Con sentenza del 24 settembre 2013, pubblicata il 7 gennaio 2014, le Sezioni Unite di Cassazione sono state chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto in materia di esecuzione forzata ed in particolare in ordine alle conseguenze dell’inefficacia del titolo esecutivo con il quale si sia proceduto a pignoramento sul processo di esecuzione nell’ambito del quale fossero intervenuti altri creditori titolati, a mezzo intervento ex art. 499 c.p.c. ovvero con successivo pignoramento.
Due gli orientamenti che si erano fino a questo momento contrapposti.
Per il primo, più recentemente sostenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 3531/2009, l’inefficacia del titolo del creditore procedente avrebbe travolto l’intera procedura esecutiva, fatta eccezione per l’ipotesi altro creditore avesse proposto autonomo pignoramento, poi riunito a questo. La conclusione veniva tratta a contrario dal disposto dell’art. 493 c.p.c., secondo cui: “ogni pignoramento ha effetto indipendente, anche se è unito ad altri in unico processo”. Se il legislatore aveva specificato che più pignoramenti, anche se riuniti in un’unica procedura esecutiva, mantenevano la propria autonomia, si doveva dedurre che i meri interventi, invece, seguissero le sorti del pignoramento unico. Secondo i sostenitori di questa tesi, condivisa anche dalla dottrina maggioritaria, non osterebbe a ciò la previsione dell’art. 629 c.p.c.: la norma, infatti, solo in via di eccezione prevederebbe per l’estinzione del processo esecutivo a seguito di rinuncia agli atti, prima dell’assegnazione, l’accettazione di tutti i creditori titolati intervenuti. L’opzione per un mero intervento nella procedura esecutiva già avviata da altri o la proposizione di un autonomo atto di pignoramento sarebbe fatta a rischio e pericolo del creditore titolato; in caso di inefficacia del titolo del creditore procedente, con conseguente travolgimento dell’intera procedura esecutiva, il creditore titolato non potrebbe invocare tutela per consentire la conservazione della stessa, dovendo dolersi con sé stesso per la scelta di un mezzo esecutivo non idoneo nel caso di specie.
Per altro orientamento risalente alla sentenza n. 427/78, invece, si riconosceva rilevanza oggettiva all’impulso del creditore procedente ed agli atti che fossero stati posti in essere nel corso della procedura esecutiva: se il processo esecutivo è improntato alla par condicio creditorum, non v’è ragione di ritenere, si osservava, che l’inefficacia del titolo del creditore procedente possa travolgere l’intera procedura esecutiva, qualora sussistano altri creditori muniti di titolo esecutivo efficace, considerato il disposto dell’art. 500 c.p.c. : “l’intervento (…) dà diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata, a partecipare all’espropriazione del bene pignorato e a provocarne i singoli atti”. L’esecuzione si configura come “un processo a struttura soggettivamente aperta, nel quale, accanto al creditore pignorante ed al debitore (suoi originari soggetti), possono entrarvi, quali ulteriori, successivi soggetti, gli altri creditori del debitore esecutato che vi facciano intervento (…). L’atto di esercizio della propria azione esecutiva da parte di un legittimato è anche atto di esercizio delle azioni esecutive degli altri legittimati e l’atto compiuto da un legittimato si partecipa agli altri legittimati ed è momento di concretizzazione di tutte le azioni esercitate nel processo esecutivo”.
Le Sezioni Unite compongono detto contrasto, aderendo all’orientamento giurisprudenziale più risalente, attraverso un’interpretazione sistematica degli artt. 493, 500 e 629 c.p.c., 2913 c.c.: “nel processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l’illegittimità dell’azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido, non è caduto, bensì resta quale primo atto dell’iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante”. Se non può negarsi che la procedura esecutiva dia luogo ad un c.d. vincolo a porta aperta – perché non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento, salvi gli effetti del possesso di buona fede per i mobili non iscritti in pubblici registri – bisogna tuttavia distinguere a seconda che l’inefficacia del titolo con il quale il creditore procedente abbia avviato l’esecuzione forzata sia radicalmente inefficace ex tunc oppure lo sia divenuto successivamente. Il semplice intervento titolato sarà idoneo a sorreggere la procedura esecutiva, nonostante la caducazione del titolo del creditore procedente, solo se quest’ultimo titolo fosse valido in origine, anche se successivamente sia venuto meno. E’ invalido ab origine, qualora non fosse esecutivo al momento del suo impiego nella procedura coattiva per vizi intrinseci all’atto di pignoramento ovvero ad atti a questo prodromici, che non siano stati sanati o che non fossero sanabili per mancata tempestiva proposizione delle opposizioni, come per esempio nel caso in cui il titolo non fosse esecutivo ex art. 474 c.p.c., o ancora in caso di impignorabilità dell’esecuto. In queste ipotesi, il pignoramento sarebbe stato intrapreso illegittimamente, sicché la caducazione del titolo del creditore procedente travolgerebbe inevitabilmente l’intera procedura, senza che possa rilevare la presenza di altri creditori intervenuti ugualmente titolati. Si parla, invece, di inefficacia sopravvenuta, quando il titolo originariamente valido ed efficace sia venuto meno in conseguenza delle vicende del processo in cui si sia formato: esempio emblematico è quello del decreto ingiuntivo che sia stato emesso provvisoriamente esecutivo, in virtù del quale sia stata avviata la procedura esecutiva; se nelle more della conclusione del processo esecutivo, il decreto sia impugnato e successivamente revocato, per difetto dei presupposti ex art. 633 c.p.p. o per l’accoglimento dell’opposizione, per ragioni di rito o di merito, l’inefficacia sopravvenuta inciderebbe solo ed esclusivamente sul potere del creditore di dare ulteriore impulso al processo esecutivo in vista del soddisfacimento del suo interesse creditorio, mentre non sarebbe idonea ad inficiare l’atto di pignoramento all’epoca valido, in presenza di creditori intervenuti con titolo esecutivo in quel momento ancora valido. Nel momento in cui il creditore titolato si trovi dinanzi alla scelta tra proporre un semplice intervento nella procedura esecutiva già avviata da altri o proporre un nuovo pignoramento sarà chiamato a valutare in maniera ragionevole solo se il titolo del creditore procedente sia stato emesso validamente e non anche se all’esito dell’utile esperimento dei mezzi di impugnazione ordinari e straordinari sarà confermato o meno o se non risulterà travolto all’esito dell’esperimento delle opposizioni.
La soluzione de qua, conclude la Corte, oltre a trovare riscontro nell’interpretazione sistematica delle norme innanzi richiamate, risulta essere anche quella più ragionevole sotto il profilo pratico. Il rischio che la procedura esecutiva sia travolta per la riforma del titolo del creditore procedente porterebbe alla moltiplicazione delle procedure coattive in via principale, all’aumento dei costi gravanti su creditori ed in ultimo sul debitore, alla riduzione del ricavato dalla vendita da ripartire tra i creditori concorrenti, nonché, a parere di chi scrive, il ricorso più frequente al cumulo dei mezzi di espropriazione ex art. 483 c.p.c.. Conseguenze che in tempi di crisi e spending review decisamente non ci possiamo permettere.
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