Dall’economia di baratto a quella monetaria
Superata l’economia di baratto (basata sullo scambio tra beni equivalenti) a favore dell’economia monetaria, vari sono gli “strumenti” che si adottano in economia: il metodo deduttivo (basato su postulati generali) e quello induttivo (osservativo-casistico), l’analisi positiva e quella normativa (valutativa) e, dunque, la statistica descrittiva e quella inferenziale ed i modelli (grafico/matematici).
L’economia, peraltro ripartita tra dimensione privata e pubblica, risulta, dunque, strettamente collegata alla statistica, alla scienza delle finanze ed al diritto.
Si ritiene che la scienza economica sia divenuta una disciplina autonoma tra il XVI ed il XVII secolo: essa, pertanto, ha seguito una certa evoluzione data dallo sviluppo e dal susseguirsi di varie dottrine tra cui il mercantilismo, la fisiocrazia, la scuola classica, il socialismo utopistico e scientifico, la scuola storica, il marginalismo ed i neoclassici, la teoria Keynesiana, i monetaristi, la nuova macroeconomia classica e l’economia dell’offerta.
Sul punto, è da sottolineare che l’evoluzione scientifica delle teorie economiche ha, in qualche modo, costituito causa e/o effetto dei mutamenti delle dottrine socio-politiche e dell’impostazione giuridica dei singoli territori, particolarmente in riferimento ai principi di sovranità, solidarietà, eguaglianza, legalità, imprenditorialità, progressività, statalità, autonomia e sussidiarietà.
“Minimo” comune “denominatore”, per ciascuno di tali principi e nelle reciproche interrelazioni, è il ruolo politico micro e macro, ergo pubblico, svolto dallo Stato e, dunque, la funzione che esso, concretamente, svolge o è chiamato ad esercitare.
Sussiste, dunque, una stretta relazione tra mutamenti antropologici, culturali, sociali, giuridici e circuito economico. A riguardo, va detto che per “circuito economico” può intendersi l’insieme delle relazioni intercorrenti tra i soggetti economici ovvero tra coloro che partecipano alla produzione e/o allo scambio di beni e/o servizi: è, in sostanza, il processo di circolazione della ricchezza posto in essere dai o tra i soggetti economici.
La funzione dello Stato
Vexata quaestio è individuare quale sia il modello economico ovvero l’impostazione politico-sociale-economica preferibile e, cioè, quali debbano essere, in economia, i concreti “rapporti di forza” tra ruolo/funzione dello Stato e dei privati: sul punto, bisogna, quindi, valutare quale debba essere il criterio-guida e, cioè, l’interesse generale, collettivo e/o privato e, dunque, quali possano essere le attività economiche più importanti per il funzionamento del circuito economico e/o le azioni che lo Stato e/o ciascun privato debba porre in essere.
Nel sistema delineato dai mercantilisti, l’economia prevede l’intervento dello Stato il cui ruolo è incentivare lo sviluppo delle industrie nazionali e costituire un’importante flotta mercantile: trattasi, cioè, di un modello “protezionista” ed “espansionista” ovvero che identifica la “forza” dello Stato nel commercio extranazionale e che, pertanto, spinge alle esportazioni, proteggendo il mercato interno mediante i dazi doganali. Si ritiene, infatti, che la risorsa primaria della nazione sia esclusivamente la quantità di oro e metalli preziosi detenuti ovvero prodotti nello Stato.
Esattamente agli antipodi, invece, il modello economico teorizzato, in Francia nel corso del XVIII secolo, dai fisiocratici: essi, infatti, ritenevano essenziale tutelare la natura e le sue risorse perché, peraltro, ciò consentiva di giungere alla produzione, magari conciliando quantità e qualità. L’unico settore produttivo e più conveniente è l’agricoltura ed il circuito economico, secondo F. Quesnay, è composto da tre classi sociali e, cioè, i proprietari terrieri, gli imprenditori ed i lavoratori e la classe sterile (commercianti, artigiani etc.): l’unica forma possibile di imposizione fiscale è l’imposta sulla terra e va favorito il liberismo, senza cioè richiedere o prevedere l’intervento dello Stato nell’economia.
Anche nel modello formulato dai Classici tra la fine del XVIII secolo e la metà del XIX secolo e dunque in epoca di capitalismo industriale, lo Stato non deve intervenire nell’economia: ciò in quanto il mercato è in grado di auto-regolarsi grazie ad una “mano invisibile” (A. Smith) rappresentata dall’accumulazione del capitale e dalla divisione del lavoro: in altri termini, l’offerta crea (sempre) la propria domanda (legge di Say) ed il sistema economico tende automaticamente al pieno impiego dei fattori produttivi. Peraltro, è, con Smith, che si inizia a distinguere tra valore d’uso e valore di scambio di un bene nonché a parlare del valore-lavoro: a riguardo, però, Ricardo collega il prezzo del bene non soltanto al valore-lavoro ma anche ad una quota di profitti e rendite. Il circuito economico, secondo Ricardo, è composto da tre classi sociali ma, a differenza di quello enunciato da Quesnay, è formato da redditieri, imprenditori e lavoratori, senza quindi la classe sterile. La suddivisione del circuito economico in classi lascia intendere, inoltre, che ciascun soggetto (homo economicus) è portatore di interessi economici personali: ciò non è, secondo J. S. Mill, di ostacolo all’interesse collettivo ed, anzi, converge al massimo benessere per tutti. Un limite all’economia, ravvisato da T. Malthus, è, però, quello della “trappola demografica” e, cioè, del rapporto asimmetrico tra progressione geometrica (superiore) della popolazione e progressione aritmetica (proporzionalmente inferiore) della produzione alimentare.
L’industrializzazione
Proprio la crescente industrializzazione, oltre all’affermazione del capitalismo, portò alla luce, sempre più, il proletariato, il c.d. “Quarto Stato”, ovvero la classe operaia: è, in tale contesto, che emerge il pensiero socialista per differenziazione dal movimento democratico di cui il primo condivideva il principio dell’uguaglianza la quale, però, doveva essere non soltanto politica ma anche economica. In ambito economico, possiamo distinguere tra socialismo utopistico (C. H. de Saint-Simon, C. Fourier, E. Cabet, A. Blanqui, L. Blanc e P. J. Proudhon) e socialismo scientifico-storico (K. Marx). In particolare, se per Proudhon “la proprietà è un furto”, per Marx l’idea-cardine è il valore-lavoro e, dunque, il plus-valore ovvero quel profitto eccedente non ricompreso nel salario dell’operaio (sfruttato) e di cui, invece, si arricchisce l’imprenditore: tale sottrazione, all’operaio, del plusvalore creato si ritorce, peraltro, sullo stesso imprenditore perché si determina una forte riduzione dei consumi, una crisi da sovrapproduzione e, dunque, la caduta tendenziale del saggio di profitto. Inoltre, sempre secondo Marx, è necessario abolire la proprietà privata, anche per evitare la distinzione in classi sociali, e formare uno Stato di operai.
Secondo la Scuola storica (tra cui G. Schmoller), in primo piano tra il 1843 ed il 1883 nei Paesi germanofoni, premesso che le condizioni economiche mutano e si sviluppano costantemente, bisogna, onde identificare meglio le realtà economiche ed i relativi principi, basarsi sulle tecniche di indagine storica e focalizzare sui metodi: non si può, in sostanza, dare valenza universale a teorie economiche dedotte dallo sviluppo di pochi postulati.
Si giunge, così, ai marginalisti (K. Menger, W. S. Jevons, L. Walras) ed ai Neo-Classici (A. Mashall): i primi teorizzano l’utilità marginale e decrescente per cui il consumatore spende l’ultima frazione di reddito per un bene che gli assicuri la medesima soddisfazione che avrebbe se acquistasse un altro bene, considerando però che ad una maggiore disponibilità di un bene seguirà una minore soddisfazione: i secondi, quindi, premesso l’individualismo economico, considerano fondamentale la razionalità del consumatore nelle scelte e, dunque, le sue necessità, opportunità e/o preferenze, tenendo presente inoltre la legge dell’offerta (e della produttività marginale) e cioè che le imprese incrementeranno la produzione soltanto se, a parità di condizioni, aumenterà il prezzo di mercato. Utilità e costo di produzione, quindi, permettono l’ottima allocazione delle risorse (c.d. “ottimo” paretiano).
Dopo la crisi dell’economia statunitense del 1929 e con il “new deal” (1933-1938) di F. Roosevelt, si ritorna, con J. M. Keynes, a teorizzare la necessità dell’intervento dello Stato nell’economia, per combattere la nuova disoccupazione e le forme di povertà, mediante la costruzione di opere pubbliche, onde quindi stimolare la domanda (aggregata) dei beni di consumo e gli investimenti dei privati.
Del c.d. “mercato reale” parlano i post-keynesiani (tra cui, J. Hicks, D. Patinkin, H. Hansen, P. Davidson, L. Pasinetti, P. Garegnani).
In coincidenza della crisi petrolifera del 1973, emerge, però, il pensiero dei monetaristi (M. Friedman): l’inflazione è sempre un fenomeno monetario e, pertanto, bisogna controllare, in modo pubblicistico, l’offerta di moneta.
Nel pensiero della nuova macroeconomia classica (tra cui, R. Lucas, T. Sargent e P. Minford), gli aspetti su cui focalizzare l’attenzione, ai fini del corretto (e sano) funzionamento del circuito economico, sono la flessibilità dei salari e dei prezzi e le aspettative razionali degli operatori economici: entrambi tali elementi sono influenzati dalla credibilità delle politiche adottate dalle Autorità.
Infine, con la “supply side economics” o economia dell’offerta (teorizzata da M. Feldstein, M. Boskin, A. Laffer e R. Mundell), quella fondante l’azione del Presidente U.S.A. R. Reagan, la riduzione delle imposte è ritenuta la misura (di politica) economica più idonea a condurre ad un rapido aumento del tasso di crescita del reddito nonché delle stesse entrate fiscali, determinando la piena occupazione e la crescita globale del sistema economico.
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