Brevi cenni di diritto penale “condominiale”

Tratto dal libro “Come difendersi nel contenzioso condominiale dopo la riforma” scritto dall’Avvocato e Mediatore Ghigo Giuseppe Ciaccia

 

Non poche sono le fattispecie di rilievo penale che si possono riscontrare in ambito condominiale.

Preliminarmente va evidenziato che la mancata configurazione in sede civile dello specifico contratto di amministratore di condominio – e, quindi, i labili confini del rapporto non specificamente normato dal legislatore – ha di fatto impedito che vi siano dei reati “propri” dell’amministratore (ossia reati che per l’astratta configurazione necessitano di una specifica qualità professionale del soggetto agente).

A fronte di ciò sembra esserci, in astratto, una diversa graduazione in sede penale condominiale tra le responsabilità dell’amministratore e quelle dei singoli condomini, forse proprio a causa di un teorico riconoscimento della qualifica “professionale” all’amministratore (cfr. per l’ingiuria dell’amministratore che offende un condomino:

Cass. pen., sez. V, sent. 14 giugno 2012, n. 23598).

Ed infatti se da un lato la magistratura penale sanziona rigorosamente qualsiasi comportamento illecito dell’amministratore (minacce, diffamazione, calunnia, ingiurie, ecc.) dall’altro sembra che il pur lecito diritto del condomino di critica sull’opera dell’amministratore sia dalla giurisprudenza ampliato a dismisura (a meno che non “straripi” nel gratuito oltraggio) (cfr. Cass. civ., sez. III, sent. 25 luglio 2000, n. 9746; Cass. pen., sent. 29 luglio 2008, n. 31596; cfr. Cass. pen., sez. V, sent. n. 32901/2011 per la quale il condomino può «mandare a quel paese» l’amministratore; cfr. Cass. pen., sez. V, sent. 31 gennaio 2011, n. 3372, in cui è precisato che definire «latitante» ed «incompetente» l’amministratore non configura reato, ma solo esercizio del diritto di critica; laddove, invece, in analoga fattispecie di «litigio verbale», ma tra due condomini, è stato condannato per ingiuria il condomino che ha definito «bandito» l’altro condomino durante un’assemblea; e ciò sebbene l’imputato si sia difeso sostenendo che il termine non era inteso a recare insulto, ma come mera manifestazione di critica da parte di chi si sentiva vessato «da una situazione offensiva e pregiudizievole per i suoi interessi di condomino». (Cass., sez. V, sent. 9 febbraio 2010, n. 5339).

In pratica sembra che il condominio sia una sorta di “zona franca” dove poter “sparare” sull’amministratore quasi impunemente.

Il tutto pur sempre evidenziando che non ogni comportamento che configura reato commesso in condominio è materia “penale condominiale” (cfr. ad esempio, il tentativo di violenza sessuale sulle scale condominiali: Cass. pen., sez. III, sent. 15 dicembre 2011, n. 46636), anche se, negli ultimi tempi, si sta facendo strada una sorta di stalking in ambito condominiale (cfr. Cass. pen., sez. V, sent. 25 maggio 2011, n. 20895).

Si evidenzia, inoltre, che, nei condomini in cui vi sono dipendenti (portiere, giardiniere, addetto alle pulizie, ecc.), si deve attribuire all’amministratore la qualifica di “datore di lavoro” e, di conseguenza, all’amministratore si devono applicare le specifiche normative relative alla legislazione antinfortunistica (cfr. Cass. pen., sez. IV, sent. 1° giugno 2011, n. 22239, per il caso di infortunio di un addetto alle pulizie e, a maggior ragione, in relazione all’infortunio del portiere).

L’amministratore di condominio può essere condannato per truffa se falsifica il bilancio condominiale (es. inserendo voci di spesa mai effettuate) anche con l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p..

Si evidenzia altresì che recentemente la giurisprudenza penale ha precisato che non integra il delitto di falsità materiale la condotta volta a presentare un verbale d’assemblea di condominio contraffatto se si tratta di una copia (ossia di una mera riproduzione senza valenza probatoria) (cfr. Cass. pen., sez. V, sent. 13 marzo 2012, n. 9608).

Deve poi essere evidenziato che il dovere di curare la corretta manutenzione dei beni comuni può avere per l’amministratore, in caso di negligenza, conseguenze penali (cfr. Cass. pen., sez. IV, sent. 6 settembre 2012, n. 34147: «L’amministratore del condominio riveste una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l’obbligo ex art. 40 cpv. c.p. di attivarsi al fine dl rimuovere, nel caso di specie, la situazione di pericolo per l’incolumità del terzi, … (cfr. sez. III, n. 4676 del 1975 rv.133249). Né l’obbligo di attivarsi onde eliminare la riferita situazione di pericolo doveva ritenersi subordinato, come erroneamente sostenuto dal ricorrente, alla preventiva deliberazione dell’assemblea condominiale ovvero ad apposita segnalazione di pericolo tale da indurre un intervento di urgenza. Il disposto dell’art. 1130, n. 4, c.c. viene invero interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che sull’amministratore grava il dovere di attivarsi a tutela dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, a prescindere da specifica autorizzazione dei condomini ed a prescindere che si versi nei casi di atti cautelativi ed urgenti (cfr. sez. IV, n. 3959 del 2009; sez. IV, n. 6757 del 1983). Dalla lettura dell’art. 1135, ultimo comma, c.c, si evince peraltro a contrario che l’amministratore ha la facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, in caso rivestano carattere d’urgenza, dovendo in seguito informare l’assemblea …».

Esistono poi alcuni reati che si riscontrano spesso in ambito condominiale.

Alcuni di questi sono stati già trattati nella parte generale in ambito civile per avere aspetti borderline come ad esempio:

gli aspetti di violazione della privacy (cfr. paragrafi II.8, II.8.1 e II.8.2);

le immissioni (cfr. paragrafo IV.7);

la presenza di animali in condominio (cfr. paragrafo IV.6, anche in relazione alle immissioni di odori sgraditi già trattato nel paragrafo IV.7).

Vi sono poi altre fattispecie che devono essere inquadrate in questo paragrafo, come l’omesso versamento delle ritenute previdenziali del portiere e l’omessa esecuzione di lavori edili in caso di pericolo di cui all’art. 677 c.p..

Deve inoltre essere evidenziato che la mancata restituzione di documenti o denari “condominiali” da parte dell’amministratore cessato dalla carica, è già stata in parte affrontata (cfr. paragrafo II.7.2),

ma deve essere meglio precisata per gli aspetti propriamente penali.

Ed infatti la mancata consegna, o anche il ritardo nella consegna,

da parte dell’amministratore cessato dalla carica al nuovo amministratore di documenti, di somme di danaro (o altri beni condominiali) sono fattispecie che integrano gli estremi (sia sotto il profilo materiale che soggettivo) del reato di appropriazione indebita (ex art. 646 c.p.).

Nel caso dell’ex amministratore è solo necessario che vi sia un rifiuto espresso o per “facta concludentia” alla riconsegna del denaro (o dei documenti).

Come già esposto (cfr. paragrafo II.7.2), sussiste, inoltre, l’aggravante ex art. 61 n. 11 c.p., nel caso in cui l’amministratore di condominio si sia appropriato del denaro e/o dei beni condominiali (es. timbro, documenti, ecc.). E tale aggravante è configurabile in quanto il rapporto che si era instaurato tra l’amministratore – ora cessato dall’incarico – ed il condominio (rectius i condomini) è inquadrabile come un rapporto di mandato (o un ufficio di diritto privato) e, di conseguenza, l’appropriazione indebita effettuata dall’ex amministratore è stata facilitata proprio per il tipo di rapporto che si era instaurato non solo fiduciario, ma anche qualificato (sin dal conferimento della nomina) e per tali motivi si configura l’ipotesi aggravata (cfr. sul punto, Cass. pen., sez. II, sent. 6 dicembre 2005, n. 3462).

Inoltre la giurisprudenza penale ha anche stabilito sul punto che «l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implica un concetto più ampio di quello civilistico di “locazione d’opera”, comprendendo tutti i casi nei quali, a qualunque titolo (quindi anche rapporti di mero fatto), taluno abbia prestato ad altri la propria opera; infatti, ciò che rileva è l’abuso della relazione fiduciaria da parte dell’autore, il quale profitta di una situazione di minore attenzione della vittima, determinata proprio dall’affidamento che questa ripone nell’opera dell’altro, per commettere un reato a suo danno». (Cass. pen., sez. II, sent. 23 settembre 2005, n. 40793).

Peraltro si configura il reato de quo anche se l’amministratore avesse solo lucrato per gli interessi maturati sulle somme del condominio.

Ed in astratto se l’amministratore, nell’appropriarsi di denaro dei condomini, cagionasse un grave danno economico potrebbe anche configurarsi l’aggravante del «danno patrimoniale di particolare gravità» ex art. 61, n. 7, c.p..

In relazione al momento della restituzione deve poi essere precisato che il reato si configura all’atto della consegna della cassa al nuovo amministratore:

«Di norma, la restituzione avviene in seguito al rendiconto annuale ma, ove ciò non avvenga (anche per meri errori di contabilità o perché devono essere ancora recuperate somme dovute da condomini morosi e riguardanti la precedente gestione o per altre cause), una volta che la gestione si conclude, e in difetto di contrarie disposizioni pattizie, l’amministratore del condominio è tenuto alla restituzione, in riferimento a tutto quanto ha ricevuto nell’esercizio del mandato per conto del condominio, vale a dire tutto ciò che ha in cassa, e ciò indipendentemente dalla gestione alla quale le somme si riferiscono (v. Cass. civ., sez. II, sent. n. 10815/2000 r.v. 539589)». (Cass. pen., sez. II, sent. 17 maggio 2012, n. 18864).

Inoltre ove, invece, l’amministratore sottragga periodicamente delle somme dai conti del condominio si potrebbe anche configurare il reato come “continuato”; ai sensi dell’art. 81 c.p.:

«in caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell’aggravante del danno di rilevante gravità dev’essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo cagionato dalla somma delle violazioni, difettando una norma che, ai fini in questione, consideri il reato come una pluralità di episodi tra loro isolati». (Cass. pen., sez. VI, sent. 8 luglio 2005, n. 33951).

Il reato di appropriazione indebita aggravata è perseguibile d’ufficio, e pertanto, l’azione penale prosegue anche in caso di remissione della querela.

In alcuni casi si può anche configurare il reato di truffa operata dall’amministratore (ai sensi dell’art. 640 c.p.) quando l’impossessamento di somme di danaro del condominio, operato dall’amministratore, avviene mediante vari passaggi contabili, o comunque tramite artifizi preordinati specificamente non solo ad appropriarsi del denaro ma anche a tentare di far risultare lecita l’operazione che invece cela il reato.

Il reato di appropriazione indebita ha un termine di prescrizione ordinario in sei anni dalla data di commissione del fatto (ossia opera la prescrizione se dalla data della commissione del fatto non viene effettuato alcun atto interruttivo della prescrizione) e, comunque, il termine di prescrizione massimo è di sette anni e mezzo dalla data di commissione del fatto (ossia se la Procura è solerte ed effettua l’atto interruttivo della prescrizione – come ad esempio la richiesta di interrogatorio o la citazione a giudizio – entro i sei anni, allora la prescrizione arriva a sette anni e mezzo, e, quindi, si deve arrivare a sentenza definitiva entro sette anni e mezzo per non far operare la prescrizione).

Di particolare rilevanza, in campo condominiale, è la problematica relativa al mancato versamento, da parte dell’amministratore, delle ritenute previdenziali ai dipendenti del condominio (portiere, giardiniere, addetto alle pulizie, ecc.).

In questo caso però si deve distinguere tra due diverse ipotesi:

• se i condomini hanno versato i relativi importi delle ritenute previdenziali e l’amministratore invece che versarli se ne è impossessato, si configura il reato di appropriazione indebita aggravata (cfr. Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41462; ibidem, Cass. pen., sez. II, 11 maggio 2009);

• se invece l’amministratore non ha adempiuto all’obbligo del versamento delle ritenute previdenziali e non dimostra (documentalmente) di aver informato i condomini della necessità di dover effettuare i versamenti, ma gli stessi condomini non abbiano poi fornito all’amministratore la provvista per far fronte a tale incombenza, si configura l’ipotesi del reato omissivo (previsto dall’art. 2, l. n. 638 del 1983).

Sul punto la Suprema Corte anche recentemente (Cass. pen., sez. IV, sent. 18 ottobre 2012, n. 40906) ha ribadito i precedenti orientamenti (cfr. Cass., 11 novembre 2010, n. 41462; Cass., 18 marzo 2009, n. 19911; Cass. sez. un., 27 ottobre 2004, n. 1327) secondo cui il datore di lavoro che omette di versare nei termini le somme di denaro trattenute a titolo di contributi previdenziali sui compensi del lavoratore commette il reato di appropriazione indebita (nel caso analizzato dalla Suprema Corte l’amministratore aveva ricevuto dai condomini le somme di denaro necessarie, ma omesso di versare i contributi previdenziali per il portiere, integrando, quindi, tale condotta il reato di appropriazione indebita).

Sul punto è bene ricordare che il reato non si configura con il mero mancato pagamento delle ritenute previdenziali, ma quando l’inadempimento persiste decorsi tre mesi dalla messa in mora dell’Inps.

Sul punto si evidenzia che, per sottrarsi a tale imputazione, l’amministratore dovrebbe – oltre che sebbene tardivamente procedere comunque al pagamento delle ritenute previdenziali – dimostrare, preferibilmente documentalmente (es. verbali di assemblea, bilancio, rendiconto, estratto conto corrente, ecc.), di aver informato l’assemblea dei condomini dell’esistenza di debiti impagati nei confronti dell’Inps e che, nonostante i solleciti (es. lettere di messa in mora dell’amministratore e/o di un legale, e, meglio conferimento di mandato per azionare un decreto ingiuntivo, cfr. paragrafo V.5) i condomini non hanno fornito i fondi per poter adempiere a tale incombenza.

In tal modo pur dovendosi – in astratto – configurare i profili del reato de quo vi sarebbe, almeno, il dubbio sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, ossia mancherebbe la prova che l’amministratore abbia consapevolmente violato la norma incriminante con le conseguenze di doversi pronunziare una sentenza di assoluzione quantomeno ex secondo comma dell’art. 530 c.p.p. perché «manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato» (Trib. Napoli, sez. IX pen., 29 maggio 2010, n. 3025, dott.ssa Gualtieri).

Per mera completezza espositiva sul punto si evidenzia che rappresenta una problematica interessante quella della rilevanza della notifica del decreto di citazione a giudizio ai fini della decorrenza del termine per regolarizzare il versamento delle ritenute previdenziali (sul punto, si consiglia la lettura della sentenza delle sezioni unite, 24 novembre 2011-18 gennaio 2012, n. 1855).

Altra fattispecie che si riscontra spesso in abito condominiale è quella delineata dall’art. 677 del c.p. (ed in particolare il comma 3).

L’art. 677 c.p. (“Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina”) prescrive che:

«Il proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina ovvero chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione, il quale omette di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 154 a euro 929.

La stessa sanzione si applica a chi, avendone l’obbligo, omette di rimuovere il pericolo cagionato dall’avvenuta rovina di un edificio o di una costruzione.

Se dai fatti preveduti dalle disposizioni precedenti deriva pericolo per le persone, la pena è dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda non inferiore a euro 309.».

È evidente, dalla mera lettura della norma, che per configurarsi il reato in esame vi deve essere non solo la condotta omissiva, ma anche un tipo di degrado e di pericolo tale da potersi astrattamente rappresentare una “rovina”.

Si deve poi per completezza espositiva evidenziare il possibile teorico cumulo, in alcuni casi pratici, tra l’ipotesi di reato di cui all’art. 677 c.p. e quella di cui al 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità).

Sul punto si evidenzia che l’ipotesi di cui all’art. 677 c.p. è di rango speciale rispetto a quella ex art. 650 c.p., con la conseguenza che dovrebbe – in ipotesi di astratta concorrenza e cumulo delle due fattispecie – operare il principio della sussidiarietà che renderebbe assorbita la fattispecie dell’art. 650 c.p. in quella specifica dell’art. 677 c.p., comma 3.

Comunque ove si incorresse, in astratto, in tale configurazione del reato di cui all’art. 677 c.p. sarebbe consigliabile procedere al pagamento dell’oblazione (ex art. 162-bis c.p.) per richiedere l’effetto estintivo del reato (sempre che si sia, nelle more, provveduto ad eliminare il pericolo).

Ed ancora si evidenzia che nel caso in cui all’amministratore sia impedito di procedere a tali lavori questi non potrebbe essere condannato (cfr. Cass. pen., sez. II, sent. 8 gennaio 2010, n. 178, in cui si evidenzia la mancata collaborazione dei condomini per non aver permesso l’accesso alle parti da cui provenivano i dissesti), con la conseguenza che la condotta sanzionata ed il relativo obbligo di intervenire si configurerebbe in capo ai singoli condomini che, ad esempio, non contribuiscono a creare il fondo cassa per procedere ai lavori – cfr. Cass. pen., sez. I, sent. 19 giugno 1996, n. 7764; oppure «in caso di mancata formazione della volontà assembleare e di omesso stanziamento di fondi necessari a porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, non può essere ipotizzata alcuna responsabilità dell’amministratore per non aver attuato interventi che non era in suo materiale potere adottare e per la realizzazione dei quali non aveva le necessarie provviste, ricadendo in siffatta situazione la responsabilità in capo ai singoli condomini» (Cass. pen., sez. II, sent. 2 maggio 2011, n. 16790; ibidem, Cass., sent. n. 1784/2007 e, da ultimo, Cass. pen., sez. III, sent. 13 gennaio 2012, n. 886).

In pratica in caso di caduta di tegole dal tetto del condominio l’amministratore deve subito far rimuovere le parti che minacciano di distaccarsi, far delimitare – anche tramite transenne o comunque opere visibili – la zona nella quale potrebbe cadere ulteriore materiale e repentinamente convocare l’assemblea per far deliberare di effettuare lavori di ristrutturazione «al fine di andare esente da responsabilità penale, intervenire sugli effetti anziché sulla causa della rovina, ovverossia prevenire la specifica situazione di pericolo prevista dalla norma incriminatrice interdicendo – ove ciò sia possibile – l’accesso o il transito nelle zone pericolanti» (Cass., sent. 21 maggio 2009, n. 21401).

Ghigo Giuseppe Ciaccia

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