I fatti
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte si è pronunciata avverso un ricorso proposto dai genitori della figlia minorenne deceduta per arresto cardiaco conseguente ad insufficienza respiratoria acuta.
I due genitori avevano dapprima adito il Tribunale di Nola al fine di ottenere risarcimento dei danni -in particolare una paralisi cerebrale infantile, con conseguente invalidità permanente – che la figlia aveva riportato a seguito della anossia verificatasi al momento del parto.
In particolare, gli attori avevano convenuto in giudizio la clinica privata nella quale la madre aveva partorito, il personale medico che aveva praticato il parto e il dottore ginecologo della stessa, il quale nonostante avesse dovuto assistere personalmente la paziente al momento del parto, si era recato tardivamente presso la casa di cura.
All’esito del giudizio di primo grado, era stata dichiarata la responsabilità di tutti i convenuti condannati al risarcimento del danno a favore degli attori.
Successivamente era stato proposto appello alla Corte d’Appello territorialmente competente da parte dei convenuti e fra questi anche dal dottore ginecologo della madre, il quale chiedeva che venisse negata ogni responsabilità a suo carico o quantomeno che venisse rideterminata la graduazione della colpa (riconosciuta, nel primo grado, al 60%).
La corte d’Appello confermava la responsabilità della struttura sanitaria per il danno subito dalla neonata e per non aver fornito assistenza medica adeguata alla partoriente e a causa della condotta professionale non diligente dell’ostetrica. Tuttavia, i giudici di merito avevano rideterminato (al ribasso) l’importo del risarcimento a favore dei genitori.
Per quanto concerne la posizione del Dottore ginecologo, i giudici confermavano la responsabilità di quest’ultimo, precisamente che tra la paziente, ossia la madre della bambina danneggiata e il ginecologo si era instaurata una relazione da c.d. contatto sociale, dalla quale scaturisce un rapporto di natura contrattuale.
In particolare, i giudici di appello confermavano le circostanze, già accertate nel giudizio di primo grado, ossia il fatto che la neonata non era stata monitorata durante il travaglio e non era stato riportato nella sua cartella clinica l’indice di Apgar. Inoltre, escludevano che la patologia fosse stata causata da fattori prenatali e attribuivano rilevanza causale alla anossia verificatasi al momento del parto che poneva in rapporto causale con la carente assistenza e la mancanza di monitoraggio con appositi macchinari, che avrebbe rilevato la sofferenza fetale e avrebbero permesso di scegliere per un cesareo d’urgenza. Infine, ribadivano che se il medico ginacologo fosse arrivato in tempo alla clinica, sarebbe potuto intervenire tempestivamente, una volta rilevata la sofferenza fetale, con un parto cesareo d’urgenza.
Alla luce del principio del più probabile che non, tali circostanze venivano qualificate come condotte idonee ad aver cagionato la patologia neurologica diagnosticata alla minore.
Non soddisfatto neanche della decisione di seconde cure, il ginecologo proponeva ricorso, innanzi la Suprema Corte di Cassazione, avverso la sentenza di secondo grado.
I motivi di ricorso
Il ricorso proposto innanzi la corte di Cassazione si fondava su 5 motivi.
- Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 1218 c.c. relativamente alla relazione, qualificata come contrattuale, instauratasi tra il dottore e la partoriente.
- Con il secondo motivo, il ricorrente lamentava la violazione della sopravvenuta disciplina dell’articolo 7 comma 3 della Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) in materia di responsabilità extracontrattuale dell’operatore sanitario, denunciando l’omesso esame circa la natura della responsabilità alla luce di detta disciplina;
- Con il terzo motivo di ricorso, veniva denunciata la violazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., evidenziando che dalla CTU effettuata in primo Grado era risultato che l’anossia al momento del parto spontaneo si era verificata senza che, fino a quel momento, vi fossero stati segni di sofferenza fetale. In particolare, il ricorrente sosteneva che mancava la prova del nesso causale tra l’operato dello stesso e i danni riportati dalla paziente;
- Con il quarto motivo di ricorso, sempre denunciando la violazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., il ricorrente lamentava che era stato omesso l’esame in merito alla ripartizione delle responsabilità tra il medico stesso e la casa di cura;
- Con il quinto motivo di ricorso, denunciava l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in merito alla mala gestio allo stesso attribuita.
Per gli Ermellini i primi tre motivi di ricorso erano infondati, il terzo e il quarto motivo inammissibili.
Innanzitutto gli Ermellini hanno ritenuto che, alla luce delle risultanze della sentenza di secondo grado, il rapporto tra il medico e la paziente fosse di natura contrattuale, alla stregua del quale il ginecologo è stato inadempiente in quanto, nonostante la sua precedente dichiarata disponibilità ad assistere la paziente durante il parto, lo stesso non era stato presente tempestivamente. Tale inadempienza ha avuto diretta incidenza sulla salute della partoriente e della neonata.
Dunque, al rigetto del primo motivo di ricorso è conseguito il naturale rigetto del secondo motivo poiché la ricostruzione del rapporto medico-paziente in termini di natura contrattuale per il motivo di cui sopra, esclude l’applicabilità del regime di responsabilità extracontrattuale, secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 3 della L. Gelli-Bianco che prevede tale ultimo regime come residuale per la sola ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale che lega il medico e il paziente.
Il nesso causale tra l’operato del dottore ginecologo e i danni riportati dalla paziente
Il ricorrente ha evidenziato che, sulla base della CTU, l’anossia patita dalla neonata si era verificata dopo un travaglio relativamente lungo e senza che fino al momento del parto vi fossero stati segni di sofferenza fetale. Ciò, a opinione del ricorrente, era idoneo ad escludere causalità tra la sua condotta e i danni patiti dalla paziente.
Gli ermellini, pronunciandosi su tale motivo di ricorso, hanno richiamato quanto detto e specificato dai giudici di merito, secondo cui erano stati accertati comportamenti negligenti o imprudenti in capo sia all’equipe medica di turno presso la casa di cura sia al dottore ginecologo. Tali comportamenti infatti, alla luce della regola de più probabile che non, erano stati idonei a causare il verificarsi del danno, ossia i danni di salute diagnosticati alla paziente.
In particolare, i giudici, pur non essendo in grado di accertare il momento preciso o l’inadempienza esatta dalla quale è scaturita l’anossia, hanno accertato che le condotte negligenti dei medici e l’inadempienza del dottore sono sufficientemente idonei a poter affermare che se la sequenza dei fatti e delle condotte fosse stata diversa, la neonata non avrebbe riportati i danni che ha, invece, dovuto subire.
In tal modo, gli Ermellini hanno spiegato tutte le circostanze di fatto che, nel loro collegamento funzionale e secondo l’applicazione della regola del più probabile che non, sono sufficienti a ritenere provata la sussistenza del nesso di causalità materiale tra l’operato dei sanitari (e del dottore ginecologo) e il verificarsi del danno derivante da anossia al momento del parto.
Conseguentemente, i giudici hanno interamente rigettato il ricorso del ginecologo.
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