1. Gli elementi costitutivi – 2. I rapporti tra autorizzazione ed atto autorizzato – 3.1 Le liberalizzazioni ex art. 19 L. 241 del 1990 – 3.2 La seconda fase – 3.3 La terza fase.
1. Elementi costitutivi
L’autorizzazione si definisce come l’atto con cui la pubblica amministrazione, nell’esercizio di un’attività discrezionale in funzione preventiva, su istanza dell’interessato, rimuove un limite legale posto all’esercizio di un’attività inerente un diritto sogettivo o ad una potestà pubblica preesistenti in capo al destinatario.
Sussiste, poi, un margine di apprezzamento discrezionale in funzione preventiva. In altre parole, l’amministrazione valuta preventivamente se lo svolgimento dell’attività giovi o meno all’interesse pubblico. Non considera dunque la fondatezza dell’interesse del ricorrente, ma quello collettivo[3].
Infine, c’è la Rimozione del limite legale: esso costituisce la funzione propria dell’autorizzazione, consistente appunto nell’eliminazione del limite frapposto tra il privato e l’esercizio dell’attività.
2. I rapporti tra autorizzazione ed atto autorizzato
In dottrina s’è discusso lungamente sul rapporto tra autorizzazione ed atto autorizzato. In merito sono state sviluppate tre teorie.
La prima è la teoria dell’atto complesso: secondo questa teoria l’atto di autorizzazione e l’atto autorizzato sarebbero due elementi parte di una fattispecie a formazione progressiva, il cui risultato sarebbe un atto complesso[4].
La seconda è la teoria dell’atto di controllo: secondo questa teoria l’autorità amministrativa, nel rilasciare l’autorizzazione svolgerebbe una funzione di controllo sull’attività autorizzata[5].
C’è, infine, la teoria del presupposto di validità. La dottrina prevalente ritiene che l’atto di autorizzazione è presupposto di validità rispetto all’atto autorizzato. Più precisamente: è presupposto di liceità nel caso di autorizzazione all’esercizio di un’attività, mentre è presupposto di legittimazione nel caso di esercizio di un’atto.
3.1 Le liberalizzazioni ex art. 19 legge 241/1990
Con il processo di liberalizzazione si introducono modelli nuovi rispetto al tradizionale sistema di autorizzazione basato sull’emanazione di provvedimenti espressi, pur rientranti nello stesso schema logico.
La liberalizzazione può essere intesa in due sensi: si parla di liberalizzazione in senso stretto (deregulation) per indicare l’ipotesi che comporta la sostituzione dell’autorizzazione espressa con il procedimento della dichiarazione in luogo di autorizzazione (già denuncia di inizio attività); si parla, invece, di liberalizzazione in senso lato (atecnica) per indicare quella che si concretizza nella sostituzione di un provvedimento autorizzativo espresso con uno tacito, secondo lo schema del silenzio-assenso.
La figura disciplinata nell’art. 19 legge 241/1990 ha subito un’evoluzione disciplinare che può essere distinta in tre fasi. Nella prima fase veniva originariamente denominata come denuncia in luogo di autorizzazione. Trattandosi di un istituto innovativo nel panorama legislativo nazionale che non aveva significativi precedenti, esso venne in un primo momento applicato alle sole autorizzazioni vincolate. Quelle che cioè dipendevano dall’accertamento, privo di discrezionalità, in ordine alla presenza dei presupposti e dei requisiti di legge (di qui la differenza dal silenzio-assenso, destinato invece ad operare con riferimento a materie connotate da margini più ampi di discrezionalità).
3.2 La seconda fase
La seconda fase inizia con la legge 537/1993, recante interventi correttivi di finanza pubblica, l’istituto veniva ridisegnato completamente, estendondone notevolmente i margini. Mentre originariamente l’individuazione, in forma tassativa, dei settori liberalizzati era rimessa all’intervento di una successiva statuizione regolamentare, con questa legge invece si ribalta la disciplina: l’iniziativa economica privata risulta suscettibile di incondizionata ed immediata esplicazione, e si affida allo strumento regolamentare la definizione delle ipotesi di esclusione.
La procedura si componeva di 3 fasi: la denuncia del privato. Il privato presentava una denuncia all’amministrazione competente dichiarando di voler intraprendere una determinata attività nelle materie in cui ciò non era escluso.
Interveniva poi una procedura di acclaramento: a seguito della denuncia l’amministrazione era tenuta a dar vita ad un procedimento di acclaramento per verificare la sussistenza, in capo al richiedente, dei presupposti e dei requisiti di legge.
Infine, a conclusione dell’accertamento, la procedura poteva avere due esiti: un esitopositivo, ed allora il procedimento si concludeva con una archiviazione, senza cioè che si emanasse alcun provvedimento da comunicare al dichiarante. Oppure, unesito negativo, nel qual caso l’amm. disponeva con decreto motivato il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei risultati prodotti, salva la possibilità per il privato di conformarsi alla normativa vigente e sanare la sua posizione.
3.3 La terza fase
La terza fase inizia con l’art. 3 decreto legge 35/2005 (decreto legge sulla competitività), convertito in legge 80/2005, l’istituto, che non era stato modificato dalla novella apportata dalla legge 15/2005 è stato nuovamente ridisegnato, assumendo il nome di dichiarazione di inizio attività.
Le innovazioni più importanti riguardano: l’ampliamento sfera di operatività art. 19, comma 1, legge 241/1990 (si ampliano sensibilmente le ipotesi in cui una semplice dichiarazione dell’interessato, cittadino o impresa, può sostituire i provvedimenti abilitativi della PA).
Cambiano poi i presupposti di operatività art. 19, comma 1, legge 241/1990. In particolare si prevedono due presupposti: che il rilascio dei provvedimenti dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti o presupposti di legge o atti amministrativi a carattere generale. Inoltre, che non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli stessi[6]
Circa gli ambiti di esclusione, si escludono determinate materie dall’applicazione della disciplina.
Si introduce la doppia dichiarazione: si prevede cioè una prima dichiarazione dell’interessato in cui si producano i documenti che attestano il possesso dei requisiti necessari. Se l’amministrazione non si pronuncia nei successivi 30 giorni, allora il soggetto può iniziare l’attività, dandone ulteriore comunicazione ad essa.
Si disciplina l’autotutela: in merito, si conserva la potestà di autotutela in capo alla PA nel caso in cui vengano accertate carenze, potendo a sua volta il privato sanare la sua posizione.
Infine, è prevista la giurisdizione esclusiva: si attribuisce cioè alla giurisdizione esclusiva del GA tutte le controversie relative all’applicazione delle disposizioni contenute nell’articolo. La ragione è giustificata dalla commistione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi (cioè il diritto soggettivo del privato all’esercizio dell’attività, e l’interesse legittimo a fronte dell’attività di controllo e repressione dell’attività da parte della pa).
[1] Si veda, in particolare, Virga nel suo manuale di diritto amministrativo
[2] Cassese sottolinea pertanto che le autorizzazioni sono atti favorevoli per il privato ma il regime autorizzatorio nel suo complesso non lo è perché implica una restrizione della possibilità di svolgimento di determinate attività.
[3] Cassese ribadisce questo aspetto, sottolineando come il legislatore possa scegliere se privilegiare l’interesse del privato allo svolgimento dell’attività o piuttosto l’interesse pubblico. Nel primo caso sottoporrà l’attività ad un controllo eventuale e successivo (es. controllo dei vigili urbani sul rispetto delle prescrizioni urbanistiche), mentre nel secondo userà il regime autorizzatorio.
L’autore sottolinea poi che attualmente la tendenza è nel senso di favorire maggiormente la tutela dei privati, a causa di tre fattori: 1) diritto europeo (limita l’utilizzo di autorizzazioni discrezionali per tutelare la concorrenzialità) ; 2) politica della semplificazione (in particolare con lo strumento del silenzio-assenso, che risolve il problema dell’inerzia dell’amministrazione a fronte di una domanda di autorizzazione, nel modo più favorevole al richiedente) ; 3) politica della liberalizzazione (induce a sostituire le autorizzazioni con meccanismi di controllo successivo, principale tra i quali è quello della dichiarazione d’inizio attività, disciplinata dall’art. 19 legge 241/1990).
[4] Caringellacritica questa posizione sostenendo che il riconoscimento del carattere unico di atto complesso equivarrebbe a snaturare gli atti e ne negherebbe l’autonomia
[5] Questa teoria è sostenuta da Cassese, il quale sostiene appunto che con le autorizzazioni svolgerebbero una funzione di controllo preventivo fungibile con altre tecniche di controllo. Invece, Caringella critica questa posizione sostenendo che il controllo costituirebbe una funzione ulteriore dell’atto di autorizzazione, non toccando il rapporto tra atto di autorizzazione ed atto autorizzato.
[6] Caringella sostiene che la ratio della disposizione starebbe nel fatto che se occorre rispettare distanze o contingenti numerici massimi, l’attività non potrà essere iniziata con una DIA, perché essa non assicura parità di trattamento e certezza di situazioni (e difatti per le procedure più complesse il governo incentiva il ricorso al silenzio assenso, mentre la DIA resta sostanzialmente legata alla stessa tipologia di provvedimenti originariamente prevista dalla disposizione). La dottrina è dunque concorde nel ritenere che la disposizione si applichi solamente ai procedimenti vincolati
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