Caso Drassich 2: differenza tra riqualificazione del fatto-reato e riconsiderazione dell’addebito

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Caso Drassich 2: La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 22 febbraio 2018, il diritto sancito dall’art. 6 CEDU ad un esercizio concreto ed effettivo della propria difesa e la differenza tra riqualificazione del fatto-reato e riconsiderazione dell’addebito

Breve introduzione

Il giorno 22 febbraio 2018 è stata emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[1] la decisione conclusiva del ricorso n. 65173/09, promosso contro la Repubblica italiana – per la seconda volta, dopo un primo ricorso già presentato nel 2004, esitato poi nell’emanazione da parte della Corte di Strasburgo della nota sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia (n. 1) – dal signor ************** ed avente ad oggetto l’ulteriore, riproposta violazione del proprio diritto soggettivo ad un equo processo, così come previsto dall’art. 6 della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in poi, CEDU), firmata per la prima volta a Roma nel 1950 e successivamente modificata grazie ai vari protocolli emendativi che sono intervenuti, nel corso del tempo, tra le Alte Parti contraenti.

La recente sentenza della Corte EDU, che ha finito per respingere il ricorso promosso dall’ex-giudice fallimentare del Tribunale di Pordenone, si rivela invero un valido spunto per compiere una più ampia riflessione sul tema del rapporto tra riqualificazione del fatto-reato (operazione squisitamente ermeneutica, che si estrinseca nel ricondurre la fattispecie concreta nell’alveo di una differente norma incriminatrice, ma che purtuttavia non fa acquisire al fatto una connotazione diversa per quel che concerne i suoi elementi essenziali) e riconsiderazione dell’addebito (attività valutativa che invece va a stravolgere l’originaria imputazione anche sotto il profilo fattuale, incidendo proprio su uno degli elementi essenziali del reato che era stato ascritto all’imputato)[2]; e ciò, anche alla luce di quel principio di matrice sovranazionale che annovera tra i diritti primari della persona sottoposta a procedimento penale quello di essere informato compiutamente e tempestivamente della natura e dei motivi dell’accusa, nonché di avere a disposizione il tempo e le condizioni necessarie per preparare la propria difesa e per esercitare detto diritto in maniera concreta ed effettiva all’interno del giudizio (art. 6, paragrafo 3, lett. a) e b) CEDU, così come interpretato dal Giudice di Strasburgo nella propria costante giurisprudenza: v. Corte EDU, Grande Camera, ricorso n. 25444/94, Pélisser e ***** c/ Francia, ripresa poi da Corte EDU, Sez. II, ricorso n. 25575/04, Drassich c. Italia (n. 1)).

La pronuncia in commento offre inoltre la possibilità di interrogarci anche in merito ad un’ulteriore questione. Ovverosia, relativamente al cortocircuito che potrebbe venire a crearsi se le sentenze emesse da un giudice di ultima istanza nazionale, che per ipotesi si presentassero come sostanzialmente violative di uno o più precetti essenziali del c.d. giusto processo (per come pensato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo), fossero in seguito erroneamente “avallate” proprio dalla stessa Corte EDU, una volta investita di un’ipotesi di ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 della Convenzione[3].

Si tratta di due questioni estremamente importanti, proprio perché involgono due dei diritti primari di coloro che si trovano sottoposti ad un procedimento penale: il diritto di potersi difendere, in maniera concreta ed effettiva, rispetto a tutte le accuse che gli sono levate contro nel corso del giudizio (con riferimento al nostro ordinamento, si pensi all’inviolabilità del diritto di difesa che è sancita dall’art. 24 Cost., in combinato con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 della stessa Carta fondamentale); il diritto a che la pena che verrà eventualmente eseguita nei loro riguardi scaturisca da un provvedimento che sia il frutto di un percorso processuale razionale, equo e garantista (sempre con riferimento all’Italia, cfr. artt. 13, 27 e 111 Cost.).

Ed il caso Drassich (rectius, i due casi Drassich) si presenta invero emblematico proprio sotto questi profili, in quanto, per il momento specifico in cui sarebbe intervenuta la “riqualificazione” del fatto (ossia, nell’ambito del giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, che è giudice della legittimità dell’accertamento e non del merito della vicenda), le facoltà processuali dell’imputato (specialmente quelle in punto di prova) si presentavano, già sulla carta, limitate[4]; inoltre, se si considera l’astratta eventualità che la Corte di Cassazione possa aver commesso un errore nel ritenere la propria azione una riqualificazione del fatto (riconducibile all’art. 521 c.p.p.), anziché una vera e propria opera di riconsiderazione dell’addebito (quindi, un’ipotesi che sarebbe dovuta rientrare nell’alveo del combinato disposto degli artt. 516 e 521 co. 2 c.p.p. e che avrebbe dovuto portare la Suprema corte – quantomeno, in sede di riapertura del giudizio conseguente alla revoca della sua precedente sentenza del 04 gennaio 2004 – a disporre lei stessa la restituzione degli atti al P.M., ovvero a pronunciare annullamento senza rinvio della sentenza di secondo grado, a cagione dell’intervenuta estinzione dell’illecito penale – per prescrizione – secondo quanto previsto dall’art. 620 lett. l) c.p.p.), si comprende come il successivo rigetto del ricorso promosso dal Sig. Drassich innanzi alla Corte EDU (fondato sul medesimo ipotetico errore concettuale) possa aver di fatto creato una non trascurabile spaccatura tra i summenzionati principi di giustizia dell’accertamento penalistico, derivanti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea, ed il provvedimento finale che ha acquisito autorità di cosa giudicata nel caso specifico.

Per addentarci nei temi che sono stati qui tirati in ballo, è tuttavia indispensabile fare ordine nei pensieri e partire dal caso concreto che sta all’origine di tutte le questioni sopra menzionate; è dunque necessario tornare al lontano 1995.

L’evoluzione del caso Drassich, dal rinvio a giudizio innanzi al Tribunale di Venezia all’emissione della Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 22/02/2018 (Ricorso n. 65173/09), ossia la c.d. Sentenza Drassich n. 2

La vicenda da cui prende le mosse il presente elaborato risale agli anni 1995/1996, quando l’allora giudice del Tribunale di Pordenone- Sezione Fallimentare, ********************, veniva rinviato a giudizio innanzi al Tribunale di Venezia con l’imputazione di aver commesso plurime ipotesi di reato, strette sotto il vincolo della continuazione criminosa (art. 81 cpv. c.p.), tra quelle previste dagli artt. 319 (corruzione c.d. “propria”), 479 (falso ideologico commesso da pubblico ufficiale su atti fidefacenti) e 323 (abuso d’ufficio) del codice penale.

Nello specifico, ******** era accusato di aver nominato personalmente ed in autonomia sia i curatori che i commissari giudiziari di ben centottanta procedure fallimentari avviate sotto la giurisdizione dell’Ufficio ove era assegnato il magistrato, mentre la legge avrebbe voluto che detti provvedimenti venissero adottati collegialmente. Per fare ciò, egli avrebbe infatti falsificato i relativi provvedimenti di nomina delle summenzionate figure, di modo che i ruoli in questione fossero assegnati a persone di propria fiducia. Al termine dell’incarico, egli avrebbe poi provveduto a liquidare ai summenzionati professionisti compensi che si attestavano intorno ai massimi tabellari previsti per legge, ottenendone in cambio un ritorno economico (quantomeno, da alcuni di essi).

Come ben emerge dal testo della sentenza della Corte EDU del 11/12/2007, Drassich c. Italia (n. 1)[5], il capo d’imputazione relativo all’ipotesi di corruzione (propria) che veniva contestata all’ex-magistato del tribunale friulano era formulato nel modo seguente: «Reato previsto e punito dall’articolo 319 del codice penale (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio) per avere, nella sua qualità di magistrato presso il tribunale di Pordenone (&), compiuto atti contrari ai suoi doveri d’ufficio, scegliendo i curatori e i commissari giudiziari contrariamente ai doveri di trasparenza, correttezza e buona gestione della pubblica amministrazione (&) e, in ogni caso, per avere, contrariamente ai doveri di fedeltà, imparzialità e probità, ricevuto denaro e altri benefici da parte di curatori, periti e consulenti commerciali (&)».

L’imputato Drassich, nel corso del procedimento di primo grado, avrebbe poi mantenuto un contegno processuale volto a non negare la dinamica fattuale che gli veniva contestata, giustificando il proprio comportamento e riconducendolo a prassi all’epoca diffuse presso vari tribunali italiani e volte a smaltire più rapidamente il carico di lavoro di cui erano gravati gli Uffici giudiziari; mentre, per quanto riguarda le liquidazioni cospicue che venivano riconosciute a commissari giudiziari e curatori, l’imputato adduceva a propria discolpa il fatto che detti comportamenti erano diretti ad instaurare una prassi virtuosa di collaborazione ed efficienza nell’espletamento degli incarichi, posta in essere nei confronti della totalità dei professionisti nominati (dunque, anche nei confronti di coloro che non erano accusati di aver corrisposto al magistrato una contropartita).

Al termine del giudizio, il Tribunale giungeva ad irrogare condanna nei confronti del Drassich per una pena complessiva di tre anni di reclusione, ma contro detta sentenza veniva immediatamente promosso appello sia da parte dell’imputato che del Pubblico ministero.

La Corte di appello di Venezia, investita del secondo grado del giudizio, confermava la condanna per il suddetto imputato, ma aumentava l’entità della pena irrogata: dai tre anni del primo grado si passava a tre anni ed otto mesi di reclusione.

Drassich decideva quindi di ricorrere in Cassazione, lamentando – tra i motivi di ricorso – l’intervenuta prescrizione del reato di corruzione “semplice” che gli veniva contestato sino a quel momento.[6]

La Suprema corte, con sentenza emessa il 04 gennaio 2004 (depositata il giorno 17 maggio del medesimo anno) rigettava integralmente il ricorso dell’imputato, anche con riferimento al motivo incentrato sulla intervenuta prescrizione della fattispecie di corruzione “semplice” di cui all’art. 319 c.p.; e ciò, in quanto, a detta del Giudice della nomofilachìa, non di corruzione semplice si sarebbe trattato nel caso di specie, bensì di corruzione in atti giudiziari, in quanto condotta esplicata nell’esercizio della propria funzione di Giudice fallimentare del Tribunale di Pordenone e posta in essere a vantaggio di vere e proprie “parti processuali” portatrici di un interesse personale rispetto all’esito del procedimento (ossia, i curatori fallimentari ed i commissari giudiziari); fattispecie più grave e prevista dalla differente disposizione dell’art. 319 ter c.p.

La “riqualificazione” del fatto di reato nell’ipotesi prevista e punita dall’art. 319 ter c.p. avrebbe dunque comportato, oltre all’astratta applicabilità di un limite edittale di pena più elevato, un innalzamento del termine necessario a far prescrivere l’illecito sufficiente a superare le argomentazioni prospettate dal ricorrente. Per l’effetto, la doglianza proposta dall’imputato veniva quindi respinta e la sentenza della Corte di appello di Venezia confermata con autorità di cosa giudicata.

A questo punto, il Sig. Drassich promuoveva il suo primo ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il provvedimento che ne scaturiva era la nota sentenza Drassich c. Italia (n. 1)[7].

In detta occasione, il Giudice di Strasburgo, pur senza addentrarsi nella questione circa l’effettiva natura dell’operazione compiuta dalla Suprema corte nazionale (e, cioè, se l’attività ermeneutico-valutativa posta in essere dalla Corte di Cassazione fosse stata effettivamente da ricondurre al dettato dell’art. 521 co. 1 c.p.p., quale ipotesi di pura riqualificazione del fatto storico, ovvero ad un’ipotesi di vera e propria riconsiderazione dell’addebito, poiché il fatto-reato si sarebbe dovuto considerare diverso da come descritto nell’imputazione e ritenuto nelle due precedenti sentenze di merito), giungeva comunque a dichiarare l’attività posta in essere nell’ambito dell’ultimo grado di giudizio del procedimento Drassich come violativa dei diritti CEDU; in particolare, di quanto previsto dall’art. 6, paragrafi 1 e 3- lett. a) e b), della Convenzione. Pertanto, sulla scorta dell’orientamento della medesima Corte EDU formatosi nell’ambito del caso Öcalan c. Turchia[8], l’attività riparatoria che lo Stato italiano avrebbe dovuto porre in essere al fine di porre rimedio alla violazione accertata con la sentenza in parola sarebbe dovuta consistere, o nella riapertura del processo che si era concluso con la sentenza “impugnata” in sede sovranazionale, ovvero nella celebrazione di un nuovo giudizio.

Significativi i paragrafi da 34 a 43 della sentenza in parola: «Le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) non impongono alcuna forma particolare per quanto riguarda il modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e del motivo dell’accusa formulata nei suoi confronti. Esiste peraltro un legame tra i commi a) e b) dell’articolo 6 § 3, e il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa deve essere considerato alla luce del diritto per l’imputato di preparare la sua difesa (…). Se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Ciò implica che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell’accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti./ Nella fattispecie, il motivo di ricorso del ricorrente riguarda il fatto di essere stato condannato per un reato, la corruzione in atti giudiziari, che non era menzionato nel suo rinvio a giudizio e che non gli è stato comunicato in nessuna fase del procedimento./ La Corte osserva anzitutto che la riqualificazione in questione ha avuto luogo al momento della deliberazione della corte di cassazione. (…) In queste condizioni, non è stabilito che il ricorrente fosse stato avvertito della possibilità di una riqualificazione dell’accusa formulata nei suoi confronti e, ancora meno, che egli abbia avuto l’occasione di discutere in contraddittorio la nuova accusa (…)./ Resta da esaminare, alla luce della nozione, nel diritto italiano, del reato di corruzione in atti giudiziari, se fosse sufficientemente prevedibile per il ricorrente che l’accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata./ (…) [E’] giocoforza constatare che la Corte di cassazione ha affermato, nella sua sentenza pronunciata contro il ricorrente, che la corruzione in atti giudiziari costituisce un reato “autonomo”, punito più severamente della corruzione semplice a causa dello “scopo specifico di favorire o di danneggiare una delle parti al processo” (…)./ La Corte osserva che, se è vero che gli articoli 319 e 319ter si trovano nella stessa sezione del codice penale, queste due disposizioni si distinguono chiaramente per uno dei loro elementi costitutivi./ Certo, come ha affermato il Governo, l’elemento materiale dei due reati è lo stesso, ossia la commissione di atti contrari ai doveri propri a un funzionario pubblico allo scopo di percepire dei benefici. Tuttavia, come la Corte ha appena constatato, il reato di corruzione in atti giudiziari necessita anche della presenza di un elemento intenzionale specifico (…)./ Orbene, la Corte [EDU] non ha il compito di valutare la fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti (…). Essa osserva semplicemente che è plausibile sostenere che tali mezzi sarebbero stati diversi da quelli scelti per contestare l’azione principale (…)./ Infine, per quanto riguarda le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena del ricorrente, la Corte osserva che la Corte di cassazione procedette alla riqualificazione dei fatti della causa nell’ambito dell’esame dell’eccezione di prescrizione del reato sollevata dal ricorrente. L’alta giurisdizione [dello Stato italiano] motivò il rigetto di detta eccezione sulla base della nuova qualificazione giuridica dei fatti e tenuto conto del limite massimo della pena applicabile al reato di corruzione in atti giudiziari, più elevato rispetto a quello previsto per il reato di corruzione semplice./ Pertanto, la Corte [EDU] non può sostenere la tesi del Governo secondo la quale la modifica dell’accusa non ha influenzato la determinazione della pena pronunciata nei confronti del ricorrente./ Considerati tutti questi elementi, la Corte ritiene che sia stata commessa una violazione del diritto del ricorrente ad essere informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei suoi confronti, nonché del suo diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie alla preparazione della sua difesa./ Pertanto, vi è stata violazione del paragrafo 3 a) e b) dell’articolo 6 della Convenzione, combinato con il paragrafo 1 dello stesso articolo, che prescrive un processo equo».

Con questa sentenza la Corte EDU ribadisce, quindi, l’importanza del legame che sussiste tra contestazione dell’accusa e diritto di difesa. Un diritto che deve poter essere esercitato dall’imputato in maniera concreta ed effettiva (come lo stesso massimo Interprete della Convenzione afferma), attraverso un contraddittorio che non può che essere pieno ed involgere l’integralità dell’accertamento (sia in punto di fatto che di diritto). Per il Giudice di Strasburgo, quindi, l’accusa – ed il correlato diritto ad un informazione tempestiva e puntuale che esiste in capo all’imputato – non ricomprende solo la descrizione degli elementi costitutivi (e circostanziali) dell’illecito, ma si estende sino a ricomprendere in sé la loro qualificazione giuridica; anche con riferimento ad essa l’imputato deve essere posto nelle condizioni di difendersi efficacemente.

La Corte EDU, tuttavia, con la prima sentenza Drassich non ha compiuto quel passo ulteriore che avrebbe consentito di capire se nel caso specifico di riqualificazione si sarebbe effettivamente potuto parlare, o se invece sarebbe stato più corretto esprimersi in termini di riconsiderazione dell’addebito (quale fatto diverso rispetto a quanto accertato in primo e secondo grado).

La risposta a questo quesito avrebbe infatti consentito di tracciare con maggiore definizione la linea da seguire per emendare la violazione riscontrata in sede sovranazionale, poiché, se il contraddittorio sull’accusa deve essere sempre pieno ed effettivo, laddove nel caso di specie si fosse stati in presenza di un vero e proprio “fatto diverso”, in luogo di un fatto meramente “riqualificabile”, allora la mera riapertura del giudizio innanzi al medesimo giudice di (sola) legittimità non sarebbe stata sufficiente a rendere equo il processo. Sarebbe stato necessario, infatti, in ossequio al principio generale di obbligatorietà dell’azione penale (nella sua declinazione che prevede l’esclusiva titolarità in capo al pubblico ministero delle determinazioni che concernono la formulazione dell’imputazione; v. art. 112 Cost. ed artt. 50, 178 lett. b) e 179 c.p.p.), far regredire il procedimento ad uno stadio di molto anteriore rispetto al terzo grado di giudizio; uno stadio in cui sarebbe stato concretamente possibile effettuare la modifica formale dell’imputazione e – nel rispetto dell’intangibile diritto di difesa (effettiva) dell’imputato (v. artt. 24, 27, 111 Cost.; artt. 516 e 519 c.p.p.) – consentire a quest’ultimo di ripensare la propria strategia ovvero di spiegare efficacemente le proprie difese anche con riferimento al merito dell’accertamento penalistico (e, dunque, poter ricercare, far acquisire e far valutare al Giudice la prova di uno o più fatti incompatibili rispetto al differente elemento del reato che gli viene adesso contestato).

Non essendo giunta risposta rispetto al quesito intrinseco surriferito (ma, probabilmente, ciò non poteva neanche pretendersi da parte di una giurisdizione sovranazionale), il caso Drassich ha continuato ad evolvere percorrendo sentieri non battuti.

Infatti, all’indomani della sentenza della Corte EDU Drassich c. Italia (n. 1), veniva adita ancora dal Drassich la Corte di appello di Venezia (in funzione di Giudice dell’Esecuzione), la quale, ai sensi dell’art. 670 c.p.p., riconosciuta la cogenza delle statuizione della Corte di Strasburgo (cfr. art. 46, par. 1, CEDU), dichiarava così ineseguibile la propria sentenza precedentemente emessa nel 2002 e rimetteva la questione – così come previsto dalla norma processuale succitata – nuovamente alla Suprema corte; spettava a quest’ultima individuare il mezzo per porre rimedio alla violazione delle disposizioni CEDU riscontrata a Strasburgo.

Non essendo stata ancora emessa, all’epoca dei fatti, la nota sentenza n. 113/2011 della Consulta[9], la quale ha finito per introdurre nell’ordinamento interno un ulteriore caso di revisione del procedimento (avendo difatti dichiarato incostituzionale il disposto dell’art. 630 c.p.p., «nella parte in cui non prevede[va] un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò [si rendeva] necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo»), la Corte di Cassazione optava per applicare al caso di specie, in via analogica, la disposizione dell’art. 625 bis c.p.p. sulla correzione degli errori materiali o di fatto.

Con sentenza del 12 novembre 2008 (n. 45807), la Suprema corte procedeva alla revoca della propria precedente sentenza del 4 gennaio 2004, confermativa della sentenza emessa in appello dalla Corte di appello di Venezia nel 2002, e disponeva la nuova trattazione del procedimento Drassich «limitatamente al punto della diversa qualificazione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e poi ritenuta dai giudici di merito».

Prima della udienza di trattazione e discussione della questione che era stata riaperta dal Giudice di legittimità, la Difesa presentava nella Cancelleria della Suprema corte due memorie; una datata 10 marzo 2009, l’altra 6 maggio 2009.

Con dette memorie, ed in particolare con la prima, l’imputato riusciva a portare all’attenzione della Corte delle argomentazioni abbastanza stringenti. A detta della difesa, infatti, poiché sarebbe stata comunque necessaria una modifica formale dell’imputazione per poter ritenere in sentenza che il Sig. Drassich fosse responsabile di corruzione in atti giudiziari, in luogo della corruzione propria “semplice” sino a quel momento contestata (fattispecie autonome con elementi – in parte – differenti), e poiché detta variazione non era mai intervenuta nel corso del giudizio, alla Suprema corte non sarebbe restata che una scelta binaria: a) con imputazione immutata, dunque ragionando in termini di corruzione propria “semplice”, dichiarare prescritto il reato, come richiesto già cinque anni prima in sede di primo passaggio in Cassazione; b) anche nel caso in cui la Corte si fosse determinata nel senso di “riqualificare” i fatti come corruzione in atti giudiziari, ella avrebbe dovuto in ogni caso annullare senza rinvio la sentenza del Giudice di secondo grado, in quanto anche questo reato si sarebbe comunque estinto per prescrizione.

Tuttavia, nonostante quelle proposte dalla difesa fossero in astratto delle valide argomentazioni, v’è qui da rilevare come nemmeno in questa sede ci si sia spinti sino ad andare al cuore del problema. Infatti, sebbene venga premesso che sarebbe stata imprescindibile – nel caso di specie, ovviamente – una contestazione formale del diverso reato (da parte del P.M.; n.d.r.), non viene poi approfondita la questione del se l’operazione di rivalutazione che la Suprema corte si sarebbe accinta a compiere fosse stata davvero una “riqualificazione del fatto” o – piuttosto – una “rivalutazione dell’addebito” (nel senso anzidetto). Anzi, si finisce involontariamente per dare a questo interrogativo implicito una risposta che tradisce le premesse del ragionamento: alla Cassazione sarebbe consentito dare ai fatti la “qualifica” di corruzione in atti giudiziari, solo che – anche in tal caso – il reato sarebbe già prescritto.

Ed è proprio considerando la propria operazione ermeneutico-valutativa come pura riqualificazione del fatto (art. 521 co. 1 c.p.p.) che la Suprema corte decideva di chiudere la vicenda processuale in commento.

Con la sentenza n. 36323/2009, infatti, la Cassazione rigettava (nuovamente) il ricorso dell’imputato avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia del 2002,  riqualificando i fatti come corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p. e reputando che, a causa di un’intervenuta sospensione dei termini di prescrizione del reato de quo, il reato non si fosse ancora estinto.

Si giungeva quindi agli anni 2011/2012, periodo in cui – successivamente all’emissione della summenzionata sentenza costituzionale n. 113/2011 – il Sig. ************** proponeva ricorso alla Corte di appello di Trento per la revisione del proprio procedimento. Lo scopo era quello di ottenere una riapertura del processo nel merito, in base al nuovo dettato dell’art. 630 c.p.p., per come risultante in seguito alla declaratoria di parziale incostituzionalità pronunciata dalla Consulta.

Il Giudice dell’impugnazione straordinaria dichiarava inammissibile il ricorso del Drassich, sulla scorta del fatto che – a detta della Corte – il Giudice delle leggi italiano, nella succitata sentenza del 2011, avrebbe mostrato chiaramente come la restitutio sub specie di riapertura del procedimento debba essere sempre valutata in rapporto al tipo di violazione accertata dalla Corte EDU; cosicché, se l’iniquità del procedimento avesse attenuto alla inaspettata riqualificazione del fatto (dunque, senza l’attivazione di un previo contraddittorio sul punto con l’imputato), prodottasi peraltro nel corso del giudizio di legittimità, la riapertura del procedimento non avrebbe potuto che avvenire nel medesimo grado in cui era stata consumata la violazione riscontrata in sede europea, ed il diritto al contraddittorio non avrebbe potuto che avere concretizzazione nel fatto di consentire all’imputato – per il tramite del proprio difensore – di spiegare le proprie osservazioni e conclusioni sul punto.

Avendo detti diritti di informazione e contraddittorio trovato compiuta esplicazione nel corso del procedimento ex art. 625 bis c.p.p., per come celebrato dalla Suprema corte nel 2009, nel caso di specie non avrebbe potuto invocarsi il “nuovo” caso di revisione del procedimento introdotto nelle ipotesi di violazione CEDU, in quanto detto tipo di impugnazione straordinaria si presenterebbe come infungibile soltanto qualora la restitutio sia legata a ragioni che attengono al merito dell’accertamento.

All’indomani della declaratoria di inammissibilità della Corte di appello di Trento, il Drassich proponeva dunque ulteriore ricorso innanzi alla Corte di Cassazione al fine di far annullare detta pronuncia. La Suprema corte, tuttavia, allineandosi totalmente alla posizione espressa dal primo giudice investito del ricorso per revisione, rigettava il ricorso di questi e lo condannava alle spese processuali[10].

A questo punto, il Drassich ricorreva quindi, per la seconda volta, alla Corte EDU, investendola di un nuovo caso di violazione del proprio diritto ad un equo processo (art. 6 CEDU).

Le doglianze spiegate dal ricorrente innanzi al Giudice di Strasburgo, elencate nei paragrafi da 51 a 58 della sentenza emessa il 22 febbraio 2018[11], si possono riassumere in tre punti cardine:

  1. Ancorché, in seguito alla riapertura del procedimento ex 625 bis c.p.p. (applicato in via analogica dalla Corte di Cassazione), il ricorrente non potesse dirsi non adeguatamente informato in merito alla possibilità che i fatti di causa fossero “riqualificati” – nel corso del riaperto giudizio di legittimità – come corruzione in atti giudiziari, egli non avrebbe comunque disposto del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la propria difesa; facoltà, invece, specificatamente prevista dal combinato disposto dei commi 1 e 3, lett. a) e b), dell’art. 6 CEDU, per come interpretati dalla costante giurisprudenza della Corte europea. Nel corso dell’udienza di trattazione, la difesa ******** avrebbe difatti chiesto un termine ad hoc (ulteriore) per preparare adeguatamente la difesa del proprio assistito, rivendicando altresì il diritto di quest’ultimo a partecipare personalmente al procedimento;
  2. Il caso Drassich sarebbe stato un unicum nella storia, in quanto, dal 2011 (anno di emissione della sentenza costituzionale n. 113/2011) sarebbe sempre possibile, in Italia, ottenere, nelle ipotesi di violazione dei diritti processuali sanciti dalla Convenzione europea, la revisione ex 630 c.p.p. del processo, avendo così la possibilità di rivedere nel merito l’accertamento penalistico viziato. ******************* che vigeva all’epoca della riapertura del procedimento in parola (avvenuta con lo strumento dell’applicazione analogica dell’art. 625 bis c.p.p. da parte della Cassazione), al ricorrente non sarebbe stato consentito di prevedere, con ragionevole grado di affidabilità, quale tipo di percorso e strumenti processuali sarebbero stati messi in campo per ovviare alla violazione riscontrata dal Giudice europeo (sola discussione in diritto ovvero rinvio ad una fase di merito, con conseguente riapertura del dibattimento), impedendogli di fatto di approntare un’idonea strategia difensiva;
  3. Pur in mancanza di una domanda specifica da parte del ricorrente, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto comunque rinviare ad una fase di merito il procedimento, in quanto sarebbe stata l’unica via per consentire all’imputato di far acquisire nuove prove a sé favorevoli, rendendogli possibile una difesa concreta ed effettiva così come vuole la Convezione. Poiché ciò non è stato, si sarebbe prodotta una ulteriore violazione dell’art. 6 CEDU. Resisteva il Governo italiano, il quale adduceva, in via preliminare, che la Corte non avesse avuto legittimazione a conoscere del nuovo ricorso promosso dal Drassich, in quanto competente a monitorare il rispetto delle decisioni dell’organo giurisdizionale da parte delle Alte Parti contraenti era esclusivamente il Comitato dei Ministri (arg. ex art. 46 par. 2 CEDU).

Nel merito della questione, poi, veniva dal Governo italiano rilevato che il Drassich non aveva mai richiesto espressamente la riapertura del dibattimento (o, comunque, l’assunzione di ulteriori prove) nel giudizio che era conseguito alla sentenza della Corte EDU del 2007; il ricorrente si era limitato a richiedere semplicemente l’annullamento senza rinvio della precedente sentenza emessa dalla Corte di appello di Venezia nel 2002, poiché i reati – quali che fossero, se corruzione “semplice” ovvero corruzione in atti giudiziari – sarebbero stati comunque da considerare prescritti al momento della decisione. Una causa di estinzione del reato, questa della prescrizione, che invece la Cassazione non aveva poi ritenuto si fosse ancora verificata, rispetto alla “riqualificata” ipotesi di corruzione in atti giudiziari, al momento della propria nuova decisione sul caso di specie; e, pertanto, nel 2009 veniva nuovamente confermata la condanna dell’imputato per l’ipotesi di cui all’art. 319 ter c.p.

L’ultima sentenza che – almeno, ad oggi – è intervenuta sul caso di specie affronta ambedue le questioni che sono state poste dalle parti in causa (legittimazione a conoscere del ricorso in questione, da una parte; integrazione di una ulteriore violazione delle disposizioni dell’art. 6 CEDU, con riferimento sempre al caso de quo, dall’altra) in maniera chiara ed esaustiva, anche se – lo si anticipa – detta pronuncia lascia tutt’ora aperto l’interrogativo di fondo che ruota intorno a questa vicenda: il Supremo Giudice italiano ha in questa vicenda compiuto una riqualificazione, dal punto di vista giuridico, del fatto di reato che era stato ascritto all’imputato, oppure si è spinto sino a ritenere esistente (e condannare **************) per un vero e proprio fatto diverso, rilevante ai sensi del combinato disposto degli artt. 516 e 521 co. 2 c.p.p. (compiendo così, surrettiziamente, quella che nella premessa del presente elaborato abbiamo definito, non senza concederci un po’ di licenza espressiva al riguardo, “riconsiderazione dell’addebito”)?

Dobbiamo tuttavia, così come ci eravamo prefissati ad inizio trattazione, andare con ordine, chiudendo in primis la disamina della vicenda processuale.

Orbene, partendo dalla prima questione surriferita (ossia, se la Corte fosse o meno legittimata a conoscere delle doglianze del Drassich riguardo l’ipotizzata nuova violazione dell’art. 6 CEDU), si rileva come la Corte di Strasburgo si dichiari innanzitutto competente a conoscere e decidere del nuovo ricorso. Ciò, in quanto questo più recente ricorso non avrebbe avuto ad oggetto il medesimo procedimento penale per cui era stata già accertata, nel 2007, la prima violazione CEDU, bensì un nuovo ed ulteriore procedimento penale, ben distinto dal primo ancorché originato dal tentativo di porre rimedio all’iniquità precedentemente riscontrata dal medesimo Giudice sovranazionale.

Per quanto invece riguarda il merito del giudizio, la Corte europea giunge invero ad un rigetto integrale del ricorso promosso dal protagonista di questa vicenda; e lo fa partendo proprio dall’orientamento interpretativo che, con le varie pronunce che si sono susseguite nel tempo, si è venuto a formare attorno al paragrafo 3 dell’art. 6 della Convenzione.

Si legge infatti, ai paragrafi da 65 a 67 della sentenza Drassich c. Italia n. 2: «La Corte rammenta che per valutare l’equità del procedimento quest’ultimo deve essere considerato nel suo complesso (si vedano, per esempio, le sentenze Miailhe c. Francia (n. 2), 26 settembre 1996, § 43, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, e ********** c. Svizzera, 24 novembre 1993, § 38, serie A n. 275). Il paragrafo 3 a) dell’articolo 6 della Convenzione mostra la necessità di prestare estrema cura alla notifica dell’ “accusa” all’interessato. L’atto d’accusa svolge un ruolo determinante nel procedimento penale: a decorrere dalla sua notifica, l’imputato è ufficialmente avvisato per iscritto della base giuridica e fattuale delle accuse formulate a suo carico. L’articolo 6 § 3 a) della Convenzione riconosce all’imputato il diritto di essere informato non soltanto della causa dell’ “accusa”, ossia dei fatti materiali che vengono posti a suo carico e sui quali si basa l’accusa, ma anche della qualificazione giuridica attribuita a tali fatti, e questo in maniera dettagliata (********* e ***** c. Francia [GC], n. 25444/94, § 51, CEDU 1999-II)./ La portata dei questa disposizione deve essere valutata in particolare alla luce del diritto più generale a un processo equo sancito dal paragrafo 1 dell’articolo 6 della Convenzione. In materia penale, un’informazione precisa e completa delle accuse formulate a carico dell’imputato, e dunque la qualificazione giuridica che il giudice potrebbe adottare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell’equità del procedimento. A questo proposito, è opportuno osservare che le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) non impongono alcuna forma particolare per quanto riguarda il modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e del motivo dell’accusa formulata a suo carico. La Corte rammenta inoltre che esiste un nesso tra i commi a) e b) dell’articolo 6 § 3 e che il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa deve essere considerato alla luce del diritto per l’imputato di preparare la sua difesa (…)./ (…) [Nel caso di specie] la questione che si pone è se il procedimento penale avviato in seguito alla sentenza che [la Corte EDU] ha pronunciato nella causa ******** c. Italia [n. 1] fosse conforme agli standard della Convenzione e se il ricorrente sia stato nuovamente giudicato nel rispetto delle garanzie di un processo equo. Nella fattispecie, si tratta di esaminare anzitutto se il ricorrente sia stato adeguatamente informato della natura e del motivo dell’accusa formulata a suo carico».

Sulla base di queste premesse, ossia dell’informalità che regima il diritto dell’imputato ad essere reso edotto dell’accusa che è elevata a suo carico, la Corte EDU giunge dunque a rilevare come, nel momento in cui in Italia si faceva applicazione (in via analogica) dell’art. 625 bis c.p.p. con riferimento al caso di specie e si disponeva la revoca della precedente sentenza del 2004 che aveva riqualificato i fatti, con riapertura del giudizio, l’imputato non poteva non considerarsi informato della possibilità che i fatti venissero “riqualificati” nell’ipotesi p. e p. dall’art. 319 ter c.p. Del resto, specifica la Corte, «la cosa importante è stabilire se, malgrado l’assenza di una notifica formale delle accuse di corruzione in atti giudiziari, il ricorrente sia stato informato adeguatamente e in tempo utile per permettergli di preparare la sua difesa»[12]; e ciò, quantomeno sotto il profilo della compiuta rappresentazione all’imputato di una possibile “riqualificazione” dei fatti nel corso del successivo giudizio “riparatorio”, la Corte europea lo giudica avvenuto.

Ma le motivazioni rese da Strasburgo non si limitano a fare salvo il metodo di comunicazione dell’accusa scelto dal più alto Giudice italiano; anche per quanto riguarda il rispetto delle tempistiche e prerogative difensive imposte dal diritto sovranazionale la Corte EDU esprime un giudizio positivo relativamente all’operato della Cassazione.

Con un argomentazione chiara e puntuale, il massimo Interprete della Convenzione europea sui diritti dell’uomo respinge al mittente tutte le doglianze avanzate dal ricorrente: «nei cinque mesi successivi alla revoca parziale della condanna e alla riapertura del processo, l’interessato ha potuto depositare dinanzi alla Corte di cassazione due memorie scritte. Inoltre, l’avvocato del ricorrente ha discusso oralmente la causa all’udienza del 25 maggio 2009./ Inoltre, il ricorrente non ha dimostrato di aver presentato argomenti che non avrebbero potuto essere presi in considerazione dalla Corte di cassazione, o che quest’ultima si fosse basata su elementi di diritto o di fatto che non sarebbero stati dibattuti durante il processo./ Inoltre, per quanto riguarda l’argomento del ricorrente secondo il quale il principio del contraddittorio non è stato rispettato vista l’impossibilità di discutere questioni di fatto dinanzi alla Corte di cassazione, la Corte osserva con il Governo che il ricorrente in nessun momento ha contestato, nemmeno in maniera accessoria, il modo in cui il tribunale e la corte d’appello avevano accertato i fatti di causa. Dal fascicolo non risulta neppure che la difesa del ricorrente avesse chiesto in un determinato momento la riapertura dell’istruzione al fine di ottenere nuove prove a discarico. (…) In queste condizioni, tenuto conto delle questioni all’esame della cassazione, la Corte non vede per quali motivi la causa avrebbe dovuto essere rinviata d’ufficio dinanzi a un giudice di merito»[13].

La conclusione è abbastanza scontata: stante le premesse ed i ragionamenti sopra riportati, il secondo ricorso proposto da ************** non poteva che venire rigettato. Ma davvero la questione può definirsi esaurita con l’apposizione del suggello del Giudice europeo sull’operato della Cassazione italiana? Veramente detta questione è stata affrontata e risolta nell’unico modo possibile (e giuridicamente sostenibile)?

La soluzione del quesito non può che passare dall’analisi delle disposizioni sostanziali e processuali coinvolte in questa vicenda.

Un caso di riqualificazione del reato? Le fattispecie di corruzione propria “semplice” e di corruzione in atti giudiziari, l’art. 521 c.p.p. ed il diritto di preparare la propria difesa in maniera concreta ed effettiva che è previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo

Giunti a questo punto dell’analisi è possibile affermare che gli interrogativi che la vicenda ******** porta con sé ruotano tutti attorno all’istituto delle c.d. nuove contestazioni di cui al Titolo II- Capo IV del Libro VII del codice di procedura penale. In particolare, il cuore della questione è da individuarsi nel rapporto che sussiste tra il comma primo dell’art. 521 c.p.p., che contempla un’ipotesi di vera e propria riqualificazione del fatto dal punto di vista giuridico (e che sarebbe sempre possibile da parte del Giudice, nell’esercizio del suo potere giurisdizionale), ed il comma secondo del medesimo articolo, il quale involge invece quella che in precedenza abbiamo definito come “riconsiderazione dell’addebito”; nel caso previsto da quest’ultimo comma il magistrato giudicante non rileva semplicemente che il fatto storico sarebbe riconducibile ad una diversa (e più appropriata) fattispecie incriminatrice, ma riscontra una vera e propria difformità, per diversità del fatto-reato, tra l’ipotesi criminosa contestata nell’imputazione e quella che egli ritiene di dover affermare in sentenza.

Ma per comprendere se il caso di specie si sia davvero mosso su binari alieni e paralleli rispetto a quelli della corretta interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche processuali, bisogna anzitutto riprendere il ragionamento fatto dalla Cassazione nel lontano 2004, quando compiva per la prima volta la propria opera di rivalutazione della vicenda ********, stabilendo che nel caso di specie non vi sarebbe stata una corruzione propria “semplice”, bensì un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari.

Orbene, sappiamo[14] che la Suprema corte, nella propria sentenza del 04 gennaio 2004, giungeva a sussumere il fatto storico sotto la diversa fattispecie incriminatrice dell’art. 319 ter c.p. in quanto i curatori ed i commissari giudiziari nominati autonomamente dall’allora giudice fallimentare del Tribunale di Pordenone dovevano essere considerati – a detta del Giudice della legittimità – vere e proprie parti processuali, poiché portatori di un proprio, personale interesse rispetto all’esito della procedura fallimentare. Pertanto, le nomine effettuate in maniera tale da non rispettare il criterio della collegialità previsto per legge e le liquidazioni che venivano disposte in favore di dette figure (attestatesi intorno ai massimi tariffari) dietro un ritorno di tipo economico, finivano di fatto per «favorire (…) una parte [di] un processo civile» (ossia, seguendo questo ragionamento, gli stessi curatori fallimentari e/o i commissari liquidatori di volta in volta nominati). Seguendo tale ragionamento, la Suprema corte avrebbe dunque trasformato l’oggetto dell’accertamento, dall’ipotesi più lieve di corruzione propria “semplice”, al più grave reato di corruzione in atti giudiziari.

Ora, le predette due fattispecie incriminatrici si presentano come molto simili tra loro, condividendo infatti lo stesso elemento materiale. L’art. 319 ter c.p. richiama al suo interno la disposizione dell’art. 319 c.p., essendosi il Legislatore premurato di specificare che, elementi della c.d. corruzione in atti giudiziari, sono «i fatti indicati negli articoli 318 e 319 [del codice penale]».

Fulcro della condotta illecita sarebbe dunque, sia per l’art. 319 c.p. che per l’art. 319 ter c.p., il fatto del «pubblico ufficiale, che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa». Nella fattispecie di cui all’art. 319 ter c.p. vi sarebbe dunque un quid pluris, legato alla necessità che la condotta delittuosa in parola sia posta in essere al preciso scopo di favorire o danneggiare una delle parti in causa (elemento soggettivo del c.d. dolo specifico).

Nonostante questa somiglianza, è da considerarsi ormai acclarato che le due norme descrivano due fattispecie illecite del tutto autonome e distinte. Ciò, lo si trae – in particolare – dal fatto che l’art. 319 ter c.p. preveda, al proprio comma secondo, una circostanza aggravante speciale collegata all’ipotesi in cui, dal fatto previsto al comma primo (ossia, appunto, dal reato di corruzione in atti giudiziari), consegua un’ingiusta condanna in sede penale. E poiché la sussistenza di una circostanza aggravante che aggrava un’altra circostanza aggravante apparirebbe come un vero e proprio paradosso del sistema giuridico[15], la fattispecie contemplata all’art. 319 ter c.p. non può che essere considerata come un reato a sé stante, sia rispetto all’ipotesi di corruzione “semplice” contemplata dall’art. 319 c.p., sia in riferimento all’ulteriore fattispecie (di corruzione c.d. impropria) che è prevista dall’art. 318 c.p.

Inoltre, e si tratta di un argomento già utilizzato dalla stessa Corte di Cassazione (e che verrà poi ripreso anche dalla Corte EDU, nell’ambito proprio della vicenda Drassich)[16], a deporre in favore dell’idea che l’art. 319 ter c.p. sia una fattispecie autonoma di reato (e non una mera circostanza aggravante di una delle ipotesi contemplate dagli artt. 318 e 319 c.p.), vi starebbe anche il fatto che l’elemento soggettivo che è previsto dalle due fattispecie incriminatrici oggetto di confronto non sarebbe affatto il medesimo. Infatti, mentre per l’ipotesi di corruzione “semplice” è richiesto il dolo generico, inteso quale coscienza e volontà del soggetto pubblico di porre in essere un comportamento contrario ai propri doveri d’ufficio, ricevendone in cambio una contropartita (economica o di altro tipo), per integrare la fattispecie di reato contemplata dall’art. 319 ter c.p. è necessario – appunto, come abbiamo avuto modo di accennare sopra – il c.d. dolo specifico; la condotta antidoverosa e frutto dell’accordo corruttivo deve qui essere diretta verso quel quid ulteriore che è individuabile nel creare un potenziale vantaggio (ovvero, un nocumento) per una delle parti di un processo civile, penale od amministrativo.

Acclarato che quelle degli artt. 319 e 319 ter c.p. sono due ipotesi di reato distinte ed autonome, rimane ora da capire se il ragionamento portato avanti nel procedimento de quo dalla Suprema corte – e che propende per la possibilità di una riqualificare dei fatti da corruzione propria “semplice” a corruzione in atti giudiziari – sia, oltreché coerente con le proprie premesse (e si vedrà a breve perché), anche corretto sul piano giuridico.

Come rilevato supra, infatti, il ragionamento sposato dalla Cassazione nel 2004 fa perno su un elemento essenziale: la qualifica di parte processuale in capo a commissari giudiziari e curatori fallimentari. È questa la premessa da cui il più alto Giudice italiano trae il proprio ragionamento. Partendo da questo presupposto, ossia – lo si ripete – che dette figure siano delle parti del giudizio (civile) di fallimento, non si può non individuare nella condotta che attribuisce a detti soggetti un compenso ingiustificatamente elevato (condotta illecita, poiché violativa delle norme che regolano la materia) un’azione di avvantaggiamento della “parte processuale” in questione; di conseguenza, un comportamento più riconducibile allo schema della corruzione in atti giudiziari, piuttosto che a quello della corruzione propria “semplice”.

Quindi, sotto questo profilo, la conclusione a cui la Suprema corte giunge nella propria sentenza del 4 gennaio 2004 è incontestabilmente coerente e logica (con sé stessa). L’unica cosa che, forse, si potrebbe rilevare al riguardo, sempre mantenendo lo sguardo sulla premessa di questo ragionamento, è che essa non ci pare tenga adeguatamente conto né del disposto dell’art. 30 né di quello dell’art. 228 della Legge Fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), i quali – rispettivamente – attribuiscono espressamente al curatore fallimentare la qualifica di «pubblico ufficiale» e prevedono che gli sia comminata, salvo i casi in cui si rivelino applicabili direttamente le ipotesi di concussione e corruzione che interessano la generalità dei soggetti investiti di pubbliche funzioni (v. artt. 317, 318 e 319 c.p.)[17], una specifica sanzione criminale[18] per il caso in cui egli «prend[a] interesse privato in qualsiasi atto del fallimento direttamente o per interposta persona o con atti simulati». Stessa cosa per quanto riguarda la figura del commissario giudiziale, considerata dagli artt. 163, co. 1, n. 3) e 237 della Legge Fallimentare in maniera del tutto simile a quella del curatore.

Ciò denota, dunque, un’esplicita volontà del Legislatore di non considerare le due figure in questione alla stregua di “parti processuali”, che – come tali – sarebbero portatrici di un proprio interesse nel giudizio, avendo piuttosto attribuito a questi il ruolo di ausiliari della Giustizia, tenuti ad assicurare la trasparenza, la correttezza e l’imparzialità del procedimento fallimentare lato sensu inteso. Emblematico è proprio il fatto che sia stata prevista una specifica ipotesi di reato nel caso in cui il curatore (ma lo stesso vale per il commissario giudiziale) persegua un qualsiasi interesse privato durante il proprio incarico. Si tratta quindi di un soggetto del procedimento che deve necessariamente mantenersi imparziale per non incorrere nella sanzione penale (o, quantomeno, non deve perseguire un interesse che non sia quello pubblico al buon andamento della procedura fallimentare); ciò, collide inevitabilmente con l’attribuzione a detta figura della qualifica di parte processuale ai fini dell’applicazione della disposizione di cui all’art. 319 ter c.p.

Quanto appena considerato ci fa ritenere che, almeno nelle premesse del ragionamento seguito nel caso Drassich, la Cassazione abbia commesso alcune forzature interpretative. Ma questo non sarebbe comunque indice di un vizio di giustizia nell’accertamento, risolvendosi infatti – al più – in un mero errore interpretativo della Suprema corte. In altre parole, anche in presenza di un eventuale abbaglio della Cassazione nell’interpretare le norme sostanziali toccate dal caso di specie, ciò non comporta che vi sia stata anche un’illegittima (proceduralmente parlando) riqualificazione del fatto ex art. 521 co. 1 c.p.p.; cosa che, invece, ci preme accertare attraverso la presente analisi.

Per capire se il caso di specie poteva essere “riqualificato” da corruzione (propria) “semplice” a corruzione in atti giudiziari, bisogna invece volgere lo sguardo direttamente alla disposizione dell’art. 521 c.p.p. ed al rapporto che sussiste tra i suoi commi primo e secondo (quest’ultimo, letto in combinato con quanto previsto dagli artt. 50, 178 lett. b), 179, 405, 417 co. 1 lett. b) e 516 c.p.p.).

Orbene, così recita la norma processuale appena citata: «Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata  nell’imputazione,  purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito  alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica» (art. 521 comma 1 c.p.p.); «Il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se  accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518 comma 2» (art. 521 comma 2 c.p.p.).

Come ben si può notare, i due commi appena menzionati dell’art. 521 c.p.p., disposizione che traduce e disciplina a livello processuale il c.d. principio di correlazione tra accusa e sentenza, si presentano come tra loro complementari, descrivendo il primo un potere che l’ordinamento processuale penale attribuisce al giudice (la facoltà di dare al fatto che è descritto nell’imputazione una definizione giuridica differente da quella che gli era stata assegnata ex art. 417, comma 1, lett. b), c.p.p.), mentre il secondo si preoccupa di tracciare il limite che incontra detto potere: il giudice può sempre riqualificare il fatto per cui è posto sotto processo l’imputato, a patto che il fatto (e bisognerà poi vedere cosa si intende con detto termine) non risulti esso stesso diverso, ossia non muti nella propria essenza rispetto a come era stato individuato da colui che legittimamente detiene il potere di esercitare l’azione penale con la formulazione dell’imputazione (artt. 112 Cost. e 50 c.p.p.). E si tratta di un rapporto di complementarietà reciproca, questo tra le disposizioni appena indicate, in quanto, non soltanto il comma 2 funge da “limite” rispetto all’eventuale arbitrio riqualificatore del giudicante, ma lo stesso comma primo assume anche la funzione di regola di condotta (e di orientamento) per il giudice nel momento in cui riscontra una difformità tra fatto contestato (inteso nel senso più ampio e generale) e risultanze processuali. In detti casi, infatti, il giudice sarà legittimato a rinviare indietro al P.M. il fascicolo di causa solo nel caso in cui la difformità non attenga alla mera qualificazione giuridica di fatti, ma si presenti, invece, come vera e propria diversità che affligge l’essenza della contestazione formulata nei confronti dell’imputato.

Resta quindi da capire cosa precisamente si intende per “fatto diverso” ai sensi del comma secondo dell’art. 521 c.p.p. La risposta rispetto a questo quesito ce la dà, invero, la Consulta, la quale – in un passaggio di una propria non più recentissima pronuncia (che, peraltro, scaturiva proprio da un caso in cui venivano in gioco delitti contro la Pubblica amministrazione), ossia la sentenza n. 103/2010[19] – espressamente riferisce: «Si deve premettere che l’art. 521 cod. proc. pen. ha codificato il principio della necessaria correlazione tra imputazione contestata e sentenza, in base al quale il giudice può attribuire al fatto una definizione giuridica diversa, senza incorrere nella violazione del suddetto principio, soltanto quando l’accadimento storico addebitato rimanga identico negli elementi costitutivi tipici, cioè quando risultano immutati l’elemento psicologico, la condotta, l’evento e il nesso di causalità./ Se il giudice, invece, accerta che il fatto è diverso da quello descritto nell’imputazione, deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero./ L’anzidetto principio è diretto a garantire il contraddittorio e il diritto di difesa dell’imputato, il quale deve essere posto nelle condizioni di conoscere l’oggetto dell’imputazione nei suoi elementi essenziali e di difendersi, secondo la linea ritenuta più opportuna, in relazione ad esso»[20].

Quindi, stando alle parole del Giudice delle leggi, l’operazione di rivalutazione che il magistrato giudicante del caso concreto può compiere, senza far scattare il precetto del comma 2 dell’art. 521 c.p.p., sarebbe soltanto quella che non va a modificare né l’elemento oggettivo del reato (condotta, evento e nesso causale) né quello soggettivo; o, quantomeno, che non va a stravolgere detti elementi, rendendoli incompatibili rispetto ad un effettivo esercizio del diritto di difesa che è riconosciuto all’imputato (così verrebbe da aggiungere, volgendo uno sguardo – dato l’ambito da cui è scaturita la presente analisi – anche rispetto alla CEDU, ed in particolare all’art. 6 della Convenzione).[21]

Dunque, ricapitolando: se con la rivalutazione posta in essere dal giudice muta uno dei quattro elementi sopra elencati, dobbiamo ritenere di essere in presenza di un fatto diverso rispetto a quello legittimamente contestato all’imputato, e quindi diverrà operante la regola sancita dall’art. 521 comma 2 c.p.p., che impone la restituzione degli atti al P.M. a pena di nullità della sentenza[22]; se, invece, ciò che cambia è soltanto la fattispecie giuridica entro cui viene ricondotto il fatto concreto, che però resta immutato nei suoi elementi essenziali, allora il provvedimento giudiziale che costituisce il frutto di detta operazione rivalutativa sarà sempre valido e processualmente ineccepibile.

Ma dette regole indicative, che tracciano una linea di confine ben marcata tra riqualificazione del fatto (art. 521 comma 1 c.p.p.) e riconsiderazione dell’addebito (art. 521 comma 2 c.p.p.), sono da intendersi in maniera assoluta? Invero, no. E sarebbe persino irrealistico pensare a detto criterio discretivo in maniera troppo rigida, in quanto, molto spesso, i confini tra le due attività interpretative in questione si presentano abbastanza sfumati; ad esempio, e sono ormai considerati casi pacifici da parte della giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi in cui vengono in gioco, alternativamente, i reati di rapina (ma la cosa potrebbe sostenersi, pur con le dovute accortezze in punto di corretta individuazione dell’elemento psicologico del reato, anche con riferimento all’estorsione)[23] e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.).

In detti casi, infatti, anche a fronte di un mutamento nella direzione finalistica della condotta posta in essere dal soggetto agente (fine di esercitare un preteso diritto, nel reato di cui all’art. 393 c.p.; fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, per quanto riguarda la rapina), e dunque di un mutamento interno all’elemento soggettivo[24], si ritiene legittimo da parte del giudice operare una riqualificazione del fatto, ex art. 521 comma 1 c.p.p., dalla fattispecie più grave a quella meno grave; e ciò, in ragione di quello che potrebbe essere definito come principio di continenza tra elementi che compongono le diverse fattispecie astratte che si confrontano.[25]

Sempre con riferimento all’elemento soggettivo del reato, in virtù di questo principio della continenza tra elementi, è stata peraltro affermata la possibilità di una legittima riqualificazione del fatto anche da un’ipotesi dolosa ad una colposa, considerata infatti quale vera e propria “degradazione” dell’elemento in questione (la riqualificazione avverrebbe sulla scorta del principio per cui “non c’è dolo senza colpa”). Un esempio di questo fenomeno potrebbe essere quello della riqualificazione del fatto da omicidio volontario, contestato nell’imputazione originaria, ad omicidio colposo (o preterintenzionale), ritenuto poi in sentenza.[26]

Dunque, se gli elementi costitutivi delle fattispecie che si raffrontano si pongono in un rapporto di continenza gli uni con gli altri, allora – ragionando sempre in un’ottica realistica, che non si impunti sulla (tanto giusta teoricamente, quanto paralizzante processualmente) questione di principio secondo cui a me-imputato dovrebbe essere sempre formalmente contestata qualunque, anche minima, variazione che interessi l’accusa che mi viene levata contro – la riqualificazione del fatto operata direttamente in sentenza parrebbe comunque possibile da parte dell’organo giudicante, anche a fronte di una riconsiderazione di uno degli elementi necessari del reato (quale, appunto, l’elemento subiettivo), senza che sia necessario far regredire sempre il procedimento alla fase delle Indagini preliminari.

Si torna quindi nell’incertezza iniziale, quando ci si chiedeva cosa effettivamente fosse il fatto diverso che faceva scattare la prescrizione di necessaria restituzione degli atti di cui al comma 2 dell’art. 521 c.p.p.? Forse no.

Ancorché si tratti di una prerogativa del pubblico ministero, quella di esercitare l’azione penale, formulando appunto l’imputazione (cfr. artt. 50, 405 e 409 comma 5 c.p.p.), detto atto va innegabilmente a legarsi a quello che è il preminente esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato (artt. 24, 27, 111 Cost.). Viene infatti facile comprendere come la lesione di detta prerogativa del P.M., lungi dal rappresentare solo una lesione del principio di separazione delle funzioni processuali che è proprio dell’ordinamento processuale penale (di matrice accusatoria), ma finisca inevitabilmente per condizionare la strategia difensiva dell’imputato, sino al suo possibile annichilimento totale. È dunque con riferimento ad essa che bisogna guardare per discriminare le ipotesi di legittima riqualificazione del fatto da quelle di tacita (e nociva) riconsiderazione dell’addebito.

Quindi, ragionando in questi termini, si potrebbe dare risposta al quesito posto da ultimo nel senso di ritenere l’azione riqualificatrice del giudice illegittima, poiché violativa del criterio della diversità del fatto, nel momento in cui quest’ultimo arriva a porre in essere una vera e propria sua sostituzione rispetto al ruolo che è proprio della pubblica accusa. Il giudicante non può e non potrà mai formulare (o, per meglio dire, riformulare) l’addebito che è mosso nei confronti dell’imputato[27], pertanto la riconsiderazione anche di elementi essenziali della fattispecie rimane a questi possibile solo nella misura in cui detti elementi “riqualificati” si trovino già contenuti – ancorché in maniera indiretta, quale caratteristica insita a quella più grave che invece è contestata – nell’imputazione formale (principio di continenza tra elementi, appunto). Se è vulnerata l’iniziativa del pubblico ministero con riferimento all’azione penale (e, soprattutto, le regole formali che ne guidano l’esercizio all’interno del procedimento, a cui fanno eco i correlati meccanismi di garanzia per l’imputato; cfr. artt. 441 bis, 516-519 c.p.p.), resta pregiudicato – quale ineluttabile effetto collaterale – anche il diritto di difesa della persona che è sottoposta a procedimento.

Sul punto, tuttavia, l’orientamento dalla prevalente giurisprudenza italiana pare si possa riassumere con gli approdi delle sentenze Sezioni Unite- Di ********* del 1996[28], Sezioni Unite- ******* del 2010[29], Sezione II- Caterino del 2013[30] e Sezioni Unite- Lucci del 2015 (quest’ultima, invero, nota più per essersi occupata del rapporto tra tipi di confisca, diretta e “per equivalente”, rispetto al tema della riqualificazione del fatto di reato)[31]

Dette pronunce sembrano infatti tracciare quello che è stato riconosciuto dalla massima Corte come il vero discrimen tra riqualificazione “lecita” del fatto e riqualificazione violativa del disposto dell’art. 521 comma 2 c.p.p., individuandolo nella circostanza che, rispetto alla ridefinizione del fatto poi operata dal giudice in sentenza, l’imputato sia stato posto concretamente nella condizione di prevederla e, per l’effetto, gli sia stato concesso di difendersi rispetto ad essa. L’impressione è che non si sia voluto adeguatamente considerare – pur nel lodevole intento di porre al centro della questione il diritto di difesa dell’imputato, sicuramente prevalente rispetto a qualunque altro tipo di prerogativa processuale delle parti – questo filo concettuale che lega il principio di esclusiva titolarità dell’azione penale in capo al P.M. (e le correlate modalità di esercizio formale della stessa che sono previste dal codice di procedura penale) alle garanzie implicite che detto principio comporta (soprattutto, anche se ciò potrebbe sembrar paradossale) per l’imputato; con il risultato di un sostanziale spostamento del fulcro del ragionamento, da ciò che il P.M. avrebbe scritto nell’imputazione (o chiesto successivamente, attraverso il meccanismo formale della nuova contestazione) a ciò che l’imputato può ragionevolmente prevedere gli potrà essere addebitato attraverso l’attività rielaborativa del giudice.

Da prima, infatti, le Sezioni Unite Di Francesco ebbero cura di sottolineare che: «per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione»[32].

Le successive pronunce della Suprema corte si sono poste in una linea di sostanziale continuità con il portato della sentenza Di ********* appena menzionata, premurandosi peraltro di precisarne maggiormente i contorni, anche alla luce dei risvolti che lo stesso caso Drassich aveva avuto in quegli anni in sede europea (il riferimento è a Corte EDU, sentenza Drassich c. Italia (n. 1) del 2007): «(…) per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’Iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione»[33]; «la violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza ricorre solo se la modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica pregiudica le possibilità di difesa dell’imputato impedendogli di utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati»[34]; «La violazione (…) deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel momento sono scaturiti»[35]. Ci si concentra (giustamente) sulle possibilità di difesa che ha avuto l’imputato dopo la “riqualificazione”, ma si dimentica che il concetto di prevedibile per l’imputato offre margini ben più ampi rispetto a quello di ricompreso nell’imputazione formale, e che solo insieme questi presidi possono essere considerati una reale garanzia per colui che è sottoposto a procedimento.

Leggendo i passaggi delle succitate sentenze del più alto Giudice italiano, si ha l’impressione che all’interrogativo (statico, puramente concettuale) sui casi di diversità del fatto, elemento considerato dal comma 2 dell’art. 521 c.p.p. quale presupposto ai fini del meccanismo di regressione del processo (extrema ratio per le ipotesi di mancato esercizio del potere di modificare formalmente l’imputazione che è attribuito al pubblico ministero), sia stata sostituita una diversa e più ampia questione (dinamica, in quanto imprescindibilmente legata alle dinamiche e peculiarità della vicenda processuale concreta): la prevedibilità, da parte dell’imputato, della modificazione in via interpretativa dell’addebito che potrebbe essere operata dal giudice in sentenza.

L’orientamento maggioritario della giurisprudenza sembra quindi orientato nel senso di ritenere che, salvo stravolgimenti imprevedibili degli elementi essenziali del fatto, in riferimento ai quali l’imputato non avrebbe potuto esercitare alcun tipo di difesa (idonea), l’operazione rivalutativa del giudice deve sempre essere riportata al paradigma di cui al comma 1 dell’art. 521 c.p.p., traducendosi in una riqualificazione (legittima) del fatto-reato.

Nel solco interpretativo appena tracciato si pone anche la sentenza della Cassazione del 25 maggio 2009 relativa al caso Drassich. La Corte esprime chiaramente come, ai fini della rivalutazione che lo stesso Organo giudicante avrebbe compiuto con la propria pronuncia, non sarebbe stata necessaria una nuova formale contestazione nei confronti dell’imputato, ma sarebbe bastato che quest’ultimo fosse stato reso edotto della possibilità di riqualificazione del fatto, sub specie del più grave reato di corruzione in atti giudiziari (prevedibilità), in tempo utile per predisporre un’idonea difesa. Il Supremo Giudice del caso Drassich non pare dunque considerare l’imputazione (formale) – o, quantomeno, non sembra affatto che sul punto venga posta sufficiente enfasi – quale perimetro invalicabile al cui solo interno al giudice sarebbe consentito spaziare esercitando il proprio potere interpretativo; potendo cioè mutare l’addebito solo nella misura in cui gli elementi ritenuti sussistenti, in luogo di quelli prospettati dal P.M., vi si trovino già ricompresi. Per la Cassazione, quindi, solo quegli stravolgimenti che travalicano la prevedibilità (e relativamente ai quali non sarebbero stati concessi all’imputato tempo e spazio per predisporre un’idonea difesa) possono condurre ad una declaratoria di nullità ex art. 522 c.p.p.

Questo per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale. Ed in ambito CEDU?

Con riferimento alla Convenzione europea, v’è anzitutto da precisare che essa persegue finalità differenti, più ampie rispetto a quelle che possono dirsi proprie del diritto penale interno agli ordinamenti dei vari Stati contraenti. La Corte di Strasburgo si mostra ben consapevole di questo: «Sebbene il primario scopo del Sistema convenzionale sia quello di fornire sostegno agli individui, il fine dello stesso è anche quello di affrontare temi di politica pubblica nell’interesse generale, sì da innalzare gli standard di protezione dei diritti umani e diffondere la giurisprudenza in siffatta materia tra gli Stati membri»[36].

A diversità di finalità, tenuto conto del fatto che la Convenzione fissa regole che dovrebbero trovare uguale applicazione in Stati con tradizioni giuridiche molto diverse (paesi di civil law, come l’Italia, e paesi di common law, come il Regno unito), corrisponde inevitabilmente una diversa capacità di rispondere agli interrogativi che sono propri dei sistemi vigenti nei singoli Stati membri, quale il rapporto tra potere interpretativo del giudice – con annessa possibilità di riqualificare il fatto in maniera diversa rispetto a come descritto nel decreto che dispone il giudizio – e titolarità dell’azione penale (intesa qui come potere-dovere di stabilire il perimetro formale dell’addebito), che in Italia è attribuita in via esclusiva all’organo dell’accusa.

Premesso ciò, si può proseguire la nostra analisi partendo dal dettato dell’art. 6 CEDU (disposizione rubricata sotto il titolo “Diritto a un equo processo”), il quale, ai suoi paragrafi 1 e 3, prevede: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (…)» (par. 1); «(…) ogni accusato ha diritto di:/ (a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;/ (b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;/ (c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;/ (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;/ (e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza» (par. 3).

Balza subito agli occhi il fatto che la norma convenzionale sull’equo processo parli genericamente di accusa penale, senza distinguere tra imputazione formale ed addebito ritenuto sussistente al momento di emettere la sentenza conclusiva del giudizio. Al riguardo, il comma 3 della disposizione in parola si premura soltanto di specificare che l’indagato/imputato ha diritto a ricevere una tempestiva e compiuta informazione sui termini dell’accusa (natura e motivi) e di avere sufficiente tempo e mezzi per predisporre ed attuare un’idonea strategia difensiva.

Il significato del termine utilizzato dall’art. 6 della Convenzione europea ci viene, invero, chiarito dalla Corte attraverso la propria giurisprudenza: «La “accusa” potrebbe, ai fini dell’articolo 6 par. 1, essere definita come la notifica ufficiale rilasciata ad un individuo dall’autorità competente di una dichiarazione secondo cui egli avrebbe commesso un reato»[37].

Come ben si può notare, si tratta di una definizione alquanto ampia, che non si sofferma a distinguere tra imputazione, formulata dal P.M., ed addebito riqualificato dal giudice; del resto, questo – per l’obiettivo di fissare standard comuni a tutti gli Stati contraenti, che è proprio della Convenzione – non avrebbe neanche potuto chiedersi ad un testo di così ampia portata applicativa. La CEDU si concentra sui diritti, ed in particolare, con l’art. 6, i diritti della persona che è sottoposta a procedimento penale; diritti che oltrepassano le regole procedurali interne ai vari Stati membri, e che debbono poter essere invocate dagli individui a prescindere dai meccanismi con cui, nel caso concreto, si forma l’addebito penale.

Un’ulteriore riprova del fatto che il diritto convenzionale ha vocazione più ampia e generale, rispetto a quello interno agli Stati, ce la offre pure la spiegazione del significato che nel sistema CEDU è attribuito all’aggettivo “penale”, ossia al termine posto immediatamente dopo a quello di “accusa” nel corpo dell’art. 6 della Convenzione europea.

La giurisprudenza della Corte EDU conosce infatti una nozione di diritto penale diversa rispetto a quello che, all’interno dei vari Stati membri, viene considerato tale; e ciò, proprio in ragione della non omogeneità degli ordinamenti sovrani ove il diritto del sistema CEDU è destinato a trovare estrinsecazione (ed applicazione). Ai fini della definizione di cosa la CEDU intende per “diritto penale”, infatti, la Corte europea ha col tempo individuato dei criteri ben precisi (i c.d. ciriteri *****)[38], utili a tracciare il confine della materia a prescindere dalle terminologie o dai criteri definitori utilizzati a livello nazionale, e che si incentrano su: (a.) classificazione dell’illecito nell’ordinamento nazionale; (b.) intrinseca natura dell’illecito; (c.) severità della sanzione applicabile. L’individuazione di detti criteri – specialmente dei secondi due, che sovente hanno portato ad un riconoscimento, da parte della stessa Corte europea, di diritti (sostanziali e processuali) che sono propri del sistema penale anche con riferimento a casi che dichiaratamente si ponevano al di fuori del settore in questione nell’ambito dell’ordinamento nazionale interessato[39] – si è resa infatti necessaria al fine di poter garantire all’insieme dei diritti riconosciuto della Convenzione di non rimanere condizionato, nell’applicazione, dalla struttura e della regole che sono proprie dei sistemi giuridici dei singoli Stati membri.

Tornando all’art. 6 CEDU, ed all’espressione “accusa penale” che vi è inserita, si comprende adesso come la dichiarazione che ascrive all’individuo il reato ben possa, per il sistema convenzionale, non solo provenire da un organo diverso rispetto al pubblico ministero (e, quindi, anche dal magistrato giudicante), ma addirittura da un’autorità esterna all’ordinamento penale nazionale (che sia di natura giudiziaria od amministrativa)[40].

La vocazione ad una applicazione generalizzata delle sue regole, che è propria del sistema CEDU, non può dunque che condizionarne i criteri di formulazione ed interpretazione delle disposizioni giuridiche, costringendo l’interprete a concentrarsi sull’unico denominatore comune rinvenibile: l’individuo; nel caso dell’art. 6, quindi, l’accusato.

È logico attendersi che la Corte EDU, nel momento in cui va ad interpretare la Convenzione con specifico riferimento alla questione “comunicazione dell’accusa all’indagato/imputato”, al fine di valutare se il sistema processuale italiano (rectius, se il caso di specie che è originato dal sistema processuale italiano) sia o meno compatibile con essa,  non consideri la rigida ripartizione delle funzioni tra pubblica accusa e magistrato giudicante – che sarebbe astrattamente prevista dal sistema processuale italiano – quale elemento dirimente per poter stabilire se il diritto all’equità del processo sia stato effettivamente rispettato.

La Corte EDU, pertanto, non può che “limitarsi” a considerare la questione ponendosi a valle del problema; della serie: non importa molto chi ed in che modo si formula l’addebito (sempre che, ovviamente, detta autorità sia almeno astrattamente legittimata a “notificare all’imputato la dichiarazione secondo cui egli ha commesso un reato”), ciò che conta è che l’imputato sia stato notiziato tempestivamente sulla natura e sui termini dell’accusa, e che gli sia stato concesso tempo sufficiente per predisporre ed attuare una difesa consona al riguardo.

Gli approdi sono simili a quelli della giurisprudenza di legittimità nostrana, ma i punti di partenza e gli strumenti utili ad esprimere una valutazione sul punto (la conoscenza dei principi dell’ordinamento interno) sono ben diversi. Il Giudice italiano, infatti, conosce ed interpreta il diritto processuale penale nazionale (un sistema di norme destinato esclusivamente al sistema interno); il Giudice sovranazionale della CEDU analizza il diritto interno dello Stato membro, ma interpreta ed applica solo e soltanto il diritto convenzionale (unicamente quest’ultimo, infatti, gli fornisce la base normativa da cui trarre le proprie argomentazioni; e – lo si ricorda – si tratta di un complesso di norme che mira a trovare applicazione generalizzata in sistemi giuridici molto diversi tra loro).

Nonostante questo gap, la Corte EDU, anche attraverso le sentenze Drassich, ci dà un contributo importante al fine di comprendere cosa, nell’operazione complessiva di rimodulazione dell’accusa penale, travalica i paletti dell’equità convenzionale: non consentire che, di fronte al fenomeno rivalutativo, la difesa sia «concreta ed effettiva»[41]. Ciò, significa che, comunque si intenda il rapporto tra comma 1 e comma 2 dell’art. 521 c.p.p., all’imputato deve sempre essere consentito di esercitare il proprio diritto di difesa in modo pieno e non meramente apparente. Pieno, in quanto all’imputato, non solo deve esser riconosciuta la possibilità di introdurre nuove argomentazioni in punto di diritto, ma anche il diritto di rimettere in discussione l’intero portato delle acquisizioni istruttorie compiute in fatto, ottenendo l’ammissione di nuove prove ovvero la riassunzione dei medesimi mezzi di prova esperiti sino a quel momento, al fine di estenderne l’esame in riferimento alle nuove prospettazioni accusatorie. Non apparente, in quanto l’esercizio dei diritti difensivi astrattamente riconosciuti dalla Convenzione in caso di mutamento dell’accusa deve inoltre essere concretamente accessibile da parte dell’imputato, non dovendo essergli frapposti sbarramenti procedurali che, di fatto, lo rendano inesplicabile.

Tornando al caso Drassich, c’è forse da dire che proprio questo secondo aspetto della lettura dell’art. 6 CEDU che da sempre ha dato la Corte EDU potrebbe suscitare alcune perplessità sull’operato “riparatore” della Corte di Cassazione del 2009.

Sappiamo che la Cassazione, reinvestita della questione dalla Corte di appello di Venezia (giudice dell’esecuzione che aveva applicato il disposto dell’art. 670 c.p.p.), avrebbe optato per un’applicazione analogica del disposto dell’art. 625 bis c.p.p. (ricorso straordinario per errore materiale o di fatto) e, per l’effetto, avrebbe annullato la parte della propria pronuncia del 2004 che non si conformava ai dettami della sentenza Drassich (n. 1) e rinviato la causa per una nuova trattazione del ricorso per cassazione presentato dall’imputato nei confronti della sentenza di appello del 2002. La Suprema corte indicava quindi sé stessa come giudice innanzi al quale il caso avrebbe dovuto trovare nuova trattazione ed il giudizio “di rinvio” – ci sia perdonato l’uso improprio del termine, dato che quello in questione non era un giudizio ex art. 627 c.p.p. – sarebbe stato, pertanto, un Ricorso per cassazione, con tutte le regole ed i limiti che governano i giudizi di legittimità.

Ordunque, il Ricorso per cassazione è regolato dalle disposizioni degli articoli da 606 a 628 del codice di rito, mentre la fase dibattimentale è espressamente considerata dall’art. 614 c.p.p.

Recita la norma da ultimo citata: «1. Le norme concernenti la pubblicità, la polizia e la disciplina delle udienze e la direzione della discussione nei giudizi di primo e di secondo grado si osservano davanti alla corte di cassazione, in quanto siano applicabili./ 2. Le parti private possono comparire per mezzo dei loro difensori./ 3. Dopo la requisitoria del pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato espongono nell’ordine le loro difese. Non sono ammesse repliche./ Nell’udienza stabilita, il presidente procede alla verifica della costituzione delle parti e della regolarità degli avvisi, dandone atto a verbale; quindi, il presidente o un consigliere da lui delegato fa la relazione della causa./ 4. Dopo la requisitoria del pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato espongono nell’ordine le loro difese. Non sono ammesse repliche».

Come ben si può notare, il c.d. “terzo grado di giudizio” non ammette, salve le ipotesi di annullamento della sentenza con rinvio al giudice del primo o del secondo grado, che sia disposta la riassunzione di mezzi istruttori già acquisiti nei precedenti stadi del giudizio; tantomeno, poi, è ammessa l’apertura di una “nuova” istruttoria sui temi sollevati dalla rimodulazione dell’accusa posta a carico dell’imputato. Questo per quel che concerne lo sviluppo processuale del dibattimento innanzi alla Corte di cassazione.

Per quanto invece riguarda l’oggetto del giudizio (ovverosia, la cognizione del Giudice di legittimità, che non può non riverberare effetti sulle possibilità strategiche che le parti hanno nel dibattimento de quo), la disposizione che dobbiamo tenere a riferimento è quella dell’art. 609 c.p.p., rubricata – appunto – “Cognizione della Corte di cassazione”.

Così recita quest’ultima norma: «Il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti» (comma 1); «La corte decide altresì le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello» (comma 2). I motivi di ricorso sono solo e soltanto quelli di cui all’art. 606 c.p.p., ossia: (a.) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri; (b.) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale; (c.) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza; (d.) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’articolo 495, comma 2; (e.) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

Nel caso di specie, i motivi di impugnazione erano stati proposti dall’imputato nel momento in cui spiegava ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia, nell’anno 2002, e soltanto in riferimento ad essi la Suprema corte sarebbe andata a decidere nel “rinnovato” giudizio di legittimità del 2009. A detti motivi, l’imputato Drassich avrebbe potuto aggiungere motivi nuovi ex art. 585 co. 4 c.p.p., ma i termini della questione – a nostro sommesso avviso – non sarebbero mutati: i c.d. nuovi  motivi dovevano necessariamente rispettare la natura impugnativa del giudizio di cassazione, che si caratterizza per essere una critica rispetto alla sentenza del giudice inferiore e non un gravame in senso stretto (ossia, un riesame completo della vicenda). E non bisogna dimenticare che, sempre nel caso di specie, il provvedimento impugnato era sempre la sentenza della Corte di appello di Venezia, che aveva sì innalzato la pena comminata all’imputato, ma aveva pur sempre giudicato il Drassich colpevole di corruzione “semplice”, non di corruzione in atti giudiziari. Inoltre, anche i motivi nuovi ex art. 585 co. 4 c.p.p. non possono travalicare il perimetro tracciato dall’art. 606 comma 1 c.p.p., in quanto la stessa disposizione che apre il Titolo III del Libro IX del codice di procedura penale prevede espressamente che «il ricorso [sia] inammissibile se (…) proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge (…) ovvero, fuori dei casi previsti dagli articoli 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello» (art. 606, comma 3, c.p.p.).

Non si ritiene, quindi, che l’imputato avesse la possibilità di proporre un nuovo motivo di ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia emessa nel 2002 e che fosse proteso a contestare l’illegittimità di una eventuale “riqualificazione” del fatto di reato sino a quel momento contestato all’imputato; “riqualificazione” che non era mai stata compiuta in precedenza e che si palesava – dal punto di vista formale – come mera evenienza, ipotizzata dalla Suprema corte in un passaggio processuale che sarebbe stato poi giudicato iniquo da parte del Giudice di Strasburgo ed annullato dalla stessa Cassazione.

Come sarebbe stato possibile criticare – attraverso un nuovo, specifico motivo di ricorso – qualcosa che (ufficialmente) non era stato ancora compiuto? L’imputato avrebbe potuto, invero, presentare memorie sino a cinque giorni prima dell’udienza (e ciò ha fatto, anche se non ha richiesto – come ha modo di sottolineare la Cassazione nel giudizio conseguente al ricorso avverso la declaratoria di inammissibilità della richiesta di revisione del processo – né la riapertura dell’istruttoria né ha manifestato la volontà di mutare la propria strategia difensiva complessiva), ma si ritiene che a fungere da preclusione alla possibilità di pronunciare un annullamento con rinvio alla Corte di appello vi fosse il limite della cognizione che è attribuita dall’ordinamento processuale al Giudice della legittimità, il quale – per sua stessa ammissione – non può mai compiere un apprezzamento diretto del merito della vicenda[42]; e, nel caso di specie, non poteva essere ascritta all’imputato l’ipotesi di cui all’art. 319 ter c.p. senza ritenere al contempo comprovata anche la sussistenza dell’elemento del dolo specifico del soggetto agente (il fine di favorire o danneggiare una parte del processo), dunque senza compiere una valutazione che fosse anche di merito e che avesse alla base un apprezzamento diretto delle risultanze istruttorie (la direzione finalistica dei fatti di cui all’art. 319).

Per questo si ritiene che l’imputato non avesse possibilità concrete di accedere ad un pieno esercizio del proprio diritto di difesa: davanti alla Cassazione non si assumono prove, né poteva esser chiesto – e, sicuramente, non si doveva pretendere che fosse l’imputato a farlo, dato che egli è chiamato a confrontarsi con l’accusa “ufficiale” che gli è levata contro nel giudizio e non certo a farsi custode della correttezza giuridica dell’addebito – che il processo venisse fatto regredire ad una fase di merito sufficiente a consentire all’imputato di rivedere a pieno la propria strategia difensiva rispetto al nuovo tipo di imputazione (magari esercitando l’opzione per un rito alternativo); oltre ad andare al di fuori dei limiti di cognizione della Corte di cassazione (art. 609 c.p.p.), il procedimento sarebbe al massimo stato rinviato innanzi al Giudice del secondo grado, non consentendo all’imputato né una effettiva rinnovazione istruttoria (si v. in proposito il dettato dell’art. 603 c.p.p.)[43] né un’eventuale modifica della propria strategia (possibile solo sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado).

Questo tipo di argomentazioni non sembra aver fatto breccia nei ragionamenti della Suprema corte, la quale, per ben due volte (prima con la sentenza del 2009, che ha concluso il procedimento ********, e poi con la successiva sentenza del 2013, emessa in seguito alla richiesta di revisione del giudicato), ha ribadito la bontà del proprio agire e la valenza riqualificativa del decisum. L’assunto è stato peraltro avallato anche dalla Corte EDU con la propria recentissima sentenza, la quale ha considerato equo, rispetto ai dettami dell’art. 6 CEDU, il procedimento Drassich nel suo complesso; quantomeno, dalla sentenza della Cassazione del 2009, riparatoria rispetto alla precedente condotta violatova della Convenzione, in avanti.

La questione non può riessere messa in discussione sotto questo profilo, ma si può qui tentare di dare finalmente risposta all’interrogativo di fondo che questa vicenda ci aveva ispirato: l’operazione ufficialmente posta in essere dalla Suprema corte con la propria sentenza n. 36323/2009, dal punto di vista giuridico- concettuale, è una riqualificazione del fatto (521 co. 1 c.p.p.) ovvero una riconsiderazione dell’addebito (artt. 521 co. 2 e 522 c.p.p.)?

Orbene, se ci si richiama alla suesposta teoria della continenza tra elementi della fattispecie, e se si riconosce la giusta funzione di garanzia (difensiva) anche al principio di esclusiva titolarità dell’azione penale in capo al pubblico ministero (sub specie di capacità esclusiva di formulare l’imputazione in riferimento alla quale l’imputato è chiamato a difendersi ed il giudice a decidere), si può adesso affermare che, se l’elemento subiettivo individuato dal P.M. era il dolo generico del reato di corruzione (art. 319 c.p.), l’elemento intenzionale tipico della fattispecie di cui all’art. 319 ter c.p. non potesse in alcun modo essere considerato insito a detto elemento. La finalità di favorire una parte processuale, infatti, si aggiunge alla coscienza e volontà di contravvenire ai propri doveri d’ufficio che è propria dell’illecito corruttivo “semplice”, pertanto non può ritenersi in essa implicita e già ricompresa.

L’azione rivalutativa compiuta dalla Cassazione va quindi oltre il perimetro dell’imputazione “ufficiale” che era stata levata dal pubblico ministero nei riguardi dell’imputato. In quest’ottica, dunque, il Giudice della legittimità avrebbe posto in essere una vera e propria riconsiderazione dell’addebito (e non una semplice riqualificazione), in quanto il fatto di reato che ella ha ritenuto sussistente in sentenza si mostrava del tutto diverso, proprio in uno dei suoi elementi essenziali, rispetto a quello che era stato sino a quel momento formalmente contestato all’imputato.

Non avendo quindi applicato il dettato dell’art. 521 comma 2 c.p.p., laddove invece era doveroso per la Corte, la sentenza del più alto Giudice italiano sarebbe dunque (astrattamente) incorsa nel vizio della nullità che è contemplato dall’art. 522 c.p.p., in combinato – data la lesione arrecata all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale (e di riflesso al diritto di difesa dell’imputato) – al dettato degli artt. 178 lett. b) e 179 c.p.p. Nullità, dunque, di tipo assoluto.

Ma a questo punto si pone un ultimo interrogativo: premessa questa personale valutazione sull’operato di ripensamento dell’addebito posto in essere dalla Corte di Cassazione con riferimento alla vicenda ********, cosa succederebbe laddove – come, appunto, nel caso d specie – ad una illegittimità del giudicato conseguisse un avallo anche in sede CEDU? Il condannato avrebbe degli strumenti per far valere il vizio che affligge la sentenza di condanna?

Un’ipotesi di cortocircuito? La nullità della sentenza definitiva e l’eventuale questione sul titolo esecutivo

Come abbiamo potuto appurare, l’analisi che si è condotta nei precedenti paragrafi ci ha portato a ritenere che, nell’ambito della vicenda ********, vi sia stata da parte della Cassazione, più che una riqualificazione del fatto-reato, una vera e propria ipotesi di riconsiderazione dell’addebito[44], rilevante quindi ex artt. 521 comma 2 e 522 c.p.p.

Il fatto che la disposizione dell’art. 522 c.p.p. faccia riferimento, per il mancato rispetto delle regole processuali prescritte nel capo IV del Libro VII- Titolo II del codice di procedura penale, al vizio della nullità della sentenza, senza peraltro prevedere eccezioni, comporta dunque che, anche nell’ipotesi in cui a compiere l’indebita “riconsiderazione” sia la Suprema corte (ultimo grado del processo), la sentenza che ne scaturisce è da considerarsi – almeno, in astratto – invalida e perciò inidonea a produrre il suo effetto tipico: il suo passaggio in giudicato (anche, dato che l’art. 648 c.p.p. – che disciplina l’istituto della irrevocabilità della sentenza penale – presuppone comunque un provvedimento giudiziale valido, oltreché non più soggetto ad impugnazione ordinaria), ma soprattutto la sua esecutività.

La sentenza è titolo per l’esecuzione penale. È in base ad essa che il P.M. emette l’ordine di esecuzione con cui si dispone la carcerazione del condannato (art. 656 c.p.p.; il riferimento è ovviamente all’esecuzione delle pene detentive), ed è solo per essa che si giustifica la pretesa punitiva che lo Stato avanza nei confronti della persona che è stata sottoposta a procedimento. Se essa è viziata, quindi, anche l’esecuzione deve ritenersi illegittima.

Bene. Questo in teoria, ma nella realtà concreta quali sono gli strumenti messi a disposizione del condannato per far valere il suo diritto ad una sentenza, non soltanto giusta sotto il profilo della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle eventuali responsabilità, ma anche valida sotto il profilo processuale? Che le invalidità insanabili trovino in qualche modo “sanatoria” nella pronuncia emessa dal Giudice di ultima istanza italiano (la Corte di Cassazione)?

Di primo acchito, considerato che ciò che ha originato la presente riflessione è una sentenza sovranazionale, al riguardo potrebbe essere avanzata l’ipotesi secondo cui, dato che l’Italia ha aderito alla Convenzione di Roma del 1950 (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) ed è quindi parte del sistema CEDU, l’imputato potrebbe provare a percorrere la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, finalizzato a far accertare l’iniquità del proprio giudizio e ad ottenere un titolo (ulteriore) idoneo a far riaprire il procedimento a quo, o comunque ad invalidarlo e farne celebrare un altro da capo.

Ma nel caso Drassich questo percorso è già stato tentato; ed è, peraltro, finito male per il ricorrente, dato che la Corte EDU ha ritenuto che le garanzie difensive dell’ex-magistrato del Tribunale di Pordenone fossero state rispettate dalla Suprema giurisdizione italiana.

Dunque, la questione equità del procedimento non sembra possa più essere rimessa in discussione, neanche in sede europea. Ed anche se si avanzano delle riserve in merito alla effettiva equità convenzionale del processo Drassich[45], il ragionamento da seguire deve necessariamente passare per un’altra via: quella della validità del provvedimento.

Orbene, si è già precisato che il tipo di invalidità che colpirebbe la sentenza emessa dalla Suprema corte a conclusione del procedimento ******** (la sentenza del 2009, per comprenderci meglio) sarebbe un’ipotesi di nullità (comminata dall’art. 522 c.p.p.); nullità che, a nostro avviso, poiché lede direttamente l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, e soltanto di riflesso il diritto di difesa dell’imputato (quale conseguenza pregiudizievole della variazione dell’accusa che sarebbe stata compiuta al di fuori dei meccanismi codicistici atti a contemperare le esigenze di aderenza tra realtà fenomenica e realtà processuale con il diritto di difesa dell’imputato), dovrebbe catalogarsi tra quelle generali di tipo assoluto (artt. 178 lett. b) e 179 c.p.p.)[46].

Ciò premesso, si deve ora provare ad individuare quali possibilità sono lasciate dall’ordinamento all’imputato al fine di far rilevare il vizio del provvedimento de quo. Gli sarebbe possibile accedere ad un mezzo di c.d. impugnazione straordinaria?

Per rispondere alla domanda interlocutoria che da ultimo ci si è posti, bisogna prima fare la ricognizione dei mezzi di impugnazione straordinaria previsti dal nostro ordinamento processuale. E, con riferimento alle sentenze di condanna, detti mezzi si rivelano essere la Revisione (artt. 629 ss. c.p.p.) e, nelle ipotesi in cui si fosse proceduto illegittimamente in absentia nei confronti della persona sottoposta a procedimento, la Rescissione del giudicato (oggi, art. 629 bis c.p.p.).

Trascurando l’ipotesi della rescissione, data la sicura inapplicabilità rispetto al caso di specie, si tratta dunque di valutare se, al fine di far valere la nullità del provvedimento giudiziale del più autorevole Giudice italiano, possa essere esperito il mezzo della revisione succitato.

Orbene, i casi di revisione (che debbono considerarsi tassativi; arg. ex artt. 568 e 629 c.p.p.) sono compiutamente individuati dall’art. 630 c.p.p., a cui deve aggiungersi un’ipotesi ulteriore di revisione legata al dovere di riapertura del procedimento conseguente all’emissione da parte della Corte EDU di una sentenza dichiarativa della iniquità convenzionale del procedimento definito con sentenza irrevocabile dal giudice italiano (caso introdotto in seguito alla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., avvenuta con la sentenza n. 113/2011 da parte della Corte costituzionale)[47].

I casi “tradizionali” di revisione sono dunque i seguenti:

  1. «se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale»;
  2. «se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479»;
  3. «se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle gia? valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631»;
  4. «se e? dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsita? in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato».

Come ben si può notare, nessuno dei casi di revisione “tradizionale” che sono stati riportati sopra contempla l’ipotesi che il giudicato da travolgere sia la diretta conseguenza di un provvedimento che si assume nullo. L’ulteriore caso di revisione, quello diretto a far sì che vi possa essere una riapertura del processo al fine di conformarsi ai dettami della CEDU, che sarebbe invero già stato invocato nel caso di specie, non pare ad oggi un sentiero utilmente percorribile, incontrando una preclusione abbastanza forte nel portato della più recente pronuncia della Corte EDU, la sentenza Drassich c. Italia (n. 2)[48].

Pertanto, non è alle impugnazioni straordinarie che bisogna guardare per ricondurre – nel caso in cui il nostro ragionamento si rilevi corretto – il caso di specie sui binari della correttezza processuale.

Lo sguardo volge dunque alla fase dell’esecuzione che è prevista nella nostra procedura penale, e – più precisamente – verso una norma che è già stata toccata dal caso di specie: l’art. 670 c.p.p.

Recita infatti l’articolo or ora citato, al comma 1: «Quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l’esecuzione disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato (…)».

La norma prevede che, al riscontrarsi di uno dei due presupposti della mancanza o della non esecutività del titolo, il giudice dell’esecuzione possa emettere ordinanza con cui si dichiara la carenza del titolo, sospendendone l’esecuzione, e si riapre il giudizio (principale) che ha portato alla comminazione della pena. E poiché una sentenza non può astrattamente ritenersi esente da vizi processuali sol perché emessa dal Giudice di ultima istanza, per le riflessioni riportate ad inizio paragrafo sul presupposto implicito per il passaggio in giudicato delle sentenze penali e sull’effetto che l’invalidità del titolo porta rispetto alla esecutività del provvedimento decisorio, la nullità (assoluta ed insanabile) che astrattamente affligge la sentenza della Suprema corte del 2009 sul caso Drassich ben potrebbe essere considerata un valido presupposto ai fini di poter far scattare l’estremo meccanismo ripatorio di cui all’art. 670 c.p.p.

Si tratterebbe di una strada impervia e che vede alquanto esigue prospettive di riusciuta, considerata soprattutto la stratificazione di provvedimenti giudiziali che – specialmente nel caso specifico – si sono espressi in senso contrario rispetto ad argomentazioni protese a restringere il campo della riqualificazione giuridica del fatto-reato operata dal giudice in sentenza. Una strada che, nondimeno, ci appare ad oggi l’unica possibile sotto il profilo processuale.

La nostra analisi non ci ha condotto “all’illuminazione”, ce ne rendiamo bene conto. Del resto, essa non aveva lo scopo di offrire nuovi sviluppi alla vicenda concreta, ma solo di riflettere sul delicato rapporto tra accusa e sentenza, e sulle implicazione che esso ha sul piano delle garanzie difensive.

[1]      D’ora in poi, l’organo giurisdizionale internazionale nato in seno al Consiglio d’Europa verrà indicato anche solo col termine di Corte EDU.

[2]      L’espressione che qui si è deciso di utilizzare (“riconsiderazione dell’addebito”) serve infatti a rendere un’idea di sintesi di quel processo ermeneutico-valutativo che porta il giudicante a ritenere differente rispetto all’imputazione originaria (od alle nuove contestazioni spiegate dal P.M. in dibattimento), non soltanto il nomen iuris da assegnare al fatto, ma anche quegli elementi essenziali che delineano l’accusa sollevata nei confronti dell’imputato: condotta, evento, nesso causale ed elemento subiettivo. Reputando che i predetti elementi siano diversi (e non operando la restituzione degli atti che è prevista dal comma 2 dell’art. 521 c.p.p.), il giudice finisce per rendere di fatto diverso lo stesso capo d’accusa mosso contro l’imputato; egli riconsidera, appunto, ripensa l’addebito, cioè l’accusa stessa.

[3]      Così recita il disposto dell’art. 34 CEDU: «Ricorsi individuali – La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto».

[4]      Salvo errori nell’interpretazione o nell’applicazione della legge processuale penale che sono causa di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, ovvero salva l’ipotesi di omessa assunzione di una prova contraria decisiva che è stata in precedenza richiesta dalla parte ricorrente, innanzi alla Suprema corte non appare infatti possibile rimettere in discussione la ricostruzione della vicenda fattuale che è stata compiuta nei precedenti gradi (di merito).

[5]      V. Corte EDU, Seconda Sezione, 11 dicembre 2007, Ricorso n.  25575/04, Drassich c. Italia, par. 9, reperibile nel testo tradotto in lingua italiana sia presso il sito istituzionale del Ministero della Giustizia italiano (URL specifico: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=1_2(2007)&contentId=SDU146920&previsiousPage=mg_1_20), sia presso il database HUDOC contenente il case-law della Corte europea (URL specifico: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-150360).

[6]      Si rammenti, infatti, che al momento in cui era pendente il (primo) ricorso per cassazione del Drassich non era stata ancora varata la riforma dell’istituto della prescrizione del reato intervenuta con la c.d. Legge ex-******** del 2005 (legge n. 251/2005). Nel computo del termine di prescrizione del reato, pertanto, rientravano anche gli aumenti massimi dovuti alla presenza di circostanze aggravanti, le diminuzioni minime legate alle attenuanti e l’eventuale giudizio di bilanciamento tra circostanze ex art. 69 c.p.

[7]      Corte EDU, Seconda Sezione, 11 dicembre 2007, Ricorso n.  25575/04, Drassich c. Italia, cit.

[8]      Corte EDU, Grande Camera, Ricorso n.  46221/99, Öcalan c. Turchia, disponibile sulla banca dati on-line “HUDOC” della Corte (URL specifico: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-69022).

[9]      C. Cost., sentenza 7 aprile 2011, n. 113, in www.cortecostituzionale.it.

[10]     V. Cass., Sez. II penale, 15 maggio 2013 (dep. 12/09/2013), n. 37413, in www.italgiure.giustizia.it.

[11]     Cfr. Corte EDU, Sezione Prima, 22 febbraio 2018, Ricorso n. 65173/09, Drassich c. Italia (n. 2), disponibile in lingua italiana (lingua non ufficiale della Corte; traduzione effettuata da parte del Ministero della Giustizia italiano) nella banca dati “HUDOC” della Corte europea dei diritti dell’uomo, al seguente URL: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-182458.

[12]     V. Corte EDU, Sez. Prima, 22/02/2018, Drassich c. Italia (n. 2), cit., paragrafo 70.

[13]     Cfr. Corte EDU, Sez. Prima, 22/02/2018, Drassich c. Italia (n. 2), cit., paragrafi da 71 a 73.

[14]     In proposito, si v. l’esaustiva ricostruzione della vicenda processuale che fa il Giudice di Strasburgo nella motivazione della propria prima sentenza Drassich: Corte EDU, Sezione Seconda, sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, cit., parte In fatto: I-Le circostanze della causa, §§ 5- 17.

[15]     Le circostanze che assumono rilevanza per il diritto penale, indipendentemente dal fatto che esse siano aggravanti od attenuanti, ineriscono infatti sempre al «reato», ossia ad un fatto tipico che è previsto da una disposizione incriminatrice. In proposito, si v. la disposizione dell’art. 61 c.p., la quale, occupandosi di quelle che sono le c.d. circostanze aggravanti comuni, prevede: «Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: (…)». Si v. inoltre, la disposizione dell’art. 62 c.p., in tema di  circostanze attenuanti comuni: «Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: (…)». Ambedue le disposizioni fanno chiaro riferimento, quale base a cui può accedere l’elemento “circostanza”, al solo fatto di reato; non anche ad altri elementi accessori dello stesso. Non è infatti contemplato dall’ordinamento altro tipo di rapporto tra circostanze se non quello del loro eventuale concorso (cfr. artt. 63, 66, 67, 68 e 69 c.p.).

[16]     Cfr. Cass., 16 novembre 2001, sentenza n. 45275, ripresa dalla stessa Corte EDU, Drassich c. Italia (n. 2), cit., par. 34.

[17]     Da notare che, nello specifico ambito processuale, dette fattispecie criminose sarebbero applicabili a testimoni, periti e giudici.

[18]     Ad oggi, la sanzione prevista per la condotta di cui all’art. 228 Legge Fallimentare è la reclusione da due a sei anni e la multa non inferiore a euro 206,00.

[19]     C. Cost., 10 marzo 2010 (dep. 17/03/2010), n. 103, pubblicata in G.U. 24/03/2010, n. 12, reperibile on-line sul sito istituzionale della Corte (www.cortecostituzionale.it).

[20]     Cfr. C. Cost., 10 marzo 2010, n. 103, cit., Considerato in diritto, par. 2.

[21]     Per quanto riguarda la giurisprudenza della Cassazione, si v. Cass., Sez. IV, 25 giugno 2008, P.G. in c. M.D., in Archivio della nuova procedura penale, 2008, 711, la quale si cura, peraltro, di precisare la definizione di fatto diverso, escludendo dal novero degli “elementi essenziali” del fatto le circostanze del reato, in quanto elementi esterni ad esso.

[22]     A nostro sommesso avviso, un’azione di rivalutazione che andasse a configurare una modifica del fatto di reato sarebbe da inquadrare nello schema della nullità di tipo assoluto, ex artt. 178 lett. b) e 179 c.p.p, poiché con detta azione il giudicante esercita un potere che è prerogativa del pubblico ministero (ossia, l’esercizio dell’azione penale, sub specie di riformulazione dell’accusa), e non in quello della nullità a regime intermedio previsto dal combinato disposto degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p., in quanto la lesione del diritto di difesa si manifesterebbe, non come mancato rispetto delle disposizione che regolano l’intervento, l’assistenza o la rappresentanza dell’imputato, bensì come sconfinamento da parte del giudice nel ruolo che è proprio dell’accusa e che comprende l’individuazione dei termini essenziali dell’imputazione. In giurisprudenza, tuttavia, il vizio di cui all’art. 522 c.p.p. viene costantemente ricondotto all’ipotesi della nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p. In proposito, cfr. Cass., Sez. VI, 12 luglio 2012, n. 31436, in Cassazione penale, 2013, 3189; Cass., Sez. VI, 19 dicembre 2013, n. 5072/2014, in www.italgiure.giustizia.it.

[23]     In giurisprudenza si registrano, infatti, due orientamenti al riguardo: uno che considera l’estorsione un rato a dolo generico, «in quanto il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno non rappresenta soltanto lo scopo in vista del quale il colpevole si determina al comportamento criminoso, ma un elemento della fattispecie oggettiva» (così, Cass., 21 aprile 2004, n. 18380); uno che riporta il reato in parola nell’alveo delle fattispecie a dolo specifico (in proposito, si v. Cass., Sez. II, 24 giugno 2015, n. 42643, in www.italgiure.giustizia.it).

[24]     In verità, non mancano commenti che individuano nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni una fattispecie a dolo generico (v. L. Di ******, Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: analisi ragionata alla luce della sentenza n. 51433/2013, 2014, in www.giurisprudenzapenale.com), con conseguente mutamento, nel caso del ragionamento che si sta portando avanti nel testo, dell’intero elemento soggettivo del reato (e non soltanto della direzione finalistica della condotta), da dolo specifico (rapina) a dolo generico (esercizio arbitrario delle proprie ragioni). Si vedrà, comunque, che anche una variazione più radicale dell’elemento soggettivo (da dolo a colpa) può rientrare, in determinati casi, nel cono di legittimità dell’azione riqualificatrice operata in sentenza dal giudice, senza che sia quindi necessario attivare il meccanismo dell’art. 521 comma 2 c.p.p. (v. infra, nel corpo del presente elaborato). In giurisprudenza, invero, si propende per inquadrare le fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.) come reati a dolo specifico. ********, 28 ottobre 2010, n. 41368; v. inoltre, anche se si esprime in termini meno espliciti, la stessa Cass., 4 dicembre 2013, n. 51433, in www.italgiure.giustizia.it, par. 2.9 del “[Considerato in] Diritto”.

[25]     Al criterio di continenza tra (elementi dei) reati, quale base per discernere una riqualificazione legittima, seppur nelle ipotesi limite di variazione di uno degli elementi del fatto-reato, fa espresso riferimento Cass., Sez. V, 21 febbraio 2001, *********, in C.E.D. Cass., n. 219667. Con particolare riferimento alla possibilità di riqualificare, ai sensi del primo comma dell’art. 521 c.p.p., un’ipotesi di rapina in una di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., si v., ad esempio, Cass., Sez. VI, 13 giugno 2003, n. 35120, in C.E.D. Cass., n. 226654.

[26]     Si v. Cass., Sez. V, 24 maggio 2006, B.L., in C.E.D. Cass., n. 234606, secondo la quale «la mera degradazione dell’elemento soggettivo, dall’addebito doloso a colposo, non costituisce fatto diverso perché rappresenta un minus rispetto all’accusa originaria».

[27]     Arg. ex art. 409 comma 5 c.p.p.

[28]     Cass., Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 16, Di *********, in Cassazione penale, 1997, 360.

[29]     Cass., Sez. Un., 15 luglio 2010, n, 36551, *******, in C.E.D. Cass., n. 248051.

[30]     Cass., Sez. II, 10 maggio 2013, n. 34969, ********, in www.italgiure.giustizia.it.

[31]     Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, *****, in www.penalecontemporaneo.it.

[32]     Cfr. Cass., Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 16, Di *********, cit.

[33]     Si v. Cass., Sez. Un., 15 luglio 2010, n, 36551, *******, cit..

[34]     Cass., Sez. II, 10 maggio 2013, n. 34969, ********, cit.

[35]     Così, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, *****, cit.

[36]     Corte EDU, Grande Camera, ***************** c. Russia, in Banca dati “HUDOC” della Corte EDU, URL specifico: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-109868, par. 89. Le frasi riportate nel testo sono il frutto della nostra personale traduzione e rielaborazione di quelle che sono le parole ufficiali usate della Corte, e che di seguito si riportano: «Although the primary purpose of the Convention system is to provide individual relief, its mission is also to determine issues on public-policy grounds in the common interest, thereby raising the general standards of protection of human rights and extending human rights jurisprudence throughout the community of the Convention States».

[37]     In termini simili si è espressa la Corte EDU nel caso Deweer c. Belgio del 1980. Si v. Corte EDU, 27 febbraio 1980, Deweer c. Belgio, in Banca dati “HUDOC” (URL specifico: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-57469), § 46. Le frasi riportate nel testo sono il frutto della nostra personale traduzione e rielaborazione di quelle che sono le parole ufficiali utilizzate della Corte, e che di seguito si riportano: «The “charge” could, for the purposes of Article 6 par. 1 (art. 6-1), be defined as the official notification given to an individual by the competent authority of an allegation that he has committed a criminal offence».

[38]     Detti criteri sono stati ricavati da *********, 23 novembre 1976, Engel ed altri c. Olanda, in Banca dati HUDOC (URL specifico: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-57478).

[39]     Si v., in proposito, Corte EDU, Seconda Sezione, 4 marzo 2014, Grande ******* e altri c. Italia, in Banca dati HUDOC della Corte, disponibile – in lingua italiana – al seguente URL: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-146249.

[40]     Nel caso Grande ******* e altri c. Italia (Corte EDU, Seconda Sezione, 4 marzo 2014, cit.), per esempio, le sanzioni che sono state giudicate di natura penalistica provenivano dalla CONSOB, ossia da un’autorità di natura amministrativa che vigila sulle attività degli operatori dei mercati finanziari.

[41]     Corte EDU, Drassich c. Italia (n. 1), cit., par. 34.

[42]     Cfr. al riguardo Cass., Sez. VI penale, 25 gennaio 2013, n. 6578, **********, in www.italgiure.giustizia.it, dove si afferma, al paragarafo 4 del provvedimento, che: «Se è vero che la lettura giuridica adeguata del fatto contestato è punto della decisione che può essere introdotto anche per la prima volta nel giudizio di legittimità, tuttavia tale tardiva deduzione, pur in sé ammissibile, soffre inevitabilmente dei limiti di cognizione della Corte suprema, che non consentono alcun accesso e confronto con il contenuto probatorio degli atti e con la sua valutazione di merito. Quando infatti il tema della riqualificazione giuridica è introdotto come motivo nuovo, il fatto storico con cui è possibile il confronto deve necessariamente essere quello ricostruito dai giudici del merito, insuscettibile di letture alternative del fatto». Conforme Cass., Sez. I penale, 15 novembre 2013, n. 3763/2014, *******, in www.italgiure.giustizia.it, dove si invita alla lettura del par. 3.1: «in tanto è possibile accedere a una diversa qualificazione del fatto in quanto vi sia stata ad hoc la presentazione di un motivo nuovo dell’imputato sul punto, non enunciato in appello, purché nei limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dai giudici di merito».

[43]     Recita infatti l’art. 603 del codice di rito: «Quando una parte (…) ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l’assunzione di nuove prove, il giudice se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale» (comma 1); «La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale e? disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria» (comma 3).

[44]     Si rammente che questo tipo di definizione è stata adoperata per l’esigenza di rendere più agevole la lettura dell’elaborato, volendo con tale termine indicare quel fenomeno in base al quale il giudice, ritenendo sussistente un “fatto diverso” rispetto a quello contestato formalmente nell’imputazione, decida di condannare l’imputato direttamente per quel fatto, senza attivare il meccanismo di restituzione degli atti che è previsto dal codice di rito.

[45]     V. supra, pargrafo 3 del presente scritto, pp. 29-33.

[46]     I termini del discorso non si ritiene possano mostrarsi sostanzialmente diversi anche qualora si considerasse la nullità ex art. 522 c.p.p., legata alle ipotesi di “riconsiderazione dell’addebito”, una nullità a regime intermedio (artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p.), così come sembra orientata a fare la giurisprudenza maggioritaria. Trattandosi di nullità che si è verificata nel corso del giudizio (e, precisamente, al momento della deliberazione della sentenza), l’imputato avrebbe sino alla deliberazione della sentenza del grado successivo per eccepire il vizio (cfr. artt. 180 e 182 c.p.p.); la questione si sposta sotto il profilo della decadenza (artt. 172- 176 c.p.p.), ma poiché nel caso di specie la nullità si sarebbe verificata a conclusione del giudizio di cassazione, l’inesistenza di un grado successivo fa propendere per ritenere obiettivamente impossibile il perfezionarsi di quest’ultimo vizio processuale legato all’inutile decorso del tempo.

[47]     V. C. Cost., sentenza 7 aprile 2011, n. 113, cit.

[48]     Per ripercorrere il decisum della Corte EDU nel secondo caso Drassic c. Italia, v. supra, par. 2 del presente scritto Si ricorda che il provvedimento a cui si fa riferimento nel testo è Corte EDU, Sezione Prima, 22 febbraio 2018, Ricorso n. 65173/09, Drassich c. Italia (n. 2), cit.

Avv. Paoletti Alessandro

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