La funzione della causa
Altra parte della dottrina fornisce una diversa definizione di causa considerandola una funzione economico- individuale, intesa come contrapposizione di interessi che si soddisfano mediante il meccanismo contrattuale. Attraverso tale teoria si riconosce un assetto dinamico e concreto di interessi perseguibili dalle parti che possono adottare schemi predeterminati dalla legge o crearne di nuovi, purché meritevoli di tutela. L’impostazione descritta è stata avallata dalle Sezioni Unite come teoria della causa in concreto al fine di evidenziare che la causa non può essere individuata in astratto ma deve essere desunta concretamente da tutti gli elementi essenziali ed accidentali del singolo negozio. Ne consegue che anche un negozio tipico potrebbe aver una causa illecita. La Suprema Corte, invero, chiarisce che la causa non deve considerarsi come una funzione astratta e sociale del negozio bensì come funzione individuale dello specifico contratto diretto a realizzare una sintesi dinamica degli interessi e non la mera volontà delle parti. Alla luce dell’approdo richiamato appare chiara la distinzione tra l’architettura strutturale del negozio e la causa .
Occorre precisare che non bisogna confondere la causa dal motivo. Quest’ultimo, infatti, s’identifica nella ragione individuale che spinge le parti alla stipula del contratto. Un esempio è fornito in tema di contratto di compravendita in cui la causa consiste nello scambio tra il bene e il prezzo mentre i motivi che spingono i contraenti sono personali e possono essere diversi. Tuttavia, vi sono delle ipotesi in cui, eccezionalmente, l’ordinamento attribuisce una rilevanza giuridica (come nel caso di motivo illecito in sede testamentaria ex art. 626 c.c. ovvero quando le parti eleggono il motivo come condizione del contratto).
Il controllo di meritevolezza
Dunque, attraverso la causa, il giudice controlla la meritevolezza perseguita dalle parti non solo nei contratti atipici ma anche in quelli tipici poiché anche in questi ultimi la causa va indagata in concreto. Sull’estrinsecazione del controllo di meritevolezza dell’interesse perseguito dalle parti vi sono state diverse interpretazioni; un primo indirizzo interpretativo considera meritevoli di tutela soltanto quei contratti che perseguono interessi socialmente utili. Tuttavia, seguendo tale impostazione, si rischia di sottoporre l’autonomia negoziale ad un controllo di funzionalità sociale. Un secondo orientamento invocando i principi costituzionali di cui agli artt. 2,3 e 41 ritieni meritevoli di tutela quei contratti che, pur non socialmente utili, mirano a realizzare interessi intrecciati a valori solidaristici. Un diverso filone interpretativo ritiene, invece, che il giudizio di cui all’art. 1322, II comma, debba coincidere con quello di liceità ex art 1343c.c.. In tale ultima ipotesi, il controllo giudiziale si tradurrebbe in una verifica della non contrarietà a norme imperative ordine pubblico e buon costume del negozio. Un recente orientamento giurisprudenziale ha invece ritenuto che la valutazione di meritevolezza degli interessi perseguiti deve avvenire alla stregua dei valori dell’ordinamento costituzionale e dei principi dell’Unione europea e della Convenzione dei diritti dell’uomo.
Relativamente ai rimedi esperibili in presenza di un contratto connotato da un grave squilibrio economico un primo indirizzo ha ritenuto che debba operare la nullità per difetto di causa ai sensi dell’art 1418 c.c. mentre un diverso orientamento ha rilevato distinguere l’ipotesi in cui il contratto di scambio sia avvenuto ad un prezzo irrisorio dal caso in cui sia stato pattuito un prezzo simbolico. In quest’ultimo caso, la vendita a prezzo simbolico veniva considerata nulla per difetto di causa mentre, attualmente, alla luce della causa in concreto il giudice può ritenerla valida se alla base vi è un’adeguata giustificazione. Pertanto, lo squilibrio tra prestazioni non è per sé sindacabile come indice di un negozio iniquo da invalidare, poiché in virtù dell’autonomia contrattuale le parti possono scegliere liberamente l’accordo negoziale. Spesso, infatti, la differenza tra prezzo e valore del bene è l’espressione di una liberalità e, in tal caso, non opera la logica della nullità solo perché vi è una sproporzione tra i valori delle prestazioni. In presenza, dunque, di uno scambio anomalo se sorretto da una causa valida il controllo sull’equilibrio contrattuale avviene in casi macroscopicamente sproporzionati.
Il negozio illecito
Una particolare figura di negozio illecito è il negozio in frode alla legge inteso come negozio indiretto con finalità illecita. L’articolo 1344 c.c. prevede che il contratto è considerato dall’ordinamento in frode alla legge, con la conseguente causa illecita, allorquando “costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. Preme differenziare la frode alla legge dal concetto di contrarietà a norme imperative poiché nel primo caso la violazione alla legge avviene in via mediata. Invero, il contenuto negoziale non risulta vietato ma s’inserisce in una combinazione negoziale diretta alla realizzazione di un risultato ulteriore vietato dalla legge. La frode, dunque, si estrinseca con un contratto lecito al fine di realizzare attraverso altri atti giuridici un ulteriore risultato vietato dalla legge. Un esempio di contratto in frode alla legge è rappresentato dal divieto del patto commissario disciplinato dall’art 2744 c.c. eludibile attraverso il ricorso allo schema della vendita con patto di riscatto.
Al fine di individuare i caratteri del negozio in frode alla legge si sono contrapposti due orientamenti. Il primo, aderendo ad una concezione oggettiva, considera il contratto in frode alla legge quando le parti mediante patti aggiuntivi perseguono lo stesso risultato vietato dalla norma imperativa. Altra parte della dottrina, aderendo alla teoria soggettiva, ritiene necessaria la presenza di due requisiti affinché possa sussistere il contratto in frode alla legge; un requisito oggettivo che consiste nel perseguire una finalità simile a quella stigmatizzata dalla norma e un requisito soggettivo che s’identifica nell’intenzione fraudolenta dei contraenti. Tuttavia, la giurisprudenza più recente ha chiarito che sussiste il negozio de quo quando le parti perseguono un fine contrario a norma imperativa nonché ai principi dell’ordinamento ovvero al buon costume senza che occorre l’intenzione di recare pregiudizio ad altri soggetti, atteso che non esiste una norma che stabilisca l’invalidità del negozio in frode a terzi. In tale circostanza, infatti, il contratto in frode o in danno a terzi non è nullo. Il terzo danneggiato dal contratto può invocare rimedi specifici a seconda del pregiudizio derivante dall’altri attività negoziale.
Ulteriore distinzione riguarda la frode alla legge dalla frode ai creditori; quest’ultima, invero, è l’operazione che sottrae ai creditori la loro garanzia patrimoniale, in tale ipotesi il rimedio esperibile non è la nullità ma l’azione revocatoria che rende il contratto inefficace.
Alla luce di quanto esposto, il legislatore, con la disposizione ex art. 1344 c.c., detta una norma che costituisce una valvola di sicurezza, introducendo la possibilità di comminare una nullità nel caso in cui il concreto risultato delle parti confligga con un divieto di legge.
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