1. La questione
Avverso un ricorso proposto da un imputato avverso una sentenza emessa dalla Corte di Appello Bologna che condannava costui in relazione all’art. 5 del d.lgs. 74/2000, tra le doglianze addotte, vi era una con cui si censurava l’operato dei giudici di merito perché, ad avviso della difesa, le sentenze intervenute si sarebbero solo fondate su inammissibili, in sede penale, presunzioni tributarie.
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva la censura summenzionata fondata poiché, con riguardo alla valenza in sede penale delle presunzioni tributarie (segnatamente di quella di cui all’art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973 – la quale configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari -) , la stessa Cassazione ha ritenuto le stesse inutilizzabili in base al principio secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013 – dep. 13/02/2013).
Orbene, nel caso in esame, ad avviso degli Ermellini, dalle due sentenze conformi emesse non emergeva una verifica di elementi oggettivi di riscontro rispetto alle emergenze dei dati bancari, tanto più se si considera che non valeva a sorreggere il dato indiziario costituito dalle risultanze di dette indagini bancarie, il mero richiamo alla esclusione di talune entrate sulla base di previ criteri di irrilevanza, ai fini in esame, delle stesse, né il silenzio serbato dal contribuente (sul punto cfr. Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016) visto che non è consentito al giudice desumere dal silenzio dell’imputato sulla giustificazione di apparenti entrate reddituali, elementi o indizi di prova a suo carico atteso che allo stesso è riconosciuto diritto al silenzio e che l’onere della prova grava sull’accusa (Sez. 6, n. 8958 del 27/01/2015) così come la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell’imputato, di circostanze valutabili a suo carico, oltre la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime, possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare ed in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo ciò determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio (in termini: Sez. 1, n. 2653 del 26/10/2011).
Orbene, nel quadro probatorio emerso nel corso del processo, per i giudici di piazza Cavour, in tale quadro, mancava proprio l’esistenza di quegli “univoci elementi probatori di accusa” non potendo le risultanze derivanti dalle indagini bancarie, proprio in relazione alla inutilizzabilità della presunzione di cui al citato art. 32, rappresentare, ex se, idoneo elemento di prova per sorreggere la tesi dell’accusa, inidoneità non solo probatoria ma nemmeno indiziaria posto che nel reato di omessa dichiarazione è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014).
Sulla base delle considerazioni che precedevano, la Corte di legittimità riteneva pertanto come andasse annullata la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.
3. Conclusioni
La decisione in esame è di un certo interesse nella parte in cui è ivi chiarito che rilevanza assumono le presunzioni tributarie in ambito penale.
Difatti, in tale pronuncia, si afferma, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa.
Pertanto, ove invece il giudice di merito consideri siffatte presunzioni al rango di fonti di prova, ben si potrà censurare un provvedimento di questo genere nei modi e nelle forme previste dal codice di procedura penale.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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