Capacità di reinserimento delle vittime di estorsione e di usura

La valutazione sulla capacità di reinserimento delle vittime di estorsione e di usura e rilevanza dell’interdittiva antimafia

Indice

1. Le verifiche istruttorie per l’accertamento dei presupposti legittimanti l’accesso al Fondo di rotazione

Tra gli adempimenti procedurali più delicati e complessi, nell’istruttoria relativa alle istanze di accesso al Fondo di rotazione – per la concessione dei benefici economici previsti dalle leggi n.108/1996 e n.44/1999, a favore delle vittime di estorsione e di usura – vi sono indubbiamente quelli riguardanti la sussistenza o meno di condizioni ostative.
         In proposito, la verifica istruttoria espletata nell’ambito del procedimento amministrativo è diretta ad accertare gli elementi di pregiudizio che emergano nei confronti degli istanti, sia in sede di concessione sia, successivamente, in sede di riesame ai fini dell’eventuale revoca dei benefici economici concessi.
         L’art. 14, comma 5, della legge n. 108/96 prevede che “ La domanda di concessione del mutuo….deve essere corredata da un piano di investimento e utilizzo delle somme richieste che risponda alla finalità di reinserimento della vittima del delitto di usura nella economia legale”.
         L’art.15, commi 2 e 3, della legge n.44/1999 prevede l’onere, per il beneficiario dell’elargizione, di dimostrare il corretto reimpiego delle somme ottenute in attività economica di tipo imprenditoriale.
In entrambi i casi, a tali previsioni necessariamente corrisponde il dovere dell’Amministrazione di disporre, anche in via preventiva, specifici accertamenti al riguardo, che possono concludersi con una valutazione di non meritevolezza proprio in relazione alla concreta possibilità per la vittima di utilizzare l’importo ottenuto in maniera proficua, riprendendo l’attività economica.     
Quanto sopra in considerazione, peraltro, della discrezionalità riconosciuta all’Amministrazione, anche dalla Giurisprudenza amministrativa, sulla valutazione della capacità di reinserimento nell’economia legale.
Si richiama, al riguardo, una significativa pronuncia del Consiglio di Stato – Sezione Sesta – n.1025/07, depositata il 3 marzo 2007, quindi antecedente alla riforma introdotta dalla legge n. 3 /2012 – che ha poi espressamente disciplinato ipotesi di sospensione – nella quale si afferma  che l’Amministrazione, nell’adottare un provvedimento di sospensione del procedimento amministrativo, aveva utilizzato “il generale potere cautelare di sospensione dell’efficacia dei propri provvedimenti (bloccando temporaneamente il corso del procedimento amministrativo) per assicurare la corretta gestione del Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura….. La domanda risarcitoria azionata (relativa all’anticipazione) doveva, invece, essere disattesa per l’evidente impossibilità, allo stato…..di valutare (con giudizio prognostico) la spettanza alla parte ricorrente del bene finale della vita relativo all’azionato interesse legittimo.”
La giurisprudenza ha da tempo affermato che, accanto alle ipotesi tassative che precludono in radice (per mancanza dei requisiti soggettivi contemplati dalla legge) la concessione del mutuo, il quinto comma dell’art.14 della legge 108/1996 conferisce al Commissario Straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura e al Comitato di solidarietà per le vittime dell’estorsione e dell’usura il potere discrezionale di adottare un provvedimento di diniego del mutuo nell’ipotesi in cui l’istanza sia corredata da un piano di investimento e utilizzo delle somme richieste che( alla luce dei necessari propedeutici accertamenti istruttori) non risulti realmente rispondente alla dichiarata finalità di reinserimento nell’economia legale (TAR Puglia – Sentenza n. 3606/05 – 22 giugno 2005).
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2. La revoca dei benefici economici concessi a seguito dell’accertata incapacità di ripresa dell’attività economica nel circuito legale

Il mancato raggiungimento della finalità di ripresa dell’attività economica nel circuito legale è stato, dunque, considerato legittimo motivo di revoca del mutuo ai sensi dell’art.14, comma 9 lett. b), della legge n.108/96, del mutuo già erogato.
Per realizzare tale finalità la legge, data la presumibile situazione economica delle vittime, non richiede, ovviamente, forme di garanzia patrimoniale, ma subordina la concessione ad altre forme di garanzia, basate sulla prevedibile vitalità della loro attività economica che possa far ritenere possibile, in base a concreti riscontri, tale reinserimento nell’economia legale, con conseguente restituzione del mutuo.
Pertanto, quando il raggiungimento di tale finalità non appare possibile, l’erogazione del mutuo deve ritenersi illegittima per violazione della norma citata, ad esempio, nell’ipotesi in cui la pesante posizione debitoria dell’interessato lo graverebbe di ulteriori debiti, per cui difficilmente sarebbe in grado di restituire la somma eventualmente concessa con il mutuo (in tal senso TAR del Lazio – Sentenza 495/2005 – 21 gennaio 2005).
Va ricordato, al riguardo, che proprio la citata legge n. 3/2012 ha previsto ulteriori condizioni ostative, in particolare per il soggetto dichiarato fallito, che risulti condannato per delitti contro il patrimonio o anche solo “indagato o imputato per delitti contro il patrimonio, l’economia pubblica, l’industria e il commercio (…) In tale ultimo caso la concessione dell’elargizione non è consentita e, ove sia stata disposta, è sospesa fino all’esito dei relativi procedimenti”.
Con specifico riferimento alla concessione dell’elargizione, ai sensi dell’art. 3, comma 1 bis, della legge n.44/1999, introdotto dalla legge n.3/2012, la sentenza di condanna in primo grado per uno dei citati reati costituisce motivo ostativo, in base al principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, non richiedendo espressamente la citata norma la definitività della condanna.
Infatti, laddove il legislatore ha ritenuto di distinguere gli effetti della condanna di primo grado da quelli della condanna definitiva, lo ha esplicitato come, ad esempio, all’art. 14, comma 2 bis, della legge n. 108/1996, introdotto dalla legge n.3/2012, che prevede la possibilità di accedere al mutuo anche ai soggetti dichiarati falliti, purché non condannati in via definitiva per i reati previsti dagli artt. 216 e 217 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero per delitti contro il patrimonio, l’economia pubblica, l’industria e il commercio.
E’ anche comprensibile la ratio giustificatrice della distinzione ai danni del soggetto che aspira all’elargizione rispetto a quello che aspira al mutuo.  La ragione di tale difformità di trattamento è da individuare nella diversa natura dei due benefici; per le sole provvidenze a favore delle vittime di usura vige l’obbligo di restituzione, non previsto per i benefici a favore delle vittime di estorsione, per i quali ultimi la disposizione è pertanto  improntata a maggior rigore.
Tuttavia, resta fermo, sia per il mutuo che per l’elargizione, il vincolo di destinazione delle somme ottenute dai beneficiari, espressamente previsto, per le vittime di estorsione, dall’art.15 della legge n.44/1999, che, al successivo art. 16, comma 1 lett. a), stabilisce che “la concessione dell’elargizione è revocata: a) se l’interessato non fornisce la prova relativa alla destinazione delle somme già corrisposte” in attività economiche di tipo imprenditoriale.

3. Incidenza dell’interdittiva antimafia in sede di rivalutazione della posizione soggettiva del beneficiario

In sede di riesame della posizione soggettiva del beneficiario, occorre prendere in considerazione non solo le eventuali condanne riportate (per i reati cui consegue ipso jure la sussistenza di condizioni ostative), ma anche ulteriori elementi che emergono nei casi specifici dalle interdittive antimafia, che assumono significativa rilevanza ai fini della valutazione della capacità di reinserimento nell’economia legale.
         Tale orientamento interpretativo ed applicativo è in linea con la giurisprudenza amministrativa. Appaiono significative, al riguardo, le ordinanze n. 2269/2017 e n. 2270/2017, con le quali il TAR Lazio -Sezione Prima Ter- aveva respinto l’istanza cautelare, proposta dai ricorrenti avverso i provvedimenti di revoca delle elargizioni a suo tempo concesse, ai sensi della legge n.44/1999, proprio per gli esiti negativi della rivalutazione della posizione soggettiva dei richiedenti l’accesso al Fondo.
         In particolare, erano emerse contiguità economiche fra taluni imprenditori ed una organizzazione mafiosa, oltreché una notevole capacità di penetrazione del sodalizio criminale nei contesti più elevati della politica e delle istituzioni locali, asservite alle logiche affaristiche della malavita locale in cambio di consistenti dazioni corruttive.
         Gli scenari ricostruiti all’esito dell’attività investigativa avevano evidenziato come alcuni imprenditori erano risultati non certo vittime del clan, quanto piuttosto, in un rapporto di reciproca convenienza, avendo assicurato un contributo rilevante al perseguimento dei fini associativi.
         Inoltre, erano stati ricostruiti singoli episodi corruttivi nonché assegnazioni “pilotate” di ingenti appalti in favore di imprese riconducibili al gruppo imprenditoriale interessato.
         Alcune presunte vittime, già gravate da provvedimenti interdittivi, avevano utilizzato lo strumento della denuncia per assicurarsi “onorabilità” e“nuova credibilità”.
         Sempre nel perseguimento del medesimo obiettivo, gli interessati tentavano di coinvolgere soggetti potenzialmente in grado di “modificare” il provvedimento interdittivo, cercando anche di incidere sull’andamento del contenzioso amministrativo relativo alla misura interdittiva, attraverso influenti conoscenze politiche.
         Dagli accertamenti esperiti, risultava la sussistenza di un sistema consolidato e radicato, in cui gli imprenditori concorrevano in maniera consistente al mantenimento del gruppo criminale grazie alle tangenti commisurate ai lavori ottenuti. Non si trattava, però, di una tangente “tipica” quanto piuttosto di una sorta di corrispettivo che l’imprenditore versava al clan in cambio dell’aggiudicazione dei lavori, della protezione del cantiere e della diretta mediazione con il clan del luogo ove i lavori venivano realizzati.
         Gli esiti delle risultanze istruttorie, investigative e processuali avevano fatto rilevare un quadro indiziario complessivo dal quale emergevano idonei, plurimi e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni con la locale criminalità organizzata tali da condizionare le scelte dell’impresa in questione.
         Il provvedimento interdittivo faceva peraltro riferimento ad una Ordinanza di Custodia Cautelare dalla quale emergevano informazioni inerenti la familiarità e l’assiduità dei rapporti intercorsi tra gli imprenditori e soggetti appartenenti ad associazione mafiosa.
         In particolare, il TAR aveva sottolineato che il provvedimento di revoca appariva “prima facie, adeguatamente motivato con riferimento alle circostanze che emergono dall’interdittiva antimafia emessa nei confronti della società di cui è socio il ricorrente, quali l’acquisizione di ramo di azienda facente capo a soggetto coinvolto in procedimenti penali per associazione di stampo camorristico”.
         A conferma del suesposto orientamento, con una più recente pronuncia n. 5761 del TAR Lazio – Sezione Prima Stralcio – pubblicata il 9/5/2022, è stato respinto il ricorso avverso il decreto commissariale di revoca dell’elargizione.
Il provvedimento era stato adottato ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. b), della legge n. 44/99, secondo cui la concessione dell’elargizione è revocata «… se si accerta l’insussistenza dei presupposti dell’elargizione medesima …».
         Il decreto e la conseguente richiesta di restituzione delle elargizioni ricevute si basavano, in definitiva, sulla valutazione compiuta dal Commissario Straordinario Antiracket del venir meno dei presupposti per la concessione dell’elargizione – e in particolare il requisito di essere “vittima di estorsione” – a seguito delle circostanze di fatto emerse nell’istruttoria conclusa con le interdittive antimafia emesse dalle competenti Prefetture.
         Nel caso in questione, il ricorrente aveva ceduto il ramo di azienda e la vicenda traslativa di cessione o di affitto dell’azienda o di un suo ramo,  se di per sé costituisce senz’altro un’ordinaria operazione commerciale – che comporta una successione a titolo particolare nelle posizioni attive e passive relative all’azienda tra soggetti che conservano la loro distinta personalità giuridica – poteva, secondo l’adito Giudice Amministrativo, ragionevolmente presentare elementi indiziari di un’intestazione fittizia della gestione imprenditoriale finalizzata ad eludere le verifiche antimafia, ove ad essa si accompagnino circostanze specifiche.
         Tenuto conto del complesso degli elementi considerati a riprova della fitta rete di intrecci tra il ricorrente e soggetti appartenenti ad organizzazione criminosa, acclarato dal Consiglio di Stato, il Collegio ha ritenuto che l’Amministrazione abbia correttamente esercitato il proprio potere discrezionale nella valutazione del ruolo del ricorrente, tale da giustificare la doverosa revoca del contributo, assolvendo adeguatamente ai doveri di motivazione.
Il TAR afferma che “nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la regola, almeno tendenziale, è quella dell’autonomia e della separazione, fermo il disposto di cui all’art. 654 c.p.p. secondo cui il giudicato penale non determina un vincolo assoluto all’amministrazione per l’accertamento dei fatti rilevanti (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 1350/2021)”.
Da tale assunto l’adito giudice trae la conseguenza che la valutazione circa il venir meno del presupposto di “vittima” può essere valutato dall’Amministrazione a prescindere dal ruolo che il soggetto rivesta nel procedimento penale, andando a colpire situazioni di connivenza senza che queste abbiano necessariamente una rilevanza penalmente apprezzabile, in considerazione del fatto “che la criminalità organizzata di matrice mafiosa non si avvale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa” (TAR Lombardia, sez.I, del 06/07/2020, n. 1284).
Gli elementi da cui si può evincere il condizionamento mafioso non  costituiscono un numerus clausus, ma assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza del fenomeno mafioso, ad un rigido inquadramento.
L’interdittiva prefettizia antimafia, infatti, integra, secondo una logica di anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e degli altri interessi pubblici primari, una misura preventiva, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata, impedendole di avere rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione.
Quindi, proprio per il suo carattere preventivo, essa prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la Pubblica amministrazione e si basa sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia e analizzati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente, la cui valutazione costituisce espressione di discrezionalità, che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.
Assume estrema rilevanza, in proposito, sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale, il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione “parcellizzata” di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri.
Con riferimento alla consistenza del quadro indiziario rilevante dell’infiltrazione mafiosa, la giurisprudenza precisa che esso deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non” ( cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cassazione civile, sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona.
La revoca dell’elargizione e la conseguente richiesta di restituzione trova infatti, nel caso di specie, il suo presupposto normativo nel richiamato art. 16 della legge n.44/1999, che si pone come lex specialis rispetto alla revoca prevista dall’art.21 quinquies della legge n.241/1990, con riferimento alla quale non è previsto limite temporale per l’adozione del provvedimento.
         La revoca ex art. 21 quinquies della legge n. 241/90 s.m.i. è un atto di autotutela decisoria, con effetti caducatori ex nunc, attraverso il quale l’Amministrazione persegue l’interesse pubblico primario ricomparando gli interessi pubblici e quelli privati coinvolti dall’azione amministrativa ed esternando le ragioni che, all’esito di tale ricomparazione, inducono a eliminare o riformare il provvedimento originariamente adottato (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, sent. n. 2999/2015).
La revoca dei contributi e finanziamenti – erogati dalla Pubblica Amministrazione allo scopo di consentire la prosecuzione dell’attività economica che ha subito eventi delittuosi indicati dalla legge (artt.3 e 15 della legge n.44/1999 e art. 14 della legge n.108/1996) – si pone invece come atto dovuto e vincolato, non potendo consentirsi a chi non rivesta la qualifica richiesta dalla legge e anzi risulti intrattenere rapporti con la criminalità né la prosecuzione di detta attività né di conservare elargizioni ottenute in virtù di un asserito “danno” rivelatosi ex post inesistente.
Occorre precisare che la  revoca del beneficio economico – così come disciplinata dall’art. 16, comma 1, lett. b) della citata legge n.44/1999 e dall’art.14, comma 9, lett. b), della legge 108/96 – non consegue ad un riesame in autotutela dell’Amministrazione, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per il mutamento della situazione di fatto o a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, bensì, unicamente, all’esito negativo della verifica circa la permanenza dei presupposti legittimanti l’accesso al Fondo di rotazione, effettuata successivamente alla sua concessione.
Nell’ipotesi di riscontrata carenza dei presupposti dell’elargizione, deve ritenersi che venga meno il titolo costitutivo dell’assunzione dell’obbligazione indennitaria in capo all’Amministrazione, senza che, per quanto sopra esposto, possa assumere alcuna rilevanza l’esigenza di tutela dell’affidamento del beneficiario, rappresentando il recupero delle somme indebitamente corrisposte il risultato di attività amministrativa priva di valenza provvedimentale.
La ripetibilità delle somme concesse viene, del resto, regolarmente contemplata già dal decreto attributivo del beneficio, nella parte in cui si fa “salva la possibilità dell’Amministrazione di procedere alla revoca dell’elargizione nei casi previsti dall’art. 16 della legge 44/99” ovvero “nei casi previsti dall’art. 14, comma 9, della legge 108/96”.
La norma non attribuisce, quindi, alcun rilievo al profilo della buona fede, essendo espressamente disciplinati i casi in cui l’Amministrazione accerti, nel prosieguo, la permanenza o meno delle condizioni legittimanti l’accesso al Fondo, per l’adozione del conseguente provvedimento di revoca.

>>>Per approfondire<<<
Nella prima parte con la premessa che la “cultura della corruzione” si alimenta all’interno del proprio Io divenendo uno status personale in cui si genera una cultura di pigmeizzazione con la contrapposizione della forza del denaro e della debolezza dell’animo, sono esaminati i cambiamenti dei costumi che generano il danno sociale e il danno morale.

FORMATO CARTACEO

L’etica e la pubblica amministrazione

Nella prima parte con la premessa che la “cultura della corruzione” si alimenta all’interno del proprio Io divenendo uno status personale in cui si genera una cultura di pigmeizzazione con la contrapposizione della forza del denaro e della debolezza dell’animo, sono esaminati i cambiamenti dei costumi che generano il danno sociale e il danno morale. Da questi elementi viene meno la fiducia che si trasforma in delusione, crea malcontento, si riflette negativamente sul senso civico, favorisce la corruzione, allenta o fa venire meno il senso di appartenenza alla Repubblica alimentando comportamenti contrari all’etica. E allora è necessario promuovere l’etica quale strumento di consapevolezza per ritrovare l’Io smarrito, la dignità della propria coscienza, sì da ridare concretamente alla pubblica amministrazione, per ricostruire la sua immagine di affidabilità e integrità degna di fiducia, ai fini della coesione sociale, il suo naturale valore orientato al “buon andamento e all’integrità”. A tal fine è tracciato il percorso per trovare, all’interno di un metaforico “giardino dell’etica”, le dimensioni fondamentali, ossia i valori su cui costruire, edificare un comportamento per ricostruire la “fede etica”. Nella seconda parte, dopo aver tratteggiato il quadro normativo che ha delineato il nuovo “illuminismo” della pubblica amministrazione evidenziando i principi ad essa correlati, sono esaminati ii nuovi strumenti operativi di prevenzione della corruzione di cui alla L. 190/2012 orientati nella direzione dell’etica pubblica che rappresenta la chiave di volta del buon governo che, sul piano ordinamentale, trova nel Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza il suo custode. Nelle riflessioni conclusive è evidenziato il dubbio che gli strumenti preventivi anche alla luce dei ripetuti fatti “corruttivi”, non siano sufficienti a sconfiggere la mala administration perché si è inteso fare uso di formule stereotipate che mirano più a colpire l’attenzione che argomentare, alimentando un indefinito nichilismo all’interno delle amministrazioni. Nichilismo che va ad incidere negativamente sui comportamenti, sulle abitudini e, di riflesso, sulle decisioni della stessa amministrazione che subisce anche un agire difensivo, facendo riaffiorare, come un fiume carsico la corruzione che non è sconfitta. La speranza è che “insieme ce la faremo”, e ciò si potrà inverare quando il funzionario pubblico, (ri)conquistata la sua essenza genuina, la sua integrità, ridando dignità alla propria coscienza non più mortificata da alcun condizionamento esterno nell’esplicazione dei suoi compiti, sarà in grado di poter contribuire alla missione della propria amministrazione attraverso un consapevole orientamento delle sue scelte e della sua condotta irradiate dalla “stella polare” dell’etica, così che l’agire dell’amministrazione possa essere (ri)condotto nel perimetro della legalità. Nessuno, questo è il messaggio conclusivo, deve perdere la fiducia.   Vito Quintalianiè stato Vice Direttore degli Istituti di Prevenzione e Pena svolgendo il servizio presso la Casa Circondariale di Bologna per poi prestare servizio, dal 1° agosto 1980 fino al 30 giugno 2019 data di collocamento in quiescenza, presso l’Università degli Studi di Perugia ricoprendo vari incarichi tra i quali, nell’ultimo periodo quello di Responsabile dell’Area Affari Giudici e Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza. È autore di diversi articoli su temi della Contrattualistica pubblica, dell’organizzazione pubblica. È Docente in corsi di formazione presso Università italiane. È iscritto all’albo Commissari di gara (ANAC) e nell’elenco Organismo indipendente di valutazione (Dipartimento Funzione Pubblica).

Vito Quintaliani | Maggioli Editore 2021

Dott.ssa Letizia Miglio

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