La buona fede anima l’intero sistema giuridico. Questa è posta a tutela dei rapporti giuridici per il corretto svolgimento delle attività dei privati. Canone generale per ogni tipo di attività, il principio è ritenuto di particolare importanza per la conclusione di un accordo o per il rispetto delle parti.
L’articolo 1337 del codice civile dispone che: “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.
Indice
1. L’evoluzione storica del principio di buona fede
Storicamente, già, diritto romano troviamo evidenziata l’importanza della bona fides nei richiamati rapporti. Questa nel pensiero dei giuristi indica un comportamento corretto nei confronti di un accordo, e di non ledere un diritto altrui. La buna fede assume cosi il volto delle actiones bonae fidei consentendo al giudice, un largo margine di discrezionalità nel ponderare le ragioni dell’attore e del convenuto.
Gli studi in materia confermano che:” la fides, virtù caratteristica della vita sociale romana, ha rilievo giuridico fin dai primi tempi di Roma, nel senso che incorre in sanzioni chi venga meno ai doveri che essa talvolta impone. Chi giura deve rispettare la fides. Il patrono deve fides al cliente. Il tutore al pupillo. C’è un negozio la fiducia, impostato sulla fides che una parte deve all’altra. In tutti questi casi, la violazione della fides è punita come un delitto. Le sanzioni sono in parte di diritto sacro, in parte di diritto profano[1]”. L’impostazione trova conferma nella realtà giuridica odierna, nella quale il principio è stato accolto e richiamato nella sistemazione positiva.
Chiarita l’evoluzione storica della norma, si osserva come dai doveri di buona fede e correttezza sorge l’obbligo al rispetto di quanto questi contengono. Secondo l’articolo 1176 c.c, tali parametri sono presenti in tutte le fasi del rapporto obbligatorio.
I richiamati principi, oltre che nelle trattative e nella conclusione del contratto, operano anche in sede di esecuzione dello stesso. L’articolo 1375 c.c dispone che: ”il contratto dev’essere eseguito secondo buona fede”. In relazione a ciò, la dottrina giuridica conferma che: ”la regola rappresenta la proiezione, nell’attuazione della vicenda contrattuale, di un principio generale dell’ordinamento tendente a realizzare la cooperazione nell’obbligazione.[2]”
Quanto esposto, oltre alle richiamate ipotesi, emerge anche negli altri settori dell’agere privatistico, come ad esempio negli effetti dell’annullamento del contratto rispetto ai terzi (art.1445 c.c), negli obblighi dell’erede del depositario (art.1776 c.c), nella buona fede del compratore ( 1479 c.c), e nel pagamento al creditore apparente (1189 c.c) uniformando l’intero sistema.
La buona fede opera, anche, nei contratti del consumatore vigilando come clausola generale sulla corretta formazione del synallagma.
In conseguenza di ciò, chiunque intenda gestire una comune operazione giuridica è tenuto al rispetto di quanto osservato. Nelle ipotesi in cui ciò non si verifichi, si concretizza la formazione di un inadempimento generativo di una responsabilità, precontrattuale o contrattuale, a seconda del grado di perfezione o meno dell’accordo.
Oltre a questa anche altri principi rilevano nella realtà civilistica, come quello di uguaglianza, espresso dall’articolo 2 del dettato costituzionale e quello del legittimo affidamento riguardante l’azione contrattuale, e molti altri. Non sfugge all’attenzione dei Costituenti, la regolazione della proprietà, sorretta dal principio solidaristico e dalla funzione sociale della stessa (art.42 Cost.).
Tali principi disciplinano e dirigono la realtà giuridica ed istituzionale della collettività.
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2. Il principio nell’attività amministrativa
Per quanto richiamato, si osserva come la buona fede è presente anche nei diversi ambiti del diritto amministrativo. Introdotta dal legislatore questa vige in moltissime norme della materia, come ad esempio in quelle sul procedimento amministrativo o sui contratti pubblici.
Il processo che ha portato a tale introduzione prende le mosse, dalla seconda meta degli anni Sessanta del secolo scorso, in cui il diritto civile ha visto sempre più il proprio affermarsi nell’azione amministrativa.
Gli studi in materia osservano che: “consegue per quanto ora detto che agli enti pubblici non è interdetta l’attività di diritto privato, cioè lo svolgimento di un’attività governata dai principi enunciati nel codice civile. Deve anzi aggiungersi che l’utilizzazione del diritto privato da parte della P.A è molto più ampia di quanto comunemente si creda. Basti pensare all’area dei servizi pubblici in continua espansione.”[3].
L’articolo 1 bis della L.241/1990 dispone che: “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Ciò ha trovato conferma nell’articolo 2 bis della citata fonte, introdotto dall’articolo 12 D.L 16 luglio 2020 numero 78, convertito in L.11 settembre 2020, n. 120, il quale dispone che:” i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede”.
Per quanto esposto, la buona fede quale modello di riferimento civilistico, è stata evidenziata nel procedimento amministrativo, allargando il proprio raggio di azione.
Nella medesima legge, il principio opera anche per ciò che riguarda l’onere dell’amministrazione procedente di comunicare i motivi ostativi alle istanze dell’interessato. Ciò è espresso nell’articolo 10 bis della Legge del 7 agosto 1990 n.241 il quale dispone che: “nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti…”. Scopo della norma è favorire il contraddittorio tra le parti, giungendo all’elaborazione di una soluzione che tenga conto di tutti gli interessi.
Discorso analogo, seppur in differenti ambiti, lo si evince nel codice dei contratti pubblici in cui trova sede il citato principio affiancato da quello dell’affidamento, quale criterio guida dell’azione contrattuale. L’articolo 5 D.L.G.S 36/2023 dispone che: “nella procedura di gara le stazioni appaltanti, gli enti concedenti e gli operatori economici si comportano reciprocamente nel rispetto dei principi di buona fede e di tutela dell’affidamento».
Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 29 novembre 2023 numero 10244, ha disposto che: “sebbene la buona fede trovi il proprio terreno di elezione nel diritto civile, in particolare nella materia delle obbligazioni, il principio in esame permea anche il diritto amministrativo non soltanto quando l’Amministrazione opera jure privatorum, ma anche quando pone in essere la sua attività tipicamente autoritativa”.
La buona fede, nel rapporto giuridico, è armonizzata dai principi di buon andamento, efficienza, e trasparenza dell’azione amministrativa, richiamati nell’articolo 97 della Carta costituzionale.
3. Le osservazioni conclusive
In conclusione è opportuno osservare come la buona fede anima l’intera realtà giuridica. Dal diritto privato ai rapporti di diritto amministrativo, questa regola le comuni attività delle parti.
Gli studi, l’evoluzione storica e la giurisprudenza hanno approfondito l’ambito di applicazione del principio, in virtù dell’utilità che può portare all’attività amministrativa, sempre, più vicina alle istanze della collettività.
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