Ambito della responsabilità penale del chirurgo estetico
Non è revocabile in dubbio la legittimità dell’intervento medico-chirurgico su di un soggetto al fine di lenirne le sofferenze pico-fisiche connesse al suo aspetto esteriore.
Sul punto la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 25 novembre 1994, n. 10014, ha infatti affermato che “la funzione tipica dell’arte medica, individuata nella cura del paziente […] non esclude la legittimità della chirurgia estetica, che, a prescindere dalle turbe psicologiche che potrebbero derivare da una dilatata considerazione degli aspetti sgradevoli del proprio corpo, tende a migliorarne esclusivamente l’estetica”.
La chirurgia estetica comporta così l’instaurazione di una relazione terapeutica tra medico e paziente, il cui carattere fiduciario è particolarmente rilevante. Tale relazione costituisce la fonte della posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente ai sensi dell’art. 40 c.p.: il medico assume l’obbligo di tutelare la vita e la salute della persona, nei termini in cui lo impone la nostra Costituzione.
Vale però delimitare i confini della responsabilità penale del chirurgo estetico. A tal fine, la Corte di Cassazione suole distinguere tra “malattia” e “inestetismi”.
Si intende per “malattia” qualsiasi processo patologico acuto o cronico idoneo a determinare un’apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo fisico o psichico. Vi rientrano anche i disturbi psichici di tipo ansioso- depressivo che possono derivare da un intervento chirurgico mal riuscito. Lo stato di malattia causato colposamente o dolosamente dall’intervento del chirurgo estetico potrà integrare il delitto di lesioni.
Non ha invece rilevanza penale la causazione di meri “inestetismi”, salvo che non incidano in modo apprezzabile sullo stato psicologico- emotivo del paziente. Nello specifico, risulteranno quali meri “inestetismi” le alterazioni anatomiche che non comportano un’apprezzabile riduzione della funzionalità organismo fisico o psichico.
Tuttavia, resterà ferma l’eventuale responsabilità risarcitoria, da valutare in sede civile. Occorre precisare, però, che il risultato estetico e il correlato danno non patrimoniale andranno rapportati all’età e alla pregressa condizione estetica del paziente.
A titolo esemplificativo, è capitato che la Corte di cassazione (Cass. pen., sez. IV, 16 ottobre 2012, n. 47265) abbia ritenuto mero inestetismo l’asimmetria del seno determinatasi in seguito all’inserimento di protesi da parte del chirurgo estetico, mentre ha qualificato come malattia le conseguenti tumefazione in zona epigastrica e l’abbassamento del valore emoglobulare. Tuttavia, in quella stessa occasione la Suprema Corte non ha escluso che in simili casi possa ingenerarsi, a causa della grave frustrazione da delusione e del peggioramento estetico difficilmente rimediabile, un disturbo psichico di tipo ansioso depressivo, idoneo a costituire vero e proprio stato morboso di malattia, deve essere oggetto di prova.
Si segnala, al contempo, che la giurisprudenza di merito e quella di legittimità hanno spesso qualificato la prestazione del chirurgo estetico come un’obbligazione di “risultato”, così assoggettandola a più rigide regole rispetto a quelle genericamente valevoli per il medico comune la cui prestazione, invece, è più spesso qualificata come obbligazione di “mezzo” (salvo che si tratti di interventi meramente routinari).
D’altra parte, la qualificazione come “obbligazione di risultato” va operata di volta in volta, tenendo conto sia della situazione pregressa del paziente, sia del progresso scientifico delle tecniche operatorie a disposizione del chirurgo estetico al momento dell’intervento.
Ad ogni modo, assume importanza fondamentale la relazione informativa del chirurgo estetico, finalizzata ad acquisire il consenso “informato” del paziente circa gli esiti dell’intervento chirurgico ed i possibili rischi ad esso connessi. Tanto più esaustiva sarà l’informazione trasferita dal chirurgo estetico al paziente, quanto meno probabile sarà ipotizzare a suo carico dei comportamenti penalmente rilevanti nel caso in cui l’intervento chirurgico non dovesse conseguire pienamente il risultato richiesto.
In particolare l’elemento soggettivo
Per lungo tempo, la dottrina penalistica si è disinteressata dell’opportunità di distinguere tra le diverse nozioni di imperizia, negligenza ed imprudenza.
L’esigenza definitoria – già affermata da parte della giurisprudenza nel vigore della Legge Balduzzi – viene alla ribalta con la Legge “Gelli-Bianco” e l’introduzione all’art. 590-sexies, secondo comma c.p. di una causa di esclusione della punibilità applicabile solo in relazione a profili di imperizia.
Oggi vale, allora, soffermarsi l’attenzione si caratteri di ciascun profilo di colpa addebitabile al chirurgo estetico.
Per la manualistica tradizionale, può parlarsi di imprudenza quando il medico agisce con avventatezza, con eccessiva precipitazione, con ingiustificata fretta, senza adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o da precise regole dettate dalla scienza medica.
Diversamente, il chirurgo estetico agisce con negligenza quando, per disattenzione o per superficialità, non rispetta quelle norme comuni di diligenza che è legittimo attendersi da una persona abilitata all’esercizio della professione medica, in quanto sono osservate dalla generalità dei medici.
Dunque, mentre l’imprudenza consiste in una condotta attiva, contraria alle regole fondamentali che la comune esperienza consiglia per tutelare la salute del paziente, mentre la negligenza consiste in una condotta omissiva, nel senso che non viene fatto ciò che la scienza medica consiglia di fare nel caso concreto.
L’imperizia ricorre quando la condotta del medico è incompatibile con quel livello minimo di cognizione tecnica, di cultura, di esperienza e di capacità professionale, che costituiscono il presupposto necessario per l’esercizio della professione medica (in tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 1987).
Per vero, non è mancato chi ha osservato che l’imperizia altro non sarebbe se non la versione “tecnica” della negligenza e della imprudenza, anziché un vero e proprio tertium genus della colpa penale.
Ciò porterebbe però a svuotare di significato la disposizione prevista dall’art. 590-sexies, secondo comma c.p. che riferisce la causa di non punibilità alla sola ipotesi in cui “l’evento si sia verificato a causa di imperizia”.
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