Come provare i fatti in giudizio

Redazione 14/05/18
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Prolegomeni

L’art. 115 del codice di rito detta il principio cardine della «disponibilità delle prove», in virtù del quale le parti sono tenute a proporre al giudice gli elementi di prova sulle quali basare il proprio convincimento, «salvi i casi previsti dalla legge».
Se, come sottolineato dalla Suprema Corte, «spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie».
Quindi, incombe sulla parte che agisce in giudizio indicare e provare specificamente i fatti posti a base delle pretese avanzate, fermo restando che spetta al giudice la decisione sulla pertinenza dei mezzi proposti.
Come indicato dalla Suprema Corte, «in virtù del principio dispositivo delle prove, il mancato reperimento nel fascicolo di parte, al momento della decisione, di alcuni documenti ritualmente prodotti, deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi, di un atto volontario della parte stessa, che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti; ne consegue che è onere della parte dedurre quella incolpevole mancanza (ove ciò non risulti in maniera palese anche in assenza della parte e di una sua espressa segnalazione in tal senso) e che il giudice è tenuto ad ordinare la ricerca o disporre la ricostruzione della documentazione non rinvenuta solo ove risulti l’involontarietà della mancanza, dovendo, negli altri casi, decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione» (83).
Nei poteri del giudice in tema di disponibilità e valutazione delle prove rientra quello di fondare il proprio convincimento su accertamenti compiuti in altri giudizi fra le stesse o anche fra altre parti, quando i risultati siano acquisiti nel giudizio della cui cognizione egli è investito, potendo chi vi abbia interesse contestare quelle risultanze ovvero allegare prove contrarie.

Il principio espresso dall’art. 115 c.p.c. e l’onere di contestazione

Il primo comma dell’art. 115 c.p.c. dispone che «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita».
È sufficiente leggere il testo dell’articolo per rendersi conto del fatto che la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi per la controparte.
La non contestazione – comunque – deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in quest’ambito, «il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto».

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L’orientamento della Suprema Corte ancor prima della riforma dell’art. 115 c.p.c.

La Suprema Corte ha ricordato che «già molto tempo prima della riforma dell’art. 115 c.p.c. (ad opera della novella del 2009), che ha formalmente introdotto nel nostro ordinamento il principio di “non contestazione” (secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita), la Corte era pervenuta per via interpretativa all’affermazione di analogo principio: dapprima con riferimento al rito del lavoro». In effetti, da vari anni la regola era espressa dalla Cassazione. È stato rilevato che il principio, prima che fosse riformato l’art. 115 c.p.c., «veniva fondato sulla lettera dell’art. 167 c.p.c.; tale previsione infatti impone al convenuto di prendere posizione in comparsa di risposta sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda: e da tale regola si trasse la conseguenza che la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, costituisce di per sé adozione d’una condotta incompatibile con la negazione del fatto costitutivo della domanda, la cui prova diviene perciò inutile».
Tuttavia, la stessa Cassazione, in un provvedimento del marzo 2015, ha anche ritenuto che la norma dell’art. 115 c.p.c., nella formulazione attuale – a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 69/2009 (92) – risulta «applicabile ai giudizi iniziati in primo grado successivamente alla sua entrata in vigore (4 luglio 2009), ma non nel caso in esame in cui il giudizio è iniziato anteriormente». Nello stesso dictum si legge che «il sistema di preclusioni del processo civile tuttora vigente e di avanzamento nell’accertamento giudiziale dei fatti mediante il contraddittorio delle parti, se comporta per queste ultime l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione, presuppone che la parte che ha l’onere di allegare e provare i fatti anzitutto specifichi le relative circostanze in modo dettagliato e analitico, così che l’altra abbia il dovere di prendere posizione verso tali allegazioni puntuali e di contestarle ovvero di ammetterle, in mancanza di una risposta in ordine a ciascuna di esse». Paradossalmente, quindi, la Suprema Corte rinvia al proprio orientamento precedente all’entrata in vigore della novella del 2009, per offrire una lettura della norma attuale.

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