Buona fede oggettiva e condizione potestativa: l’applicabilità del principio

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Il presente contributo analizza la ratio e la funzione svolta dal principio di buona fede oggettiva nelle dinamiche contrattuali e nello specifico la relazione intercorrente tra lo stesso e le tipologie di condizione esistenti e l’applicabilità o meno della finzione di avveramento ex art. 1359 c.c. in caso di condizione meramente potestativa, potestativa o mista.

Indice

1. La buona fede oggettiva


Nel nostro ordinamento giuridico, il principio della buona fede può assumere valenza oggettiva o soggettiva. La buona fede intesa in senso oggettivo, consiste in una regola di condotta che prescindendo dallo specifico contenuto del regolamento contrattuale stabilito dalle parti, obbliga le stesse a comportarsi in modo leale e corretto. Intesa in senso soggettivo, invece, la buona fede attiene alla sfera interiore di un soggetto e assume il significato di ignoranza di ledere il diritto altrui. Il principio di buon fede oggettiva abbraccia l’intero sviluppo del rapporto contrattuale. Essa, infatti, spiega effetti sin dalla fase delle trattative ex artt. 1337 e 1338 c.c. declinandosi nel dovere di informazione preventiva in merito agli aspetti rilevanti per il corretto svolgimento del rapporto contrattuale e nella specie nella corretta formazione del consenso in ordine alla ponderazione degli elementi incidenti sul rapporto contrattuale e di conseguenza sull’interesse patrimoniale e\o non patrimoniale delle parti coinvolte. Ancora, la buona fede oggettiva ricopre un ruolo fondamentale nella fase dell’esecuzione del contratto ex art. 1175 declinandosi espressamente come obbligo di correttezza che va ad aggiungersi al parametro della diligenza. Correttezza e diligenza rivestono natura adattiva in quanto, si parametrano sulla base delle specifiche del caso concreto, tenendo in considerazione le qualità e le capacità proprie della parte. La buona fede oggettiva rileva anche come criterio sussidiario e oggettivo di interpretazione del contratto ex art. 1366 c.c., quando il cui contenuto o la cui funzione rimanga incerta dopo aver fatto impiego dei criteri interpretativi principali (letteralità, sistematicità, criteri soggettivi). Per capire la ratio e la funzione svolta dal principio di buona fede oggettiva, occorre svolgere una breve analisi dell’evoluzione che ha avuto nel corso del tempo. Invero, è solo con “l’età moderna” che alla buona fede oggettiva viene riconosciuto il ruolo di fonte ulteriori di obblighi giuridicamente rilevanti ai sensi dell’art. 1173 c.c. Per molto tempo, infatti, la buona fede era considerata in senso eticizzante, assumendo esclusivamente valore di criterio valutativo ex post. Il superamento di tale concezione si ebbe con l’avvento della Costituzione e con il sovvertimento dei principi che la stessa ha comportato. Con la Costituzione, come noto, si è assistito all’evoluzione dell’ordinamento giuridico in chiave personalistica. La centralità della persona, implica l’espandersi della “tutela solidaristica” di cui il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., ne conferma la necessità. Il principio valvola della solidarietà sociale, impone ad ogni consociato di adottare un comportamento improntato alla lealtà e alla correttezza, al fine di tutelare l’interesse altrui. Ecco, allora, che la buona fede finisce per coincidere con il nucleo essenziale del principio solidaristico. Derivati specifici di tale impostazione sono, ad esempio, gli assetti normativi predisposti per la tutela dei c.d. soggetti deboli del rapporto: consumatori, investitori, risparmiatori. In particolare, si ricorda il caso della c.d. nullità selettiva in materia di ordini di investimento e violazione delle norme antitrust, ove la possibilità di selezionare la nullità degli ordini effettuati a valle venne giustificata proprio attraverso il ricorso alla buona fede oggettiva posta a tutela del soggetto debole, operando allo stesso anche in favore degli istituti di credito nel caso di abuso del diritto attraverso, appunto, l’eccezione di buona fede. Ne consegue che, come già anticipato, lealtà e correttezza si specificano in diversi ed ulteriori obblighi parametrati al caso concreto (doveri di informazioni, di verità, di trasparenza, di forma scritta, di collaborazione, divieto di abuso del diritto). Pertanto, ad oggi, si può ragionevolmente affermare che la buona fede oggettiva costituisca essa stessa regola iuris capace di generare obblighi di comportamento ulteriori, improntati al valore della lealtà e al canone della correttezza.

2. L’obbligo di collaborazione ex art. 1358 c.c.


Dall’inquadramento della buona fede oggettiva come fonte di obblighi giuridicamente rilevanti si è, quindi, diffusa l’opinione che riconosce alla stessa il ruolo di fonte di integrazione del contratto andandosi ad aggiungere a quelle espressamente previste dall’art. 1374 c.c. (…a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi o l’equità). Tale funzione, come già anticipato, in raccordo con il principio solidaristico, consente la generazione di regole di condotta cui le parti devono attenersi (si pensi al potere del giudice di ridurre la penale). Tra questi obblighi, ai fini del presente lavoro, si deve porre l’attenzione verso la collaborazione. L’obbligo di collaborazione è funzionale alla salvaguardia dell’interesse patrimoniale e\o non patrimoniale altrui ex art. 1174 c.c. ma, proprio in virtù del principio solidaristico, questo deve essere adempiuto nei limiti in cui non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio. L’obbligo di collaborazione rappresenta la specificazione del principio di buona fede oggettiva che regola il comportamento delle parti durante la fase di pendenza della condizione ex art. 1358 c.c.. Nella fase di pendenza della condizione, tale disposizione impone a colui che “si è obbligato o ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva” e a colui che “lo ha acquistato sotto condizione risolutiva” di comportarsi secondo buona fede “per conservare integre le ragioni dell’altra parte”. In particolare, nel caso della condizione risolutiva, dove l’avveramento della condizione comporta l’inefficacia ex tunc del contratto, il soggetto passivo, titolare della situazione giuridica originaria, è chiamato a tollerare gli eventuali strumenti conservativi utilizzati dal soggetto attivo. Nel caso della condizione sospensiva, invece, dove la produzione degli effetti dipende dall’avveramento della condizione, la buona fede si traduce nell’obbligo del soggetto passivo di tutelare l’aspettativa di cui è titolare il soggetto attivo. Ciò che rileva è che, sia nella condizione risolutiva, che nella condizione sospensiva, la buona fede oggettiva è rivolta a tutelare lo stato di incertezza che costituisce l’animus fondante della condizione. Pertanto, la buona fede oggettiva impone a ciascuna parte di non adottare comportamenti manipolativi capaci di incidere e falsificare il naturale e normale evolversi dell’evento oggetto della condizione. Questo non vuol dire che alle parti sia richiesto di attivarsi positivamente al fine di favorire l’avverarsi della condizione ma, semplicemente non devono tenere comportamenti ostruzionistici o comunque in grado di alterare lo stato di incertezza. In altre parole, ciascuna parte deve comportarsi lealmente e correttamente, collaborando per la tutela delle reciproche aspettative in ordine agli effetti dipendenti dall’avveramento o dal mancato avveramento della condizione. Ciò che l’ordinamento tutela, infatti, non è la realizzazione dell’evento oggetto della condizione ma, solo la possibilità che questo si verifichi rispettando lo stato di incertezza. La tutela dell’aspettativa si sostanzia, quindi, nella possibilità di compiere atti conservativi e nel rispetto della buona fede in capo a chi si trovi ad avere un interesse contrario all’avveramento della condizione.

3. Buona fede e finzione di avveramento


All’inadempimento dell’obbligo di buona fede, l’ordinamento reagisce con un particolare mezzo di tutela: la finzione di avveramento ex art. 1359 c.c. Secondo tale norma, quando la parte che aveva interesse contrario all’avveramento della condizione, colposamente o dolosamente (la norma parla di imputabilità), venendo meno agli obblighi di lealtà e correttezza, determini il mancato avveramento della condizione, l’ordinamento reagisce attraverso una fictio iuris, considerando la condizione come avvenuta. La ratio della finzione di avveramento si fonda sul principio solidaristico di cui la buona fede è diretta espressione e la sua funzione è quella di tutelare la parte debole del rapporto. Pertanto, essendo la funzione della finzione di avveramento di stampo garantista, la stessa non può inquadrarsi in un strumento propriamente sanzionatorio. Proprio in considerazione della funzione di protezione assolta dalla finzione di avveramento, quest’ultima è ritenuta pacificamente ammessa in caso di condizione meramente potestativa. Orbene, come noto, la condizione si considera come meramente potestativa quando il suo avveramento o meno dipendono esclusivamente dall’arbitrio delle parti e in tal caso l’ordinamento già reagisce con la “sanzione” della nullità. L’applicazione della finzione di avveramento, quindi, avviene quando le parti facciano abuso della condizione potestativa (quest’ultima legittima) tanto da concretizzarsi sostanzialmente in una condizione dl tipo meramente potestativa[1].
Questione dibattuta è se si possa applicare la finzione di avveramento nel caso di condizione potestativa (che dipende dalla volontà delle parti) e nel caso di condizione mista (che dipende sia dal comportamento di una parte, che da un fattore esterno). Con riferimento alla condizione potestativa, l’orientamento maggioritario ne esclude l’applicabilità in quanto, vi sarebbe incompatibilità con la libertà di cui gode la parte in ordine al verificarsi o meno dell’evento oggetto della condizione. Una soluzione diversa potrebbe pervenire estendendo la stessa logica applicata in caso di condizione mista. Si è, infatti, diffuso l’orientamento che rende applicabile la finzione di avveramento nel caso di condizione mista quando, si accerti che in assenza del comportamento contrario a buona fede, tenuto colposamente o dolosamente dalla parte avente interesse contrario all’avveramento, la condizione si sarebbe avverata. Tuttavia, quando l’evento oggetto della condizione consista nell’emanazione di un provvedimento amministrativo l’applicazione del rimedio della finzione di avveramento risulta problematica. Risultano fortemente limitativi i caratteri propri del provvedimento amministrativo, l’esercizio stesso del potere autoritativo, il principio di legalità e la separazione stessa dei poteri che vede camminare su due rette parallele la funzione esercita dal giudice ordinario e quella esercitata dal giudice amministrativo. Infatti, il giudice ordinario non ha il potere di condannare la P.A. ad un fare specifico (fatta eccezione per materie specifiche come in tema di sanzioni). Inoltre, in assenza dei requisiti legali alcun provvedimento può essere emanato.

4. Conclusioni


La mancata applicazione del rimedio della finzione di avveramento nei casi di condizione potestativa o mista quando l’oggetto della condizione sia rappresentato da un provvedimento amministrativo, non implica il mancato operare del principio di buona fede ex art. 1358 c.c. Rilevante sul punto è la sentenza della Cassazione resa a Sezioni Unite n. 18450 del 2005 ove la Corte ha espressamente riconosciuto l’operare dell’obbligo di buona fede in ordine all’elemento potestativo della condizione mista. Considerato tale approdo giurisprudenziale, diventa quasi retorico, affermare che sia ragionevole fare applicazione del principio di buona fede anche con riferimento alla condizione potestativa. Infatti, la circostanza che l’avveramento della condizione dipenda dalla volontà (esclusiva o concorrente) di una parte, alla luce del principio di solidarietà sociale e art. 2 Cost. non può certamente comportare l’esenzione dai doveri di lealtà e correttezza cui l’autonomia privata è soggetta.

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Francesca Fuscaldo

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