La Cassazione sul discrimine tra critica legittima e diffamazione

Giuseppe Paci 03/07/24
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La Cassazione ha stabilito che la parola “pezzente” proferita nel corso di un processo in circostanze peculiari da una delle parti in causa non lede la reputazione altrui.

Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista: Formulario annotato del processo penale

Indice

1. La vicenda

La decisione della Cassazione scaturisce dal ricorso presentato da un uomo avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che in sede di appello aveva confermato le statuizioni del Giudice di Pace circa la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di un processo civile, in presenza di più persone, in danno della persona offesa costituitasi parte civile nel processo penale, la parola “pezzente”.
Il ricorrente, nell’articolare la propria censura dinanzi al Supremo collegio con unico motivo, ha lamentato in tale sede l’erronea applicazione dell’art. 595 c.p. alla stregua di quanto previsto dall’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., giacché il termine usato dal stesso ricorrente, al lume dei precedenti giurisprudenziali in merito, non avrebbe un effetto diffamatorio tale da configurare la fattispecie di cui all’art. 595 c.p. Peraltro, nel caso di specie sarebbe mancata la prova del dolo generico, in quanto l’intento dell’imputato sarebbe stato soltanto quello di manifestare una critica permessa dal contesto.
Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista:

Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 25026 del 25/06/2024

Cass.-pen.-sez.-V-ud.-3-aprile-2024-dep.-25-giugno-2024-n.-25026.pdf 92 KB

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2. La questione giuridica: discrimine tra critica legittima e diffamazione

La questione al vaglio della Corte di Cassazione verte sulla configurabilità o meno del reato di diffamazione alla luce del principio di offensività in concreto, da intendersi quale criterio orientativo-interpretativo di matrice costituzionale a disposizione del giudice, che consente di selezionare tutte quelle condotte potenzialmente o concretamente lesive del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
A questo proposito, i giudici di Piazza Cavour nel circoscrivere la portata applicativa del fattispecie criminosa di diffamazione posta a tuteladella reputazione,da intendersi “come la considerazione personale di cui ogni soggetto può pretendere di godere nella società civile”, hanno richiamato quel consolidato orientamento giurisprudenziale che in subiecta materia richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento (cfr. sez. 5, n. 5654 del 19/10/2012; sez.5, n. 34178 del 10/02/2015, Rv. 264982; sez.5, n. 22598 del 25/02/2010, Siggia, Rv. 247352; in motivazione, sez. 5, n. 37383 del 16/06/2011, Benetton, Rv. 251517).
Una ricostruzione siffatta, decisiva per pervenire ad una prognosi di colpevolezza in capo al soggetto agente, non è riscontrabile nella vicenda in commento, giacché il ricorrente ha pronunciato la parola incriminata nei confronti della controparte in modo del tutto estemporaneo ed impulsivo, al di fuori di un più ampio e articolato contesto dialogico.

3. La decisione della Cassazione

Sulla scorta delle coordinate ermeneutiche poc’anzi illustrate, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ritenendo che nel caso di specie non fosse configurabile il reato di diffamazione,  rilevando in questo senso che “se per un verso non è dato comprendere il senso compiuto dell’esclamazione nel contesto, peraltro intimamente e necessariamente conflittuale, dell’interlocuzione tra le parti del processo civile in corso, che già di per sé innesta un ragionevole dubbio sulla configurabilità di un inequivoco “attacco ad hominem”, non è possibile cogliere, per altro verso, l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio-culturale circostante”. 
Pertanto, essendo la parola oggetto di vaglio processuale intrinsecamente inidonea ad inficiare la complessiva sfera reputazionale della vittima in base alle circostanze desumibili dalla vicenda, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata per insussistenza del fatto.

Giuseppe Paci

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