Cassazione SS.UU. sentenza 15350 del 22 luglio 2015. Il danno tanatologico non è risarcibile.

Il 22 luglio 2015, con il deposito della sentenza n. 15350, le Sezioni Unite di Cassazione hanno suonato il de profundis del danno tanatologico. In dieci pagine di motivazione si pone fine alla querelle “risarcimento del danno alla vita si” – “risarcimento del danno alla vita no”, condita con qualche affermazione ad effetto “non si può lasciare senza tutela il diritto primo cioè il diritto alla vita” rendendo paradossalmente più conveniente uccide che ferire.

Com’è noto sono decenni che si discute in giurisprudenza di danno tanatologico, cioè di quel danno che si verifica quando un soggetto decede istantaneamente o quasi rispetto al momento in cui subisce l’azione illecita altrui. Exitus tanto repentino da non consentire la configurazione in capo allo stesso di un danno, patrimoniale o non patrimoniale, nella duplice accezione di danno differenziale e normativo. Per il nostro ordinamento giuridico il danno risarcibile ex art. 2043 c.c. è quel ingiusto che abbia comportato un peggioramento quantitativo e qualitativo della sfera giuridica della vittima rispetto a quelle condizioni che sarebbero state rilevabili in capo alla stessa in mancanza della condotta illecita altrui. È risarcibile quindi solo il danno-conseguenza e non il solo danno-evento. È inoltre un danno normativo, perché è risarcibile solo quel danno ingiusto differenziale che soddisfi i requisiti ex artt. 1223 e 2046 c.c.: si deve trattare di un danno che costituisce conseguenza diretta ed immediata della condotta illecita sulla base di del criterio di regolarità dell’id quod plerumque accidit.

Affinché possa parlarsi di danno differenziale è imprescindibile la possibilità di condurre un giudizio di comparazione tra la situazione giuridica della vittima ante e post condotta illecita.

Se ci fermassimo a questa considerazione dovremmo senz’altro concludere nel senso che in caso di morte immediata della vittima di un illecito, la differenza tra il prima ed il dopo è massima, perché il decesso determina l’estinzione della persona fisica e conseguentemente il venire meno di tutte le attribuzioni giuridiche soggettive di vantaggio. Sennonché la morte costituisce non solo e non prioritariamente la fine di tali posizioni giuridiche soggettive individuali, ma il venir meno dello stesso soggetto giuridico titolare delle stesse. La morte determina la perdita della capacità giuridica, che ex art. 1 si acquisisce con la nascita, e quindi della idoneità di un soggetto ad essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive. Avendo la responsabilità civile funzione compensatorio-risarcitoria ed essendo finalizzata ad assicurare alla vittima un ristoro delle conseguenze negative derivanti dal danno ingiusto, si è posto in dubbio l’esistenza di un diritto al risarcimento del danno iure proprio in capo alla vittima deceduta derivante proprio dalla morte. L’acquisto del diritto si verificherebbe, difatti, non solo nel momento del definitivo trapasso, ma anche a causa di esso; può la vittima che cessa di essere soggetto dell’ordinamento giuridico quando muore vantare un diritto quando è già morte e a causa della sua dipartita? Al quesito le Sezioni Unite di Cassazione nelle sentenze di San Martino del 2008 avevo risposto in senso negativo, fermo restando il diritto dei congiunti al risarcimento del danno da perdita parentale. Nonostante la chiara presa di posizioni del massimo consesso della giurisprudenza civile, il dibattito è rimasto accesso fino alla sentenza n. 1361 del 2014, con la quale la Cassazione si pronuncia per l’ammissibilità del risarcimento del danno in capo alla vittima ergo la legittimazione degli eredi a richiederlo iure hereditatis. Le motivazioni fornite sono più retoriche che di diritto: non si può lasciare sfornito di tutela il diritto alla vita e risarcire il diritto alla salute, essendo il primo più importante e comunque assorbente il secondo; si renderebbe paradossalmente più conveniente uccidere che ferire. Su input della terza sezione della Cassazione, ordinanza del 4 marzo 2014, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite, che confermando l’orientamento tradizionale ha affermato che “nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni (…) si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis”, perché “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza del suddetto diritto”. Così si era pronunciata la Cassazione nella sua composizione massima già nel 1925 (sentenza n. 3475 del 22 dicembre). L’orientamento contrario, sottolinea la Corte, si poggia, ancorché non espressamente, su una concezione della responsabilità civile di titpo sanzionatorio, che ammissibile nella vigenza dell’art. 1151 c.c. 1865, non può più essere condivisa all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile 1942 e della novellata riformulazione della norma sul risarcimento del danno da fatto illecito ex artt. art. 2043 e 2059 c.c.. Focalizzando l’attenzione sul “danno ingiusto” e non più sulla “condotta illecita”, il legislatore ha organizzato il sistema della responsabilità civile intorno alla tutela della vittima, finalizzandolo alla compensazione delle conseguenze negative dalla stessa subite, senza che rilevi in qualche misura, neppure minimale, la funzione retributiva dell’agere illecito. Tanto sarebbe possibile ove si ammettesse il ristoro del danno-evento e non del solo danno conseguenza, con apertura alla rifusione dei c.d. danni punitivi. Sul punto va ricordato che la Corte di Giustizia dell’U.E. nel 2006 ha stabilito che i singoli ordinamenti giuridici degli Stati Membri dell’UE sono liberi di decidere in ordine alla risarcibilità o meno dei danni punitivi, non essendo la loro ammissibilità necessaria ai fini della conformità del diritto nazionale al diritto comunitario. La Cassazione, tuttavia, ha già avuto modo di esprimersi in ordine alla incompatibilità di tale istituto di matrice statunitense con l’impianto del nostro sistema di responsabilità civile: la funzione riparatoria della responsabilità aquiliana e contrattuale è incompatibile con la possibilità di ottenere somme di denaro non correlate all’entità del danno subito, configurando tale eventualità una occasione di lucro da fatto illecito.

In ragione di tale scopo, non può essere ammesso a risarcimento il danno tanatologico, con il quale non si risarcirebbe la vittima, che del risarcimento non può più astrattamente giovarsi, ma si assicurerebbe un lucro agli eredi ed allo Stato quale ultimo e necessario successore. Condivisibilmente le Sezioni Unite precisano che, contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento favorevole, la lesione del diritto alla vita, sfornito di una tutela sul piano civilistico, giammai rimarrebbe sprovvisto di rimedi effettivi di garanzia: l’azione penale, infatti, rimane il presidio supremo dei beni giuridici personalissimi che, proprio per la peculiarità della loro natura, non potrebbero essere efficacemente protetti contro le lesioni altrui se non con un presidio di legalità forte quale quello repressivo penale.

L’occasione è propizia anche per la riaffermazione, in ossequio alle conclusioni delle SS.UU. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008, sull’unità del danno non patrimoniale, essendo privo di rilievo, se non sul piano meramente descrittivo, il riferimento alla categoria del danno esistenziale:  “non sono configurabili all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perché se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatto-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all’art. 2059 c.c.”.

Antonia Quartarella

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