1) Premessa.
L’entrata in vigore della Legge n. 353 del 26.11.1990, ha permesso la creazione di un nuovo procedimento cautelare modellato su una struttura generale uniforme, nonostante le variegate applicazioni, la cui la centralità assunta nel processo civile, è diventata sempre più preminente ed importante, con l’esponenziale e costante aumento delle esigenze tipiche di una tutela preventiva ed immediata.
All’accresciuta attenzione verso la disciplina normativa e procedimentale contenuta nel Codice di Rito, ha fatto eco – con la previsione di cui all’art. 669 quater-decies – l’intento di riscrivere ed uniformare quanto più possibile l’intera materia cautelare in ambito processualcivilistico, con la correlata previsione di una unica disciplina applicabile per tutte le tipologie di procedimenti di cui agli artt. 669 e ss. c.p.c.
In particolare, tra le tante novità, si segnala una su tutte, dalla quale viene appunto ridenominata l’intera materia: l’assoluta autonomia procedimentale e funzionale dell’intero rito cautelare, valido per ogni specie di tutela invocata (ad es. sequestro, conservativo o giudiziario) non essendo neppure previsto – contrariamente rispetto alla previgente disciplina – l’istituto della c.d. convalida del provvedimento eventualmente concesso dal Giudice Delegato ai Provvedimenti Cautelari.
L’unico limite alla descritta autonomia del procedimento in disamina, potrebbe essere costituita dalla previsione per la quale, la domanda formulata in sede cautelare deve identificare la domanda giudiziale che darà fondamento e, costituirà l’oggetto del successivo giudizio di merito, caratterizzato da una cognizione ordinaria.
Ma a ben vedere, neppure potrebbe parlarsi di un vero e proprio limite, in quanto, altro non sarebbe che la naturale evoluzione – ovviamente in termini “giuridici” – dell’istituto in discorso: infatti, non avrebbe senso parlare di una tutela cautelare senza considerare – sia pure distintamente per quanto concerne il relativo svolgimento della fase processuale – la domanda giudiziale avente ad oggetto il successivo instaurando giudizio di merito, nei cui confronti, la tutela cautelare inerisce in chiari termini strumentali.
A deporre in tal senso, – nell’apparente silenzio dell’art. 669 bis c.p.c. – secondo l’id quod plerumque accidit dottrinale e giurisprudenziale formatosi a tal riguardo (cfr. ex plurimis: Andrea Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, pp.338; e Trib. Milano, 19.3.1996 in Corr. Giur. 1996) deporrebbe il terzo comma dell’art. 693 c.p.c. e, lo stesso inciso contenuto nell’art.669-octies c.p.c. laddove il Giudice deve fissare il termine perentorio per l’inizio del giudizio di merito non superiore a trenta giorni, ed in primis, quello contenuto nell’art. 669-ter c.p.c. per il quale, prima dell’inizio della causa di merito, la domanda si propone al Giudice competente a conoscere del merito.
Pertanto, il ricorrente sarebbe tenuto ad esprimersi sia con riguardo al petitum che alla causa petendi oggetto dell’instaurando giudizio di merito, a pena di inammissibilità dell’istanza cautelare proposta.
2) L’instaurazione del procedimento: a) la competenza “ante causam” dinanzi all’Autorità adita.
Uno dei principi “cardine” sui quali si poggiano le nuove regole del c.d. “rito cautelare uniforme” è quello della perfetta identità e sovrapposizione della competenza a conoscere ed eventualmente concedere la misura cautelare invocata, con la competenza a conoscere la controversia del successivo giudizio di merito.
Su tale punto, l’art. 669 ter, 1° co. statuisce che la domanda cautelare proposta ante causam va introitata dinanzi “al Giudice competente a conoscere del merito”.
E’ quindi chiaro che trattasi di una evidente enunciazione formulata per relationem, nel tentativo di interloquire anche in presenza di una eventuale clausola convenzionale derogatoria rispetto ai fori legali previsti in generale dal Codice, poiché il principio della c.d. inamovibilità della competenza in materia cautelare deve intendersi come una inderogabilità della sua inerenza rispetto alla competenza per il giudizio di merito.
Unica eccezione di rilievo alla suesposta impostazione è rappresentata dalla previsione (peraltro già presente nella pregressa normativa cautelare) secondo la quale nell’ipotesi in cui sussista la competenza del Giudice di Pace per il giudizio di merito, la competenza ad emettere la richiesta misura cautelare appartiene al Tribunale, sia per l’istanza proposta ante causam che nel corso del giudizio di merito, a mente rispettivamente degli artt. 669 ter, 2° co. e 669 quater, 3° co., con l’ulteriore precisazione, che, l’Autorità andrà individuata con riferimento alla collocazione sul territorio dell’Ufficio del Giudice di Pace competente per il giudizio di merito.
Viene quindi escluso ogni riferimento al luogo ove dovrà trovare concreta attuazione la misura invocata ed eventualmente concessa.
Inoltre, la previsione di una “competenza in via surrogatoria” da parte del Tribunale, andrebbe considerata ed affermata positivamente anche per le situazioni in cui non è stata espressamente rimarcata dalla legge, come accade ad esempio per le cause compromesse ad arbitri ex art. 669 quinquies.
Con riferimento all’Autorità chiamata a pronunciarsi sulla domanda, soccorre l’art. 669 ter, 4° co. c.p.c., il quale la identifica con il “Giudice” indicato dal Presidente del Tribunale – o della Corte di Appello, a seconda dei gradi di giudizio in cui si discute – dietro presentazione del fascicolo d’ufficio in Cancelleria, prescindendo quindi, anche dall’applicazione del procedimento previsto ad hoc dall’art. 168 bis. c.p.c. negli Uffici giudiziari <suddivisi> in sezioni interne.
Solo con riferimento ai provvedimenti in tema di nunciazione e di danno temuto, la competenza cautelare ante causam viene disciplinata diversamente. Infatti, gli artt. 668, 1° co. e 8, 2° co., n. 1, c.p.c. prevedono la competenza cautelare del Giudice del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato (art. 21, 2° co., c.p.c.).
Mentre, per i procedimenti di istruzione preventiva l’art. 693, 2° co., c.p.c. consente la proposizione dell’istanza ante causam dinanzi al Giudice competente per la causa di merito, ovvero, nel caso in cui sussistano particolari e specifici motivi d’urgenza, di non comune rilevanza, dinanzi al Giudice del luogo in cui dovrà essere acquisita la prova dei fatti in ragione dei quali si agisce in via preventiva e cautelare.
3) L’instaurazione del procedimento: b) la competenza in corso di causa nel giudizio di “merito” dinanzi all’Autorità Giudiziaria adita.
Laddove la misura cautelare venga richiesta nel corso del giudizio di merito, la competenza apparterrà “allo stesso Giudice” come prescrive l’art. 669 quater, 1° co. c.p.c.
Appare poi opportuno aggiungere che, nei giudizi introitati dinanzi al Tribunale, la potestà ad essere investito delle relative prerogative – in virtù delle quali sussiste la relativa competenza in materia cautelare – appartiene al Giudice monocratico, anche ove la instauranda causa di merito sia di competenza del Tribunale in composizione Collegiale.
Solo nella eccezionale ipotesi in cui manchi un giudice monocratico deputato alla cognizione del procedimento di merito, ovvero, nell’ipotesi in cui il giudizio rimanga sospeso, o, interrotto, l’art. 669 quater, 2° co. c.p.c. prevede che in tale caso specifico, l’istanza deve essere rivolta al Presidente del Tribunale, il quale provvederà alla nuova designazione del Giudice al quale delegare la trattazione del giudizio (cfr. ultimo comma dell’art. 669 ter c.p.c.).
Ma a ben vedere, tale impostazione potrebbe applicarsi anche per la ulteriore fattispecie in cui il processo venga cancellato dal ruolo dell’Ufficio.
Infine rimangono da valutare i casi de giudizio di Cassazione e quello della pendenza della causa civile dinanzi ad altro Magistrato in sede penale.
Nella prima ipotesi (competenza nel corso del giudizio di Cassazione) appare equo l’orientamento propenso a ritenere la persistenza della legittimazione del Giudice che ebbe a pronunciarsi, accogliendo l’istanza cautelare, poi, oggetto a sua volta del successivo giudizio di impugnazione, sulla scorta di quanto già avviene per le c.d. istanze di inibitoria formulate ai sensi dell’art. 373 c.p.c. La competenza del Giudice investito in primo grado della cognizione della misura cautelare proposta, potrebbe ritenersi superata solo a seguito della eventuale <cassazione> della decisione, in favore di quella statuita dal giudice di rinvio, eventualmente designato dalla stessa Corte di Legittimità.
Per la fattispecie della pendenza della causa civile dinanzi al Giudice penale, l’ult. co. dell’art. 669 quater prevede espressamente che il giudice civile rimane comunque competente a decidere delle istanze cautelari rimessegli dalle parti. A fortiori però, tale individuazione andrà valutata sulla scorta del principio codificato nell’art. 669 ter, 3° co. c.p.c., trattandosi del medesimo giudice che, sarebbe competente anche in ragione di materia o valore a conoscere del procedimento civile.
Orbene, proprio con riferimento a tale ipotesi, potrebbero sorgere alcuni problemi, scaturenti dal rapporto tra la “competenza” a conoscere ed eventualmente concedere il richiesto provvedimento cautelare, e, la “competenza” per il successivo instaurando giudizio di merito.
A tal riguardo, la prevalente corrente di pensiero ritiene che sarebbe competente ad emettere il provvedimento richiesto il giudice investito per primo della controversia, con la conseguenza che la eventuale affermazione di incompetenza del giudice della causa del merito non potrebbe costituire neppure oggetto di un eventuale giudizio di reclamo ex art. 669 terdecies.
4) La proposizione dell’istanza cautelare.
L’art 669 bis c.p.c. esordisce con l’enunciare che l’istanza cautelare deve venire formulata con ricorso, da depositarsi nella Cancelleria del Giudice competente.
Ad ogni buon conto, il principio della libertà delle forme, sicuramente applicabile ad un procedimento a cognizione “sommaria”, induce a ritenere che la proposizione della predetta istanza possa venire assolta, (in corso di causa) almeno in astratto, anche mediante una semplice formulazione orale, da raccogliersi a processo verbale dell’udienza. In tale ipotesi (istanza formulata in corso di causa) potrebbe ritenersi ammissibile anche una contestuale ed unica proposizione delle domande (cautelare e di merito) nel corpo dello stesso atto giudiziario. Sulla scorta dei principi generali in tema di proposizione e stesura degli atti giudiziari, non essendo specificato nell’art. 669 bis c.p.c. – almeno apparentemente – il contenuto dell’atto, si devono richiamare il contenuto dell’art. 125 c.p.c. per il quale, in aggiunta alla menzione dell’Autorità adita e delle parti, occorre indicare altresì le “ragioni della domanda e le conclusioni o l’istanza” che verranno poste a base del successivo giudizio di merito. Proprio sotto tale profilo, appare opportuno rilevare come l’istanza rivolta ante causam non potrebbe considerarsi ammissibile in assenza degli elementi e requisiti necessari ed indefettibili rispetto allo scopo concernente la identificazione del petitum e della stessa causa petendi dell’instaurando giudizio di merito. E’ altresì opportuno precisare che con specifico riferimento al petitum della fase cautelare non sembrerebbe comunque indispensabile l’onere di allegare la specie di misura cautelare richiesta, assumendo carattere preminente in tal senso soltanto la precisazione della finalità materiale che il ricorrente si propone di conseguire con l’instaurato procedimento, ed essendo compito del Giudice l’“inquadramento” della domanda sottoposta al proprio esame, unitamente alla correlata natura giuridica della stessa. 5) L’instaurazione del contraddittorio e la valutazione del fumus boni juris e del periculum in mora. Il nuovo rito cautelare uniforme poggia su alcune regole fondamentali, tra le quali, occupa una posizione preminente l’instaurazione del contraddittorio, nel corso del quale, il giudice, ascolta le parti. Peraltro, con riferimento alle modalità concrete di instaurazione del contraddittorio delle parti, la riforma legislativa non ha previsto una impostazione schematica predefinita, risultando scoperti ampi spazi lasciati alla c.d. discrezionalità del giudice.
Un ulteriore indizio a conferma della scelta legislativa in tal senso – volta a privilegiare la “discrezionalità” tipica del processo a cognizione sommaria, applicata “analogicamente” nello svolgimento della trattazione cautelare – deriva dall’art. 669 sexies c.p.c. che con riferimento alla fase istruttoria, opera diretto riferimento all’acquisizione degli “atti di istruzione necessari in relazione ai presupposti ed ai fini della misura invocata” e, per l’eventualità in cui si proceda con lo schema tipico del provvedimento emesso inaudita altera parte, di assunzione delle c.d. “sommarie informazioni”.
E’ poi opportuno precisare che le c.d. “sommarie informazioni” vengono acquisite senza un contraddittorio, essendo omessa alcuna preventiva comunicazione alla controparte, ed in quanto tali, non possono minimamente assumere il grado e la qualità propria di vero e proprio atto di istruzione probatoria. A tutela del diritto a difesa, e, della necessaria attuazione – anche nella fase cautelare – del principio del contraddittorio, il Legislatore ha previsto che tale schema processuale finalizzato all’emanazione immediata del provvedimento richiesto, emesso quindi inaudita altera parte – è ammissibile solo in via eccezionale e residuale, alla condizione espressa per la quale, – giusta previsione di cui all’art. 669 sexies, 2° co. c.p.c. – l’audizione della parte resistente potrebbe pregiudicare seriamente l’attuazione della misura invocata. Agli artt. 669-690 c.p.c. è poi contenuta la disciplina del rito applicabile in tali particolari ipotesi considerate, articolandosi nell’emanazione del decreto motivato con indicazione della fissazione dell’udienza in cui verrà attuato il contraddittorio delle parti, finalizzato alla conferma, revoca o modifica del precitato decreto emesso, da attuarsi con la forma dell’Ordinanza, che, comunque, al termine del procedimento, è destinata a sostituirsi al precedente decreto emesso, con l’ulteriore conseguenza, che, i rimedi di cui agli artt. 669 decies e terdecies c.p.c. potranno interessare solo tale provvedimento.
Laddove la causa di merito rientri nella competenza giurisdizionale di un’Autorità straniera, gli artt. 669 ter, 3° co. e 669 quater, 5° co. c.p.c. rispettivamente per il procedimento ante causam ovvero iniziato a lite già pendente presso il giudice straniero prevedono espressamente che la relativa istanza venga proposta dinanzi al giudice competente per materia o valore, con sede nel foro ove deve avvenire l’esecuzione del provvedimento.
Tale impostazione deriva dal criterio di collegamento inerente l’eseguibilità nel territorio della Repubblica Italiana del provvedimento cautelare, originariamente codificato all’art. 4, n. 3 c.p.c. ed attualmente all’art. 10 della L. 31.5.1995 n. 218. Comunque, per la radicazione del procedimento cautelare ante causam presso il giudice del luogo di esecuzione dell’invocata misura, occorrerà altresì verificare la sussistenza o meno in astratto di un titolo giurisdizionale italiano azionabile nella fase di merito. In merito, la dottrina maggioritaria, è propensa nell’affermare che, condizione finalizzata all’applicazione della regola involgente la competenza territoriale del foro dell’esecuzione, è che il giudice venga investito di una domanda cautelare formulata in termini strumentali rispetto ad una controversia di merito straniera, e, che la predetta formulazione venga connotata da un elevato grado di reale concretezza, come se – per una sorta di fictio juris – la stessa fosse già stata pendente all’estero.
Ad analoga soluzione deve pervenirsi in presenza di una convenzione in deroga alla giurisdizione pure specificamente prevista dall’art. 4, 2° co. della L. 218/1995 innanzi citata, e, del compromesso in arbitrato estero, che legittimano l’operatività del criterio di competenza basato sul foro di esecuzione della tutela invocata. Peraltro, proprio una scelta preesistente concernente la giurisdizione straniera, contrapposta rispetto alla pendenza del processo di merito, consentirebbe di escludere in radice la necessità di compiere una preventiva delibazione della sussistenza in astratto della giurisdizione italiana, e, conseguentemente, di fornire una autonoma esecuzione del criterio di competenza territoriale fondato sul foro di esecuzione della tutela cautelare, anche ove la relativa istanza cautelare sia stata predisposta ante causam.
Da notare che l’art. 669 quinquies c.p.c. regola le fattispecie afferenti i procedimenti compromessi in arbitrato rituale.
Mentre, con riferimento alla richiesta avanzata ante causam oppure a procedimento in corso, trova piena applicazione la disciplina generale sulla competenza, tenuto conto che la domanda deve essere incardinata dinanzi al “giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito”.
Infine, un’ultima precisazione si rende opportuna proprio in merito all’art. 818 c.p.c. con riferimento al quale, va detto che sussiste tutt’ora inalterato il principio della carenza di potestà cautelare in seno agli arbitri ed al relativo Collegio.
6).1 L’accoglimento dell’istanza cautelare proposta ante causam: l’esecuzione del provvedimento e l’inizio del giudizio di merito.
Ritornando all’ipotesi concernente la domanda cautelare proposta ante causam, in caso di accoglimento della predetta istanza, il Giudice fissa il termine – qualificato espressamente come perentorio, in quanto non può superare i trenta giorni – per l’inizio della causa di merito. Si noti altresì che, il suddetto termine, inizia a decorrere dalla pronuncia dell’ordinanza, se emessa in udienza, o dalla sua comunicazione qualora pronunciata fuori udienza a scioglimento di una “riserva” da parte del Magistrato adito. Il giudice presso cui va instaurato il giudizio di merito non va però indicato nell’ordinanza, ed esso potrà essere anche diverso da quello che si è pronunciato sulla domanda cautelare, poiché la scelta tra i fori concorrenti non può dirsi consumata con la fase cautelare. Proprio a tal riguardo, appare singolare come il Legislatore nel formulare la norma in questione, si è preoccupato di enunciare – delimitandolo – il termine cd. “massimo” di trenta giorni, senza però prevedere un termine c.d. “minimo”, con l’ovvia conseguenza, che, il termine fissato dal Giudice potrebbe risultare del tutto inadeguato – ed a fortiori persino insufficiente – rispetto alla proposizione delle attività prodromiche e preliminari rispetto all’inizio del giudizio di merito. Per quanto concerna il problema della condanna al pagamento delle spese di lite, contrariamente rispetto a quanto accade nell’ipotesi di provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare, – nel qual caso la pronuncia è necessaria al fine di evitare un’azione separata da parte del resistente al sol fine di conseguire il rimborso delle spese processuali – non è previsto alcunché a tal riguardo. Infatti, non si rinviene alcuna norma nel Codice di rito, che imponga al Giudice una statuizione in merito alla regolazione delle spese processuali ex art. 91 c.p.c. nel caso di un provvedimento di accoglimento del ricorso – ove anche emesso ante causam – sul presupposto che, poiché il ricorrente vittorioso ha l’onere di procedere tempestivamente all’instaurazione del giudizio di merito, al termine di quest’ultimo, con la sentenza che lo definisce, potrà conseguire la liquidazione delle spese inerenti anche la precedente fase cautelare. Con specifico riferimento alla diversa tipologia dei beni sui quali potrebbe ricadere la misura cautelare richiesta, l’art. 669 duodecies c.p.c., riferendosi ai provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di pagamento di somme di denaro, sancisce l’applicazione delle forme tipiche dell’espropriazione forzata di cui al libro III del Codice, laddove per i provvedimenti finalizzati ad assolvere gli obblighi di consegna o rilascio di beni, fare o non fare, si rinvierebbe alle norme sull’esecuzione sommaria, secondo modalità applicative rimesse allo stesso giudice che ebbe a concedere la misura, il quale, avrebbe quindi facoltà di delinearne il percorso attuativo già nella fase di accoglimento di quest’ultima. In ogni caso, è bene affermare che eventuali contestazioni sollevate dalle stesse parti o da un terzo esposto all’attuazione del provvedimento, possono essere risolte con cognizione piena rispettivamente solo dinanzi al giudice investito della causa di merito, ovvero in un autonomo giudizio instaurato dal terzo interessato.
6.2.) Il rigetto della domanda cautelare: reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. Nell’eventualità di un provvedimento di rigetto avverso la domanda cautelare, a seguito dell’intervento operato dalla Consulta con la pronuncia del 23.6.1994 n. 253 dichiarativa dell’incostituzionalità dell’art. 669 terdecies c.p.c. – per violazione dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui non ammetteva il reclamo avverso tale tipologia di provvedimento. Infatti, originariamente, il legislatore del 1990 aveva prescelto un regime modulato sulla falsariga dell’art. 640 c.p.c. prendendo in esame la mera possibilità di riproporre l’istanza, alla sola condizione che venissero evidenziati motivi diversi dall’incompetenza, mediante allegazione di nuove ragioni in fatto od in diritto. Tale previsione, a ben vedere, non è stata minimamente “toccata” dall’intervento della Corte Costituzionale.
6.3) Il rigetto della domanda cautelare: incompetenza del giudice delegato ai provvedimenti cautelari. Con riferimento a tale ipotesi, l’art. 669 septies, 1° co. c.p.c. nel sancire la non preclusione della riproposizione della domanda, porta ragionevolmente ad escludere la conseguenza che all’eventuale provvedimento di incompetenza possa riconoscersi un valore vincolante o comunque definitivamente pregiudizievole per il ricorrente. Rileva a tal fine, la sottrazione dell’istituto in esame dalla particolare disciplina vigente per le sentenze emanate sulla scorta dell’art. 44 c.p.c., che a sua volta, risulta incentrato sull’indicazione vincolante del Giudice competente e sulla c.d. “translatio iudicii”. Conseguenza di tale impostazione, sarà quindi la possibilità di riproporre domanda dinanzi ad un diverso ufficio giudiziario, compreso quello adito precedentemente, sede della prima pronuncia sulla competenza. Per tali ragioni, appare poi ovvia l’esclusione dell’assogettabilità dell’istituto in disamina al regolamento di competenza, essendo la relativa ordinanza declinatoria della competenza reclamabile ex art. 669 terdecies c.p.c.
6.4) Il rigetto della domanda cautelare: l’onere di allegare nuovi motivi in fatto od in diritto. Nell’attuale sistema disegnato dalla L.353/1990 – e precisamente all’art. 669 septies 1° co. c.p.c. – vengono ristretti i casi in cui è possibile riproporre l’istanza precedentemente rigettata per motivi diversi dall’incompetenza, essendo consentita, nel rigoroso rispetto del “filtro” costituito dalla allegazione di una intervenuta modifica delle circostanze o delle ragioni in fatto od in diritto precedentemente prospettate dalla parte ricorrente. A ben vedere, tale formulazione della norma, consente di comprendere, oltre alle circostanze sopravvenute, anche le diverse formulazioni dei quesiti giuridici, in essi ricomprese proprio la presentazione di circostanze preesistenti e le nuove istanze di prova. Ai fini di un’eventuale giudizio di opposizione, l’ordinanza di cui trattasi è opponibile dinanzi all’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che emise l’ordinanza, con le forme proprie del procedimento previsto per il procedimento monitorio, nel termine di venti giorni a far data dalla pronuncia, o dalla comunicazione a seconda se il relativo provvedimento risulti emesso in udienza alla presenza delle parti ovvero a scioglimento di una precedente riserva dello stesso magistrato come previsto dall’art. 669 septies 2° co. c.p.c. In sede di opposizione è possibile riesaminare l’an ed il quantum della condanna esclusivamente sotto il profilo della eventuale sussistenza o meno dei c.d. “giusti motivi” che, di fatto, avrebbero potuto giustificare una compensazione, totale o parziale, delle spese di lite ex art. 92, 2° co. c.p.c. discostandosi, ance solo parzialmente dal principio generale della soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c.
7) La fase eventuale e parallela del reclamo avverso il provvedimento cautelare concesso, rispetto all’instaurazione del successivo giudizio di merito. Nel sistema attuale, l’istituto del reclamo è assume la connotazione tipica di una vera e propria impugnazione, assimilabile per alcuni aspetto ad una specie di gravame in ”appello” ed in quanto tale, si avvicina ai procedimenti camerali, stante il richiamo espresso previsto dall’art. 669 terdecies c.p.c. alle norme di cui gli artt. 737, 738, 739 c.p.c.
A seguito dell’intervento innanzi citato della Corte Costituzionale con la sentenza n. 253/1994, rileggendo l’art. 669 terdecies, 1° co., attualmente, è reclamabile l’ordinanza emanata al termine del procedimento instauratosi con la proposizione dell’istanza cautelare, sia essa di accoglimento o anche solo di rigetto della misura richiesta.
Tale istituto non trova applicazione nei soli confronti delle ordinanze emesse ex artt. 669 novies, 2° co. e 669 duodecies c.p.c., poiché, entrambe non contengono alcuna statuizione in merito alla legittimità della misura cautelare richiesta.
Ai soli fini della competenza dell’Autorità dinanzi la quale deve essere incardinato il relativo giudizio, deve poi precisarsi che avverso i provvedimenti del giudice monocratico l’istanza ex art. 669 terdecies c.p.c. va inoltrata allo stesso Tribunale in composizione collegiale, mentre nei riguardi delle pronunce emesse dalla Corte d’Appello si ricorre dinanzi ad altra sezione della stessa Corte ovvero, alla Corte d’Appello competente in ragione del prossimo distretto di appartenenza.
Nell’ipotesi in cui il relativo provvedimento sia stato emanato dal Tribunale in composizione collegiale – come avviene per le sezioni specializzate in materia agraria – si pone l’alternativa tra la competenza di altra sezione dello stesso Tribunale, ovvero quella del Tribunale prossimo per distretto, sulla scorta dello stesso criterio c.d. “rotatorio” previsto per la fase di Appello, oppure ancora, “per saltum” direttamente a quest’ultima quale giudice superiore. Per lo svolgimento del relativo procedimento sono opportunamente richiamati gli artt. 739, 2° co., 737 e 738, essendo altresì previsto nel 4° co. dell’art. 669 terdecies c.p.c. la pronuncia del Collegio, previa convocazione delle parti, entro il termine di venti giorni dal deposito del ricorso con Ordinanza non impugnabile diretta a confermare, modificare o revocare il provvedimento reclamato. Il reclamo, si propone nelle forme proprie del ricorso da depositarsi nella cancelleria del giudice competente entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notifica del provvedimento. Si noti bene, che, la notifica del provvedimento emesso dal Giudice di Prime Cure non condiziona l’esperibilità del reclamo, in quanto quest’ultimo può essere validamente proposto dal giorno della pubblicazione dell’ordinanza. Ovviamente, nell’ipotesi di omessa notifica diventa inapplicabile il termine c.d. dilatorio previsto all’art. 327 c.p.c.. Il procedimento si svolge nella forma tipica dei procedimenti camerali, con la nomina di un relatore, che riferisce in camera di consiglio, e, con la possibilità di assumere “sommarie informazioni”, in aggiunta all’audizione delle parti. Sulla falsariga di quanto avviene per l’appello vero e proprio, al reclamo si tende a riconoscere gli effetti devolutivi propri di un procedimento di gravame, essendo funzionalmente strutturato per pervenire comunque ad una nuova decisione sulla domanda cautelare precedentemente instaurata. Da ultimo, viene escluso ogni sospensione c.d. “automatica” della decisione resa dal G.D.P.C. essendo rimesso al prudente apprezzamento del Presidente del Collegio il potere di concedere o meno la inibitoria avverso l’esecuzione ovvero, l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato con ordinanza non ricorribile per cassazione ex art. 669 terdecies ult. co.c.p.c. Quale presupposto ritenuto indefettibile per la proposizione ed eventuale accoglimento dell’inibitoria è previsto che il provvedimento sia suscettibile di arrecare grave danno per motivi sopravvenuti, i quali possono ritenersi configurabili solo in presenza di fatti verificatisi successivamente rispetto al provvedimento reclamato.
8) La revoca e la modifica della misura cautelare concessa.
Bisogna dire che a mente dell’art. 669 decies c.p.c. il potere di addivenire alla revoca od alla modifica del provvedimento reso è soggetto ad un eventuale riscontro concernente un “mutamento nelle circostanze” precedentemente verificatesi.
In dottrina esistono divergenti orientamenti a tal riguardo, il più attendibile dei quali risulta quello volto a privilegiare la tesi secondo la quale il “mutamento”, dovrebbe necessariamente inerire alle sole circostanze di carattere extra-processuale, escludendosi ogni rilievo alle fattispecie attinenti allo svolgimento della causa di merito. Tanto, poiché il c.d. “riesame” del provvedimento rende possibile e concreto il rischio di incorrere in enunciati che possono neutralizzarsi e contrastarsi reciprocamente, andando ad incidere sulle relazioni intercorrenti tra le parti. Ai fini dell’attribuzione della competenza, per espresso disposto dell’art. 669 decies c.p.c. il giudice istruttore della causa di merito risulterebbe investito anche della decisione per i provvedimenti emessi ante causam, mentre nel caso di procedimento devoluto alla cognizione della giurisdizione straniera o ad arbitrato o di azione civile esercitata o trasferita nel processo penale sarebbe competente il giudice che ebbe a concedere la tutela cautelare.
Ancora, con riferimento al potere concernente la possibilità di revoca o di modifica del provvedimento precedentemente reso, lo stesso può interessare il provvedimento positivo, anche se emesso per la prima volta o confermato in sede di reclamo. Ovviamente, nella fattispecie in cui il potere venga esercitato dal giudice che ebbe ad accogliere l’istanza cautelare – anziché dal giudice del procedimento di merito – la competenza si radica, a favore del giudice del reclamo. Il Codice non enuncia regole specifiche concernenti le modalità di svolgimento del procedimento in discorso, preoccupandosi solo di prevedere espressamente la necessità di allegare l’istanza della parte. Infine, appare opportuno aggiungere che l’istanza diretta a conseguire una eventuale modifica del provvedimento reso dal G.D.P.C. potrebbe pervenire anche dalla parte vittoriosa a favore della quale venne concessa la misura cautelare, laddove si intenda addivenire ad una variazione in melius – magari in astratto dotata anche di maggiore incisività – sulla base di un sempre possibile mutamento delle circostanze in fatto ed in diritto.
Infine, l’ordinanza con la quale si statuisce in merito alla revoca od alla modifica della misura cautelare è a sua volta, soggetta all’istituto del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.
9) Il problema dell’eventuale inefficacia sopravvenuta del provvedimento cautelare ed il ripristino della situazione ex ante rispetto all’esecuzione della tutela azionata.
Con riferimento alla persistenza degli effetti e della stessa efficacia della misura cautelare eventualmente concessa, l’art. 669 novies 1° co. c.p.c., dispone che la stessa perde ogni efficacia qualora il giudizio di merito non viene iniziato nel termine perentorio di cui all’art. 669 octies c.p.c. ovvero, se, successivamente alla sua instaurazione, si estingue.
Naturalmente, la caducazione della misura si verifica altresì a seguito della sentenza, anche non passata in giudicato, che dichiari l’inesistenza del diritto a cautela secondo la previsione esplicita dell’art. 669 novies 3° co. c.p.c..
Trova infine menzione degna di rilievo, quale ulteriore fonte di caducazione della tutela, anche l’eventualità dell’omesso versamento della cauzione cui era soggetta, ovvero qualora sia stata successivamente sottoposta in sede di modifica ex artt. 669 sexies 2° co., 669 decies, e 669 terdecies c.p.c.
In tale evenienza, l’art. 669 novies, 3° co. c.p.c. prevede che l’inefficacia della misura venga disposta con la stessa sentenza dichiarativa dell’inesistenza del diritto.
Specifiche disposizioni sono poi previste per il caso in cui la controversia sia decisa da un giudice straniero o a seguito di arbitrato italiano od estero.
A tal riguardo, nell’ipotesi di sentenza o lodo favorevole al beneficiario della misura cautelare, la stessa si caduca qualora non venga rispettato il termine legale o convenzionale per la presentazione dell’istanza di riconoscimento o di esecutorietà come previsto espressamente dall’art. 669 novies ult. co. n. 1 c.p.c. come avviene – in parallelo – per l’inizio del giudizio di merito.
Nell’ipotesi inversa, costituita da una sentenza straniera od un lodo italiano od estero sfavorevoli al beneficiario della misura, si è statuito che la misura cautelare perda ogni efficacia a prescindere dall’eventuale passaggio in giudicato del provvedimento come prescrive l’art. 669 novies, ult. co. n. 2 c.p.c.
Con riferimento al procedimento di riconoscimento o di “esecutorietà”, nel silenzio normativo, si può legittimamente desumere che, nell’ipotesi in cui lo stesso si reso necessario per consentire all’atto di espletare la propria efficacia nell’ordinamento italiano la misura cautelare può essere dichiarata inefficace indipendentemente dal suo inizio.
Per consentire la pronuncia di inefficacia della misura cautelare eventualmente disposta, il sistema prevede uno specifico rimedio “imperniato” sull’art. 669 novies 2° co. c.p.c. il quale consente il ricorso allo stesso giudice che ebbe a concedere il provvedimento.
Il Tribunale, convocate le parti nel rispetto delle esigenze proprie del contraddittorio, e, ove non vi siano contestazioni al riguardo, provvede con ordinanza immediatamente esecutiva, nella quale verranno disposte le necessarie misure per il ripristino. Ove vi sia invece contestazione, il procedimento è destinato a trasformarsi inevitabilmente in un ordinario processo di cognizione, da ultimarsi con l’emanazione di una sentenza immediatamente esecutiva, da parte dell’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice monocratico che ebbe a concedere la misura cautelare contestata.
Tale ricorso, nelle forme e modalità procedimentali delineate dall’art. 669 novies 2° co. c.p.c. non appare necessario solo ove l’inefficacia della misura venga determinata da una pronuncia di rigetto della domanda proposta nel giudizio di merito, atteso che in tal caso, la declaratoria di inefficacia del provvedimento e le stesse disposizioni volte a consentire il ripristino possono essere contenute nello stesso corpo della sentenza con riferimento al disposto di cui all’art. 669 novies 3° co. II parte c.p.c.
Appare poi “scontata” l’ipotesi – del tutto marginale e residuale – costituita dall’omesso inizio del procedimento di merito, poiché in tale evenienza, alla parte interessata non resterà che presentare apposita istanza finalizzata a provocare la declaratoria di inefficacia della misura cautelare dinanzi allo stesso Giudice che ebbe a concederla.
10) La rinuncia agli atti e la cessazione della materia del contendere nel rito cautelare.
Premesso che l’accertamento deve essere circoscritto alla verifica della sussistenza dei presupposti idonei rispetto alla concessione della invocata cautela sotto il duplice e contestuale aspetto della ricorrenza del fumus boni juris e del periculum in mora, senza toccare le questioni involgenti giudizi in merito alla situazione sostanziale dedotta in giudizio dalle parti, si pone il problema della sorte dell’ordinanza con la quale, il giudice adito in sede cautelare abbia dichiarato la cessazione della materia del contendere.
Orbene, alla stregua del sistema del rito cautelare uniforme introdotto dalla Legge 26.11.1990 n. 353, può affermarsi che tale sistema contiene l’espressa previsione concernente la possibilità di proporre l’impugnazione tipica del rito cautelare, costituita dalla reclamabilità del provvedimento ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. Infatti, nella sede cautelare, i mutamenti sopravvenuti dello stato di fatto o di diritto possono cagionare in concreto l’eliminazione anche integrale dell’interesse della parte ricorrente a mantenere <in vita> la tutela già concessa. Disquisendo in termini tecnici, il sopravvenire di fatti o circostanze nuove che mutano sensibilmente la situazione preesistente, possono portare ad una più o meno radicale rivisitazione dell’intera “linea evolutiva di pensiero” sottostante rispetto alla valutazione circa la persistenza delle condizioni “cardine” idonee a determinare la configurazione del fumus o dello stesso periculum.
In tali condizioni, è bene precisare che l’eventuale pronuncia di cessazione della materia del contendere emessa in sede cautelare, non può essere equiparata minimamente ad una pronuncia di rigetto della domanda, difettando un accertamento di puro merito sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio dalla parte.
Sembrerebbe quindi doversi propendere per una valutazione dei fatti che, se di per sé idonei a giustificare una dichiarazione di cessazione all’interno di un giudizio di merito, in sede cautelare conducono inevitabilmente alla pronuncia di un’ordinanza di rigetto della domanda cautelare, soggetta alla disciplina dettata sia dall’art. 669 septies c.p.c., in considerazione del quale il provvedimento di rigetto per motivi diversi dall’incompetenza non preclude la riproposizione dell’istanza qualora si verifichi un successivo mutamento nelle circostanze precedentemente dedotte, oppure qualora vengano introdotte nuove ragioni in fatto od in diritto.
Tale impostazione, consente di decidere il <nodo> costituito dalla competenza a decidere sulle spese nel processo cautelare a seguito dell’intervenuta dichiarazione di cessazione della materia del contendere emessa nel corso del procedimento cautelare celebratosi ante causam.
Infatti, l’art. 669 septies 2° co. c.p.c. attribuisce al giudice della cautela la potestas decidendi sulle spese di lite nel provvedimento di rigetto della domanda cautelare proposta anteriormente rispetto all’inizio della causa di merito, laddove nel caso di omessa pronuncia, il provvedimento stesso potrà essere comunque reclamato nei termini e modi previsti dall’art. 669 terdecies c.p.c..
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