionale, nella quale all’art. 42, c.1 si può leggere che la “proprietà è pubblica o privata”. È lampante l’osservazione che, secondo questa concezione, la proprietà pubblica diviene espressione di una forma peculiare di proprietà imputabile alla persona giuridica dello Stato, inteso in senso lato nelle sue diverse articolazioni, e, pertanto, considerato quale diritto riconosciuto al soggetto pubblico e non più come potere espressione di sovranità: come si è precedentemente affermato, la natura della proprietà pubblica è la stessa di quella privata, cambiano il regime e i caratteri cui questa è assoggettata.

Natura del bene pubblico

In dottrina e in giurisprudenza si sono alternate due tesi circa la natura pubblica di un bene.

Una tesi maggioritaria secondo cui un bene è pubblico quando è soggetto ad un regime speciale di disciplina[5] della proprietà caratterizzato da quattro elementi peculiari: l’imputabilità della res ad un soggetto pubblico (la titolarità pubblica)[6], l’impossibilità di sottrarre il bene alla sua destinazione pubblica, l’inalienabilità e l’ampio potere conformativo d’uso riconosciuto al soggetto pubblico attraverso lo ius excludendi o includendi alios mediante l’utilizzo della concessione.

Si parla di bene pubblico, in sostanza, quando manca il carattere fondante del diritto dominicale: il libero potere di disposizione da parte del titolare privato.

Altra tesi, invece, sostiene la natura oggettiva del bene pubblico[7], legandola esclusivamente alla destinazione pubblica (allo scopo pubblico) del bene anziché alla presenza delle peculiarità sopraesposte, giacché l’evoluzione giuridica del nostro ordinamento avrebbe scardinato i già menzionati dogmi. Con i fenomeni delle privatizzazioni, sia a livello statale che a livello locale, i quali hanno fatto sì che i beni pubblici siano rimasti nella titolarità dei soggetti residuanti dalle privatizzazioni (cioè delle società che hanno sostituito gli enti pubblici), sarebbe venuto a cadere il carattere della necessaria titolarità pubblica del bene: il titolare del bene è un soggetto privato, la sua destinazione tuttavia è e resta pubblica. Si è parlato in proposito dell’introduzione del nostro ordinamento di un principio di neutralità soggettiva[8]: la qualità del soggetto è neutra e non influisce sulla natura del bene.
Si argomenta, poi, evidenziando come il fenomeno della cartolarizzazione abbia fatto cadere il dogma dell’inalienabilità e dell’incommerciabilità del bene pubblico: il bene resta pubblico nonostante sia stato venduto ad un privato, in quanto la sua destinazione è funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico attraverso la vendita. Cambia il ruolo, in relazione al bene, del soggetto pubblico, il quale sveste l’abito di proprietario e indossa quello di controllore: deve, infatti, vigilare affinché il nuovo proprietario continui ad utilizzare il bene coerentemente con lo scopo cui questi è destinato.

Sembrerebbe quest’ultima tesi la più coerente con lo spirito delle riforme che hanno interessato il nostro ordinamento nel settore della pubblica amministrazione nella sua globalità, giacché più in linea con il mutamento di paradigma ideologico adottato dal legislatore, su cui si adagia il concetto di proprietà pubblica.

Regime giuridico dei beni pubblici

Il regime giuridico dei beni pubblici è sostanzialmente disciplinato dal Codice civile, il quale opera una bipartizione tra beni demaniali (artt. 822 – 825 CC) e beni patrimoniali indisponibili (artt. 826 – 830 CC). Il legislatore ha inteso distinguere le due categorie di beni, in virtù dell’interesse collettivo o sociale che questi sono chiamai a soddisfare[9].

3.1 beni demaniali

I beni demaniali hanno come caratteristica quella di essere beni immobili o universalità di beni appartenenti ad enti pubblici territoriali. Il codice distingue tra demanio necessario e demanio accidentale.

Nel demanio necessario la demanialità e la destinazione pubblica della res è insita nella natura della medesima[10]: questa, infatti, sorge con la venuta ad esistenza del bene. L’art. 822, c.1, CC prevede tre specie di demanio necessario (demanio idrico, demanio marittimo e demanio militare) ed elenca i beni soggetti a tale regime.

Il demanio accidentale, invece, si compone di beni che possono appartenere a chiunque ma che sono stati acquistati da un ente territoriale e hanno ricevuto una tipica destinazione demaniale (art. 822, c. 2, CC).

L’art. 823 CC fissa i caratteri dei beni demaniale, affermando che questi sono inalienabili, inusucapibili, insuscettibili di espropriazione forzata e che non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.

3.2 beni patrimoniali indisponibili

I beni patrimoniali indisponibili, a differenza di quelli demaniali, possono appartenere a qualsiasi ente pubblico e ricomprendere sia beni mobili che immobili.
L’art. 826 C.C. ai primi due commi prevede un elenco di tali res, tuttavia questo non è tassativo: infatti, il c. 3 prevede che rientrano nel patrimonio indisponibile di un ente tutti i beni “destinati ad un pubblico servizio”, legando, di fatto, la qualificazione di bene pubblico alla destinazione pubblica del bene[11].

Le Sezioni Unite hanno, però, precisato con la sentenza 6019/2016 che deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (cioè un atto di destinazione) e dell’effettiva e attuale destinazione del bene ad un pubblico servizio.

L’art. 828 C.C., inoltre, sancisce una deroga all’originario regime di inalienabilità del bene patrimoniale indisponibile, prevedendosi la possibilità del trasferimento in capo ad un soggetto privato, purché l’alienazione non comporti la sottrazione del bene alla sua destinazione pubblica: da questa norma si ricava un ulteriore argomento a favore della tesi a sostegno della natura oggettiva del bene pubblico.

 

3.3 beni patrimoniali disponibili

Va ricordata la categoria dei beni patrimoniali disponibili che sono pubblici solo in senso soggettivo (imputabili ad un ente pubblico), ma privi di una destinazione pubblica e assoggettati integralmente al diritto comune.

3.4 regime d’uso dei beni pubblici

Circa il regime d’uso dei beni pubblici è stato già anticipato che al soggetto pubblico è riconosciuto un potere conformativo d’uso[12] che si sostanzia in un discrezionale ius excludendi/includendi alios: l’ente pubblico può discrezionalmente decidere se destinare un bene ad uso esclusivo della PA; a uso generale di qualsiasi individuo; ad uso particolare di determinati soggetti.

Va precisato che l’attribuzione a privati di beni pubblici è sempre riconducibile alla figura della concessione-contratto, dal momento che il godimento di beni pubblici può essere, tenuta ferma la loro destinazione pubblica, legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall’ente titolare solo mediante concessione amministrativa.

 

3.5 regime di tutela dei beni pubblici

Per quanto concerne, poi, il regime di tutela dei beni pubblici, la norma di riferimento è l’art. 823 CC, il quale attribuisce all’autorità amministrativa la legittimazione attiva e introduce un sistema di doppio binario: la PA potrà agire sia in autotutela sia esperendo i rimedi giurisdizionali ordinari posti a tutela della proprietà e del possesso.

L’autotutela si estrinseca in attività di tipo decisorio, quando si concreta in atti amministrativi (ad es. annullamento o revoca di concessioni), o di tipo esecutivo, quando realizza comportamenti o dispone mezzi atti ad eseguire provvedimenti amministrativi relativi a beni pubblici (ad es. sgomberi d’ufficio).

In relazione a questa norma si configurano diversi ordini di problemi.

Il primo attiene alla sua portata: la lettera della norma fa riferimento non a beni pubblici generalmente considerati, bensì specificatamente ai beni demaniali.

La questione è dibattuta in dottrina e in giurisprudenza e vede l’avvicendarsi di due posizioni: una sostiene che l’art. 823 CC abbia portata generale[13], prediligendosi un’interpretazione estensiva che estende il campo di applicabilità anche ai beni patrimoniali indisponibili, data la natura derogatoria del loro regime rispetto a quello comune (così anche il Consiglio di Stato con la sent. 5934/2019); l’altra ritiene che l’autotutela esecutiva abbia carattere marcatamente eccezionale e confina la portata di tale previsione normativa alle sole ipotesi dei beni demaniali.
Stante le considerazioni precedentemente esposte circa i beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili, sembra coerente adottare la soluzione del Consiglio di Stato della portata generale e immediatamente precettiva della norma, secondo cui quest’ultima attribuisce alla PA un generale potere di autotutela possessoria. 4. Giurisdizione in materia di concessione di beni pubblici

Sorge, in relazione alla giurisdizione in materia di concessione di beni pubblici, una problematica.

L’art. 133, c. 1, lett. b) c.p.a. devolve espressamente la cognizione delle “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo fatta eccezione per “le controversie concernenti indennità, canoni e altri corrispettivi”: quindi, anche le problematiche patrimoniali che ineriscono al rapporto, come ad es. il risarcimento del danno da inadempimento, competono al g.a.

Come sottolineato dal Consiglio di Stato[14], i beni pubblici sono pubblici nel senso proprio del termine, cioè prevale il regime pubblicistico del bene: per questo motivo le controversie in materia di concessione di beni pubblici sono devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 133 c.p.a., con l’unica eccezione di “indennità, canoni e altri corrispettivi”. Il secondo inciso della norma, tuttavia, sottrae alla giurisdizione esclusiva del g.a. tali questioni sinallagmatiche senza, però, specificare a quale giudice queste siano attribuite: si dovrà adottare il criterio ordinario di reparto di giurisdizione, bisognerà cioè verificare se l’entità del canone/indennità/corrispettivo sia fissata dalla legge in modo vincolante e ci si trovi in presenza, quindi, di un’attività vincolata della PA, vale a dire di diritti soggettivi con conseguente giurisdizione del g.o; o se la legge attribuisca alla PA un potere discrezionale (amministrativo o tecnico) e, quindi, ci si trovi in presenza di interessi nel legittimi con conseguente giurisdizione di legittimità del g.a.

Altra tesi sostiene che la ragion d’essere della giurisdizione esclusiva del g.a. si rinvenga nella necessità di evitare la duplicazione degli organi giurisdizionali, poiché nella figura della concessione-contratto è connaturata la compresenza di una componente provvedimentale e una contrattuale: pertanto la giurisdizione esclusiva del g.a. assorbirebbe anche le controversie relative alla fase esecutiva del contratto e alle questioni sinallagmatiche.
Tale soluzione, tuttavia, sembrerebbe contrastare con il tenore letterale della norma.

5. Beni comuni

Per quanto concerne i beni comuni, questi costituiscono una specie di bene pubblico di origine extracodicistica elaborato dalla dottrina e solo recentemente legittimato dalla Cassazione con una serie di sentenze del 2011, con le quali si è affermata la natura demaniale delle valli da pesca della Laguna veneta, proponendo una concezione di bene pubblico strutturalmente diverso da quello tradizionalmente inteso.

Si parte dalla considerazione che esistono determinati beni “a marcata valenza esistenziale”[15] che forniscono agli individui (intesi come membri di una collettività) un’utilità di carattere non patrimoniale: si fa riferimento a res eterogenee, quali beni naturali (come le valle da pesca in questione), beni soci-culturali (ad es. bellezze storiche, artistiche o archeologiche) o beni immateriali (ad es. lo spazio del web).

La caratteristica comune di questi beni è quella di essere a titolarità diffusa e collettiva: appartengono a tutta la collettività e devono essere fruibili da ciascun individuo. Ciò perché questi common goods sono da ritenersi indispensabili per l’individuo, in quanto strumentali alla realizzazione di quegli interessi non patrimoniali che sono propri dell’essere umano in quanto tale[16]. Proprio partendo da quest’assunto, è possibile rinvenirne un fondamento costituzionale nell’art. 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e nell’art. 42 Cost, il quale sancisce una funzione sociale della proprietà.

I beni comuni sono caratterizzati dalla scarsità[17] (si pensi al problema della scarsità d’acqua nel mondo) e pongono il problema della loro regolamentazione, volta da un lato a garantirne la fruizione e l’accesso da parte della collettività, dall’altro ad impedirne il sovra-consumo e il deterioramento: pertanto si rendere necessario l’esercizio da parte della PA di un potere di conformazione e regolazione per tutelare l’integrità del bene e gli interessi dei componenti di collettività.

Emerge, quindi, il carattere pubblico attinente alla proprietà di questi beni, da intendersi in senso rigorosamente oggettivo e funzionale: si dovrà operare una scissione tra proprietà formale del bene e proprietà sostanziale[18]. La proprietà formale è da riconoscersi allo Stato, per mere ragioni organizzatorie tali da consentire l’accesso e la fruizione a tutti del godimento del bene comune (la demanialità è, infatti, intesa come appartenenza di servizio, funzionale alla fruizione del bene da parte della collettività); la proprietà sostanziale, invece, è riconosciuta alla collettività.

Non appare, quindi, scorretto equiparare – ferma restante la loro differente costituzione ontologica – i beni comuni ad i beni pubblici e, pertanto, per quanto attiene alla tutela dei suddetti beni, applicare in via analogica la disciplina dell’art. 823 CC.
Si potrebbe, infatti, ben sostenere che la nascita di questa nuova categoria di res abbia, di fatto, scardinato anche l’ultimo baluardo del bene pubblico, che era sopravvissuto alle innovazioni legislative e giurisprudenziali degli ultimi anni: lo ius excludendi/includendi alios riconosciuto al soggetto pubblico in virtù del suo potere conformativo d’uso[19].

Si propone e s’impone, con la nascita dei “common goods”, una nuova visione della proprietà pubblica, non più ancorata ai baluardi dogmatici del passato, ma flessibile e aperta ad una nuova sensibilità giuridica, che valorizzi la tutela degli interessi non patrimoniali attraverso una lettura costituzionalmente orientata dall’art. 2 e dall’art. 42 della Costituzione delle norme che informano la materia.

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Note

[1] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto amministrativo”, 2020

[2] Vd. F. Caringella, “Manuale di diritto amministrativo”, XIII ED., 2020

[3] Vd. Santi Romano, “Principii di diritto amministrativo italiano”, 1912

[4] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto Amministrativo”, 2020.

[5] Vd. F. Caringella, “Manuale di diritto amministrativo”, XIII ED., 2020.

[6] Vd. A.M. Sandulli, “Beni pubblici”, in “Enc. dir., V”,  1959.

[7] Vd. M. Renna, “La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica”, 2004.

[8] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto Amministrativo”, 2020.

[9] Vd. S. Pugliatti, “Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di proprietà” in “La proprietà nel

nuovo diritto”, 1964.

[10] Vd. F.G. Scoca, “Diritto Amministrativo”, 2011

[11] Vd. G.Corso, “Manuale di Diritto Amminsitrativo“, 2017

[12] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto Amministrativo”, 2020.

[13] Vd. Cons. St., V, 1.10. 1999, n. 1224

[14] Vd. Cons. St., IV, 17.12.2020, n. 8100

[15] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto Amministrativo”, 2020.

[16] Vd. U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, “Invertire la rotta”, 2007.

[17] Vd. S. Cassese, “S. Cassese, I beni pubblici: circolazione e tutela”, 1969.

[18] Vd. Cerulli Irelli e L. De Lucia, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni de jure condendo su un dibattito in corso”, in www.giustamm.it, 2013.

[19] Vd. F. Caringella, “Manuale ragionato di diritto Amministrativo”, 2020.

Vincenzo Francesco Mercurio

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