Nel sistema delineato dal Codice della strada, la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse è soggetta in ogni caso ad autorizzazione da parte dell’Ente proprietario e ciò perché normativamente – e quale dato di comune esperienza – i cartelli lungo le strade o in vista di esse sono giudicati idonei ad “ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero (…) rendere difficile la comprensione e ridurre la visibilità o l’efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarre l’attenzione, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione” (art.23, comma 1, D.Lgs. 285/1992). Questo spiega anche l’attenzione e la cura con cui il Codice stesso e il suo Regolamento di attuazione, approvato con D.P.R. n°495 del 1992, disciplinano la materia imponendo non solo il regime vincolistico dell’autorizzazione (art.23, comma 4), ma anche prescrivendo nel dettaglio dimensioni, caratteristiche e ubicazione dei mezzi pubblicitari (art.23, comma 6, CDS; artt. 47-58 Reg. CDS).
Un’insegna di esercizio, un cartello o altro mezzo pubblicitario può quindi essere installato solo dopo avere ottenuto la prescritta autorizzazione da parte dell’Ente proprietario della strada e può essere mantenuto nei limiti – anche temporali – di cui all’autorizzazione medesima. In ogni caso, il concreto posizionamento del cartello o altro mezzo pubblicitario deve rispettare quanto prevede il Regolamento di attuazione del CDS circa divieti e distanze. L’accertamento delle violazioni (art.23, comma 11, CDS) viene fatto sia con riferimento al regime vincolistico (autorizzazione), sia con riferimento al posizionamento in concreto del mezzo pubblicitario (divieti e distanze previste dal Reg. CDS approvato con D.P.R. n.495/1992) e risponde al principio dell’integrale valutazione giuridica del fatto.
L’atto di collocare o far collocare o mantenere comunque in esercizio mezzi pubblicitari privi di autorizzazione e/o in posizione non conforme a quanto prescritto dalle norme sul posizionamento dei mezzi pubblicitari costituisce condotta idonea ad integrare l’illecito sanzionato dall’art.23, comma 11, CDS.
La disciplina contenuta nel Codice della Strada e nel suo regolamento di attuazione è chiarissima nel considerare mezzo pubblicitario ai fini dell’applicazione del CDS tutto ciò che contenga un messaggio percepibile dagli utenti della strada e che non sia riconducibile alla categoria dei segnali stradali.
E’ sufficiente fare riferimento al comma 8 dell’art.47 Reg. CDS quale vera e propria norma di chiusura del sistema: “Si definisce «impianto di pubblicità o propaganda» qualunque manufatto finalizzato alla pubblicità o alla propaganda sia di prodotti che di attività e non individuabile secondo definizioni precedenti, né come insegna di esercizio, né come preinsegna, né come cartello, né come striscione, locandina o stendardo, né come segno orizzontale reclamistico, né come impianto pubblicitario di servizio. Può essere luminoso sia per luce propria che per luce indiretta“.
E si deve considerare la norma di cui al comma 1 dell’art. 23, ai sensi del quale: “Lungo le strade o in vista di esse è vietato collocare insegne, cartelli, manifesti, impianti di pubblicità o propaganda, segni orizzontali reclamistici, sorgenti luminose, visibili dai veicoli transitanti sulle strade, che per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione possono ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l’efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l’attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione; in ogni caso, detti impianti non devono costituire ostacolo o, comunque, impedimento alla circolazione delle persone invalide. Sono, altresì, vietati i cartelli e gli altri mezzi pubblicitari rifrangenti, nonché le sorgenti e le pubblicità luminose che possono produrre abbagliamento. Sulle isole di traffico delle intersezioni canalizzate è vietata la posa di qualunque installazione diversa dalla prescritta segnaletica”. Appare evidente che qualunque manufatto contenente un messaggio funzionalmente diretto ad essere percepito dagli utenti della strada è tale da determinare potenzialmente quegli eventi che il comma 1 dell’art. 23 CDS intende scongiurare imponendo (con il successivo comma 4) il regime vincolistico dell’autorizzazione e sanzionando (con il comma 11) le collocazioni che ne siano prive (fattispecie autonoma di violazione amministrativa, che si distingue da quella relativa alle “collocazioni in contrasto”, che trova invece presupposto nel combinato disposto di cui ai commi 6 e 11 del medesimo art.23 CDS con riferimento al D.P.R. n.495/1992 che del comma 6 dell’art.23 CDS è l’attuazione).
Il titolo edilizio non ha nulla a che vedere con l’autorizzazione ex art.23 C.d.S. per la pubblicità lungo le strade, risultando due titoli distinti indirizzati ciascuno a rispondere a specifiche e diverse esigenze di interesse pubblico. Mentre l’autorizzazione edilizia concerne la conformità del manufatto alle regole che presiedono alle costruzioni in tutti i suoi vari aspetti (governo del territorio, vincoli, sicurezza strutturale, etc.) l’autorizzazione di cui all’art.23 C.d.S. riguarda la sicurezza stradale. Ben potrebbe verificarsi, quindi, che un manufatto sia conforme a tutte le regole che presiedono alle costruzioni edilizie, ma non sia conforme alle regole che presiedono alla sicurezza stradale. Ed analoghe considerazioni possono farsi in tema di pagamento al Comune della tassa di pubblicità perché l’eventuale pagamento della tassa di pubblicità di cui al D. Lgs. 507/1993 non esonera l’interessato dall’osservanza di tutte le altre normative, a cominciare proprio dall’art.23 C.d.S.. Anche qui diversi sono i presupposti, tanto è vero che l’obbligo del pagamento della tassa di pubblicità ricorre anche in presenza di un impianto pubblicitario abusivo e, viceversa, l’autorizzazione di cui all’art.23 C.d.S. non esonera il titolare dell’autorizzazione dal pagamento della tassa.
Costituisce condotta idonea ad integrare l’illecito sanzionato dall’art.23, comma 11, CDS sia la collocazione sia il mantenimento in esercizio di mezzi pubblicitari privi di autorizzazione (e/o in posizione non conforme a quanto prescritto dalle norme sul posizionamento dei mezzi pubblicitari). In effetti, l’illecito amministrativo ex art.23, comma 11, CDS si caratterizza per essere “permanente” e quindi rilevabile in qualunque momento: «(…) un’ipotesi di illecito amministrativo a “consumazione prolungata”, che si connota per la protrazione nel tempo della situazione antigiuridica in conseguenza di una corrispondente condotta continuativa del trasgressore, dalla cui volontà dipende la cessazione o il mantenimento dello stato di illiceità» (C. Cass., Sez. II, 28/12/2011, n°29355, in Giustizia Civile Massimario 2011, 12, 1877).
Ai sensi dell’art.3 L.689/1981 (e dell’art.194 CDS) «Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa». Si richiamano, al riguardo:
Corte di Cassazione, S.U., 6-10-1995, n.10508 – Il principio posto dall’art. 3 della l. 24 novembre 1981 n. 689, secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa. (Archivio Civile 1996, 47).
Corte di Cassazione, Sez. Lav., sent. n. 2642 del 08-03-2000 – In materia di requisiti dell’elemento soggettivo ai fini della responsabilità per violazioni assoggettate a sanzioni amministrative, la previsione dell’art. 3, primo comma, della legge n. 689 del 1981 – attribuente rilievo alla coscienza e volontà della azione o omissione, sia essa dolosa o colposa – postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso. La colpa, inoltre, deve ritenersi positivamente dimostrata, se la condotta rilevante ai fini della sanzione integra violazione di precise disposizioni normative. (Giustizia Civile Massimario 2000, 554).
Corte di Cassazione, Sez. II, sent. n. 5426 del 13-03-2006 – Il principio posto dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981 (secondo il quale, per le violazioni amministrativamente sanzionate, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa) postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa. (Giustizia Civile Massimario 2006, 7-8).
Delle violazioni amministrative si risponde, quindi, a titolo di dolo o a titolo di colpa e per la valutazione di quest’ultima, come è noto, l’agente modello va individuato nell’uomo giudizioso “eiusdem professionis et condicionis”, mentre per quanto riguarda la cosiddetta “buona fede” è richiesto:
– che sussistano elementi positivi tali da ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta (con onere della prova a carico di quest’ultimo) e…
– …che risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva. Si considerino:
Corte di Cassazione, Sez. II, Sent. n. 13610 del 11-06-2007 – In tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è necessaria e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa. Ne deriva che l’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla legge n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa – al pari di quanto avviene per la responsabilità penale, in materia di contravvenzioni – solo quando sussistano elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso. (Giustizia Civile Massimario 2007, 6).
Corte di Cassazione, Sez. V, sent. n. 23019 del 30-10-2009 – In tema di sanzioni amministrative, la buona fede rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa quando sussistono elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e quando l’autore medesimo abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva. L’onere della prova degli elementi positivi che riscontrano l’esistenza della buona fede è a carico dell’opponente e la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di fatto di stretta competenza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione. (Giustizia Civile Massimario 2009, 10, 1516).
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