Come è noto, l’art. 3, comma I, del decreto legge, 26 aprile 1993, n. 122, così come modificato dall’art. 1 della legge, 25 giugno 1993, n. 205 in sede di conversione, stabilisce che per “i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà”.
Tale aggravante ad effetto speciale è dunque configurabile nella misura in cui il reato, ove punito con pena diversa dall’ergastolo, sia stato commesso:
-
per finalità di discriminazione;
-
per finalità di odio razziale, etnico, razziale o religioso;
-
allo scopo di agevolare l’attività di organizzazioni, associazione, movimenti o gruppi aventi, tra i loro fini, una delle finalità appena menzionate in precedenza.
Quanto al significato da conferire alla parola “discriminazione”, diverse sono le chiavi di lettura interpretativa ricavabili sia da un punto di vista ermeneutico che da quello normativo.
Ad esempio, la Cassazione penale, nell’interpretare siffatta norma giuridica, ha postulato che la discriminazione consiste “nello stesso disconoscimento d’eguaglianza, ovvero nell’affermazione d’inferiorità sociale o giuridica altrui”1.
Per converso, l’art. 1 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale di New York, ratificata in Italia con la legge, 13 ottobre 1975, n. 654, definisce “discriminazione razziale” “ogni distinzione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”.
A tal proposito, va rilevato che, secondo parte della giurisprudenza di legittimità, la nozione di discriminazione “deve essere tratta esclusivamente dalla definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione di New York del 7 marzo 1966”2.
Orbene, tale approccio argomentativo si appalesa, ad umile avviso di chi scrive, non pienamente condivisibile sicchè la norma definitoria prevista dalla Convenzione di New York contempla la sola discriminazione razziale ma non anche quella dettata per motivi etici o religiosi.
Pertanto, ben si possono percorrere altri percorsi ermeneutici volti a conferire a tale termine il significato più ampio possibile al fine di garantire che la disposizione legislativa, senza ovviamente sconfinare in inammissibili applicazioni analogiche, venga interpretata nel modo più ampio possibile.
A tal riguardo, diverse e molteplici sono le fonti del diritto attraverso cui procedere ad un’operazione ermeneutica di questo tipo.
Innanzitutto, “un ruolo decisivo ai fini della tutela dei diritti umani contro la discriminazione ha assunto il Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale nata nel 1949, autonoma dall’Unione Europa ma di cui lo Stato Italiano fa ugualmente parte: è esso che nel 1950 ha adottato la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con la l. n. 848 del 4.08.1955, la quale, all’art 14 sancisce il divieto di discriminazione con riferimento al “godimento dei diritti e delle libertà da essi riconosciuti e che a partire dal trattato di Maastricht del 1992 sull’Unione Europea, è stata riconosciuta, anche rispetto a quest’ultima, quale fonte dei principi generali nell’ambito delle materie di relativa pertinenza”3.
“È opportuno poi rammentare, tra le innumerevoli fonti internazionali la Carta di San Francisco del 26 giugno 1945, istitutiva delle Nazioni Unite (art. 1 comma 3) e la Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo, New York, 1989 (recepita con l. n. 176 del 1991 in Italia) che prevede all’art. 2, «1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza. 2. Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari»”4.
La giurisprudenza comunitaria, dal canto suo, è costante nell’affermare, in virtù di quanto sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo5, che “una differenza di trattamento è discriminatoria se non ha alcuna giustificazione obiettiva e ragionevole, cioè, se non perseguire un obiettivo legittimo o se non c’è un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito da realizzare”6.
In secondo luogo, per quanto attiene il nostro sistema costituzionale, “le norme fondamentali che nella materia in esame vengono in considerazione sono quelle poste, non dall’art. 3 Cost. che riguarda testualmente i “cittadini”, ma dall’art. 2 Cost. alla stregua del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale” e quelle dell’art 10 Cost. commi 1 e 2, afferenti, rispettivamente, al diritto consuetudinario, al quale l’ordinamento giuridico italiano deve conformarsi, e al diritto pattizio in conformità de] quale deve essere regolata la condizione giuridica dello straniero e che perciò stesso unitamente al principio di non discriminazione per motivi etnici che esso, (…) costituisce norma interposta o subcostituzionale (cfr. Corte Cost. sent. n. 348 e 349 del 2007 ma con riferimento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, in relazione all’art. 117 Cost. come riscritto nel 2001”7.
In particolar modo, come “statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza 432/2005, “il principio costituzionale di uguaglianza non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo … così da rendere legittimo … introdurre norme applicabili soltanto nei confronti di chi sia in possesso del requisito della cittadinanza – o all’inverso ne sia privo – purché tali da non compromettere l’esercizio di quei fondamentali diritti””8.
Per di più, diverse sono le norme legislative di fonte subordinata che sono state varate per reprimere, non solo a livello penale, le disparità di trattamento.
In effetti, sono rinvenibili nel nostro tessuto ordinamentale anche le seguenti statuizioni normative.
Tra queste, vi è l’art. 43 c. 1, d.lgs. 286/1998 il quale, “riprendendo la formula usata dalla Convenzione dell’OIL n. 111 del 1958”9, prevede che “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”10.
Inoltre, posto che l’art. 44, co. 8, d.lgs. 286/1998 prescrive che chiunque elude l’esecuzione dei provvedimenti emessi dal giudice, ai sensi del primo comma dell’art. 44 di questo atto normativo, per “la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione” purchè “diversi dalla condanna al risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie previste dal presente articolo e’ punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale”, è evidente che tale norma incriminatrice può essere rubricata anche in forma aggravata ai sensi della disposizione legislativa in commento.
Di talchè ne discende, come logica conseguenza, che gli strumenti normativi approntati dal legislatore per reprimere le discriminazioni non devono essere considerate necessariamente separate gli uni dagli altri ben potendo – a prescindere del tipo di rimedio legislativo e giurisdizionale di volta in volta preso in considerazione nel caso concreto – essere oggetto di valutazione unitaria.
Altra norma giuridica da considerare è l’art. 2 del decreto legislativo, 9 luglio 2003, n. 215, in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, intitolata “Nozione di discriminazione” il quale, dal canto suo, stabilisce che “per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
Inoltre, il comma terzo di questo dettato normativo statuisce che sono “altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.
Siffatta statuizione legislativa, a sua volta, è stata interpretata nel senso che, con tale regola giuridica, si può reprimere “ogni condotta umana concretamente idonea a violare la dignità della persona per ragioni razziali o etniche creando un clima intimidatorio o umiliante o offensivo nell’ambiente lavorativo”11 ivi compreso un contegno non intenzionalmente offensivo “dell’altrui dignità personale che sia però, al contempo, “produttiva” di tale “effetto” e della creazione di un clima intimidatorio o umiliante o offensivo nell’ambiente lavorativo”12.
E’ evidente dunque che il vocabolo “discriminazione”, avvalendoci anche di tali parametri normativi, ben può essere represso in sede penale al di là di quanto prefissato dall’art. 1 della Convenzione di New York potendosi intendere per tale parola qualsiasi comportamento:
– finalizzato a mettere in una condizione di svantaggio, direttamente o indirettamente, una persona a cagione della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale oppure per il fatto di professare una determinata religione o ideologia;
– con lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica anche attraverso la creazione di un clima intimidatorio o umiliante o offensivo nell’ambiente lavorativo.
Del resto, a conferma della bontà di tale tesi giuridica, milita altresì il fatto che il decreto emesso nel 1993 non era finalizzato a dare più concreta attuazione soltanto a quanto previsto da questo strumento convenzionale quanto piuttosto – come si evince dalla lettura del preambolo di questo atto normativo domestico – “allo scopo di apprestare più efficaci strumenti di prevenzione e repressione dei fenomeni di intolleranza e di violenza di matrice xenofoba e antisemita” tout court.
Quanto al termine “odio”, soccorre, per comprendere quale significato conferire a detta parola, quell’orientamento nomofilattico che, proprio a proposito dell’aggravante in commento, ha asserito che per odio deve intendersi un “pregiudizio manifesto di inferiorità”13 nel senso di un “un sentimento estremo di avversione”14 “implicante il desiderio del maggior male possibile per chi ne forma oggetto”15.
Invece, per quanto concerne l’altra condotta tipizzata nella norma in commento ossia quella consistente nell’ “agevolare l’attività di organizzazioni, associazione, movimenti o gruppi aventi, tra i loro fini, una delle finalità appena menzionate in precedenza”, si pone il problema di capire che cosa si deve intendere per “agevolazione”.
A tal proposito, si può ricorrere all’utilizzo dei criteri ermeneutici con cui la Cassazione ha trattato, per altre fattispecie giuridiche, il problema inerente il significato da dare al termine in questione.
Ad esempio, nel caso di delitti commessi per agevolare un’associazione mafiosa, è stato affermato che una condotta agevolatrice assurge rilevanza penale, ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, nella misura in cui:
– il “comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale”16 “a prescindere dalla contestazione, nei confronti del soggetto cui sia stata addebitata, di ipotesi di reato associativo”17;
– “il soggetto sia consapevole di favorire l’attività della cosca con la sua condotta”18;
– “la condotta in cui essa si concreta sia stata esercitata da un solo soggetto, non essendo necessario che essa sia tenuta da una pluralità di persone”19.
Più in generale, venendo ad analizzare l’istituto di concorso di persone nel reato, la Cassazione ha definito penalmente rilevante una condotta agevole:
-
allorquando “il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe stato ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà”20;
-
ove l’atteggiamento partecipativo “si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato”21.
Di conseguenza, si può circoscrivere il margine applicativo entro il quale può trovare applicazione l’art. 3, comma I, del decreto legge, 26 aprile 1993, n. 122, in relazione all’ultima ipotesi discriminatoria contemplata dalla norma giuridica in commento, alla luce di tali coordinate ermeneutiche.
Inoltre, altri profili di criticità applicativa investono questa disposizione legislativa al fine di stabilire come ed in che termini debbano essere configurate le condotte ivi previste.
In effetti, come dedotto puntualmente dal Tribunale di Padova in una decisione emessa il 17/02/12, (in Redazione Giuffrè 2012), dall’ “entrata in vigore della norma sostanziale in esame si sono registrati, in seno alla Suprema Corte, due indirizzi interpretativi.
Secondo un primo orientamento, peraltro definitivamente superato, ai fini della configurabilità della “finalità dì discriminazione o di odio etnico… razziale” occorre [va] che l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in altri il suddetto sentimento di odio o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori”.
In altri termini, secondo tale opzione interpretativa la sussistenza dell’aggravante avrebbe richiesto il verificarsi di una situazione di pericolo concreto di reiterazione di condotte omologhe.
L’attuale consolidato filone ermeneutico ha definitivamente abbandonato tale interpretazione, condivisibilmente escludendo dall’accertamento della sussistenza dell’aggravante l’indagine sulle conseguenze diffusive della condotta (in termini di idoneità della stessa a realizzare un rischio, o pericolo, di reiterazione di comportamenti analoghi da parte degli altri consociati).
Invero, secondo questo secondo orientamento “la circostanza aggravante della “finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è integrata quando… l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 28/01/2010, n. 11590).
In altri termini, detta aggravante risulta “configurabile quando si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza; mentre non ha rilievo la mozione soggettiva dell’agente, nè è necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, giacché ciò varrebbe a escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolga in assenza di terze persone” (cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. V, 29/10/2009 n. 49694, nonchè Cass. pen., Sez. V, 09/07/2009, n. 38597 e Cass. pen., Sez. V, Sent. 23/09/2008, n. 38591).
Secondo tale interpretazione – che risulta altresì come maggiormente aderente alla ratio legis – “la discriminazione consiste nello stesso disconoscimento d’eguaglianza, ovvero nell’affermazione d’inferiorità sociale o giuridica altrui” (così in motivazione Cass. Pen., Sez. V, 20/01/2006, n. 9381), “senza che sia ulteriormente richiesta la plateale ostentazione di una tale motivazione ed il conseguente ingenerarsi del rischio di reiterazione di analoghi comportamenti” (in questo senso, Cass. Pen., Sez. V, 11/07/2006, n. 37609)”.
Sul punto, al di là del chiaro excursus ermeneutico illustrato da questo giudice di merito, corre l’obbligo di rilevare, per dovere di completezza argomentativa, che il Supremo Consesso, nelle pronunce più recenti, ha confermato quest’ultimo approdo argomentativo sostenendo che, ai fini della sussistenza dell’aggravante de qua, è sufficiente per l’appunto che “l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità”22.
All’opposto, da un lato, non è “necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno – e quindi a suscitare – il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, anche perchè ciò comporterebbe l’irragionevole conseguenza di escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolgesse in assenza di terze persone”23, dall’altro lato, non “ha rilievo la mozione soggettiva dell’agente, considerato che l’accertamento sulla idoneità potenziale dell’azione a conseguire lo scopo discriminatorio deve essere parametrato, non già all’idoneità occasionale del fatto a conseguire ulteriore disvalore, ma al dato culturale che lo connota”24.
Difatti, il Supremo Consesso, partendo dal presupposto secondo cui la “legge Mancino del 1993 – nella dichiarata volontà di dare attuazione al menzionato art. 4 della Convenzione (così testualmente all’art. 1, comma 1) – ha voluto ampliare la gamma delle condotte fino ad allora punibili e consistenti, tra l’altro – per quanto concerne le forme attinenti alla propaganda – nella diffusione o nell’incitamento a comportamenti fondati sull’odio razziale, creando la circostanza aggravante dell’art. 3, che è contestabile in relazione alla consumazione di qualsiasi reato commesso con la detta finalità (diverso da quelli puniti con la pena dell’ergastolo) e che sia ovviamente diverso da quelli specificamente previsti come reato in sè dalla stessa Legge Mancino”25, è pervenuto alla conclusione secondo la quale deve escludersi “che costituisca elemento caratterizzante quello della diffusione dell’odio o dell’incitamento ad esso, ossia della percepibilità all’esterno della manifestazione di odio razziale o etnico o religioso dovendosi considerare che una simile accezione del precetto – oltre ad essere superflua tutte le volte in cui la diffusione o l’incitamento costituirebbero in sè reato – lo renderebbe inapplicabile ad una serie cospicua di reati (quelli cioè che si svolgono in assenza di persone diverse dall’agente e della persona offesa) senza che una simile volontà legislativa sia desumibile dalla norma, invece di amplissimo respiro, e senza oltretutto che la differenziazione possa apparire ragionevole, tenuto conto che l’odio e la discriminazione razziale ben possono connotare azioni anche gravissime che però si svolgano in un contesto privato”26.
Tale costrutto ermeneutico si appalesa condivisibile sicchè maggiormente coerente con il bene giuridico che detta norma giuridica e in generale la legge c.d. Mancino vuole tutelare ossia la dignità di ogni persona da salvaguardarsi contro qualsivoglia forma di discriminazione razziale, etnica e religiosa a sua volta precisabile “quale compromissione delle chances dell’individuo di perseguire determinati obiettivi in condizioni di parità con gli altri membri della comunità sociale”27 che, proprio in quanto tale, prescinde dal livello di diffusività della discriminazione.
Da ultimo, ad umile avviso di chi scrive, visto che le aggravanti in esame dispiegano una efficacia preventiva non dissimile da quella perseguita dal reato di “Discriminazione, odio e violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” previsto dall’art. 1 del decreto n. 122, il fatto che le pene accessorie previste dal comma 1 bis sono state fissate solo per questo illecito penale e non nel caso di reati aggravati ai sensi dell’art. 3, solleva qualche dubbio della conformità costituzionale di questa disciplina legislativa sotto il profilo della sua ragionevolezza.
Proseguendo a trattare la regola giuridica in esame, si osserva che, ai sensi dell’art. 6, co. 1, di questo decreto legge, è prevista la procedibilità d’ufficio per “i reati aggravati dalla circostanza di cui all’art. 3, comma 1” mentre, al comma 2 di questo articolo, è contemplato l’arresto facoltativo pure “quando ricorre la circostanza di cui all’art. 3, comma 1, del presente decreto, per uno dei reati previsti dai commi primo e secondo del medesimo art. 4 della legge n. 110 del 1975”.
Viene infine statuito al comma 3 dell’art. 6 che, per “i reati aggravati dalla circostanza di cui all’art. 3, comma 1, che non appartengono alla competenza della Corte di assise è competente il tribunale”.
Inoltre, l’art. 7, comma 1, dispone per un verso, che quando “si procede per un reato aggravato ai sensi dell’art. 3 o per uno dei reati previsti dall’art. 3, commi 1, lettera b ), e 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, e sussistono concreti elementi che consentono di ritenere che l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell’art. 3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa”, per altro verso, che la “richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati”.
Il provvedimento adottato dal giudicante, dal canto suo:
– è ricorribile “ai sensi del quinto comma del medesimo art. 3 della legge n. 17 del 1982”28;
– a norma del comma 2 dell’art. 7, “è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti”.
In conclusione, l’aggravante in commento rappresenta un’importante tappa normativa nella storia del nostro ordinamento penale verso la costruzione di un sistema di tutele la più completa ed efficace possibile avverso qualsivoglia discriminazione.
L’auspicio, tuttavia, è che tale percorso venga continuato al fine di approntare strumenti normativi sempre più validi ed incisivi per reprimere ogni disparità di trattamento.
1 Cass. pen., sez. V, 20/01/06, n. 9381, in D&G – Dir. e giust. 2006, 13, 79.
2 Ex plurimibus, Cass. pen., sez. V, 11/07/06, n. 37609, in Guida al diritto 2007, 1, 70 (s.m.).
3 Trib. Roma, sez. II, 6/08/12, in Redazione Giuffrè 2012.
4 P. Adami, “L’azione civile anti-discriminazione ex art. 44 T.U. immigrazione”, in Giur. merito, 03, 502.
5 Secondo il quale, come è notorio, il “godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita o ogni altra condizione”.
6 Larkos v. Cipro [GC], n. 29515 del 1995, par. 29, ECHR 1999-I.
7 Trib. Roma, sez. II, 6/08/12, in Redazione Giuffrè 2012.
8 Trib. Bergamo, 27/11/09, in Giur. merito 2010, 10, 2445.
9 P. Adami, “L’azione civile anti-discriminazione ex art. 44 T.U. immigrazione”, in Giur. merito, 03, 502.
10 Trib. Bergamo, 27/11/09, in Giur. merito 2010, 10, 2445.
11 Trib. Milano, sez. lav., 22/03/12, CTG C. Soc. Extrabanca, in Redazione Giuffrè 2012.
12 Ibidem.
13 Cass. pen., sez. II, 9/07/10, n. 28682, in Diritto & Giustizia 2010.
14 Cass. pen., sez. V, 20/01/06, n. 9381, in Riv. pen. 2007, 2, 152, Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 4, 1450 (s.m.) (nota di: FERLA).
15 Ibidem.
16 Cass. pen., sez. VI, 12/07/12, n. 31437, in CED Cass. pen. 2012.
17 Cass. pen., sez. I, 9/03/04, n. 16486, in D&G – Dir. e giust. 2004, 41, 113.
18 Cass. pen., sez. I, 8/02/11, n. 13099, in Diritto & Giustizia 2011, 20 aprile (nota di: CORRADO).
19 Cass. pen., sez. I, 13/01/09, n. 3861, in CED Cass. pen. 2009, Cass. pen. 2010, 2, 625.
20 Cass. pen., sez. IV, 27/11/12, n. 48243, in Diritto & Giustizia 2012, 14 dicembre (nota di: FOTI).
21 Cass. pen., sez. VI, 22/05/12, n. 36818, in Cass. pen. 2013, 6, 2331, CED Cass. pen. 2012.
22 Cass. pen., sez. V, 4/02/13, n. 30525, in Diritto & Giustizia 2013, 15 luglio.
23 Cass. pen., sez. V, 15/05/13, n. 25870, in Diritto & Giustizia 2013, 12 giugno.
24 Cass. pen., sez. V, 19/10/11, n. 563, in Cass. pen. 2013, 3, 1195.
25 Ibidem.
26 Ibidem.
27 M. Centini che, nell’opera “La tutela contro gli atti di discriminazione: la dignità umana tra il principio di parità di trattamento e il divieto di discriminazioni soggettive”, in Giur cost. 2007, 03, 2405, richiama a sua volta il seguente autore: A. Caputo, Discriminazioni razziali e repressione penale, in Quest. giust. 1997, 476 ss.
28 Norma giuridica questa che, dal canto suo, dispone che avverso “il provvedimento di cui al comma precedente è ammesso ricorso, anche per motivi di merito, alla Corte di cassazione, che decide, in camera di consiglio e in contraddittorio delle parti, entro dieci giorni dalla presentazione dei motivi del ricorso stesso. Il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato”.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento