Come può essere dimostrata la destinazione della droga al fine di spaccio

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 192)

    Indice

  1. Il fatto 
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3.  Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 
  4. Conclusioni

1. Il fatto

Un imputato veniva tratto a giudizio, assieme ad un’altra persona, per rispondere del delitto di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73 co. 1 e 4 D.P.R. 9.10.1990 n.309, perché, in concorso tra loro, senza l’autorizzazione di cui all’art.17 e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75 stessa legge, illecitamente detenevano ad evidente fine di spaccio gr. 67,5 lordi di sostanza stupefacente del tipo marijuana, gr. 1,6 lordi di sostanza stupefacente del tipo hashish e gr. 6,6 lordi di sostanza stupefacente del tipo cocaina di cui alle tab. 1 e 4 previste dall’art.14 della legge medesima ed altresì materiale vario atto al confezionamento, nonché coltivavano n. 3 piante di marijuana del peso di grammi 125.

Ciò posto, il Tribunale di Roma, all’esito di giudizio abbreviato, qualificati i fatti ai sensi dell’art. 73 co. 5 dpr 309/90, applicata la diminuente del rito, condannava ambedue alla pena di anni 1 di reclusione ed euro 2000 di multa ciascuno mentre, sull’appello proposto da entrambi gli imputati, la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva il coimputato per non aver commesso il fatto da tutte le imputazioni e l’altro dalla coltivazione della marijuana perché il fatto non sussisteva e dalla detenzione di hashish perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, confermando nel resto la condanna per la marijuana e la cocaina, e, per l’effetto, riduceva la pena inflittagli a mesi 7 di reclusione ed euro 1200 di multa, concedendogli la sospensione condizionale della pena.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione uno degli imputati, deducendo i seguenti motivi: 1) carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità dell’imputato per violazione della legge sugli stupefacenti; 2) carenza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione all’imputato delle circostanze attenuanti generiche con conseguente diminuzione della sanzione irrogata.


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il Supremo Consesso riteneva i motivi proposti inammissibili per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito, a fronte del fatto che, secondo la Corte di legittimità, se il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili dinnanzi alla Cassazione, si era nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione, è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza della Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici visto che la mancanza di specificità del motivo va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 co. 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002), rilevandosi al contempo come, ancora di recente, sempre la Corte di legittimità abbia ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014).

Ciò posto, ad ogni modo, per gli Ermellini, i motivi in questione erano comunque manifestamente infondati in quanto tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova non consentita in sede di legittimità.

Difatti, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, la Corte territoriale, in aderenza alla pronuncia di prime cure, aveva adottato una motivazione dotata di ragionevole forza persuasiva e certamente non manifestamente illogica alla luce delle circostanze emerse dall’istruttoria dibattimentale (detenzione di un quantitativo rilevante di sostanza, di un bilancino di precisione, assenza di entrate sufficienti al sostentamento del nucleo familiare) che unitariamente considerate erano risultate tali da giustificare l’affermazione di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, tenuto conto altresì del fatto che le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

Chiarito ciò, per i giudici di legittimità ordinaria, il ricorso in questione, in concreto, non si era confrontato adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata che appariva essere, sempre per la Corte, logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.

In particolare, era notato come la sentenza impugnata avesse fatto buon governo della pluriennale giurisprudenza della Corte Suprema in materia di possesso di sostanze stupefacenti ad uso non esclusivamente personale.

A tal proposito si osservava come costituisca giurisprudenza costante e consolidata da decenni, nel solco della pronuncia delle Sez. Un. n. 4 del 28/5/1997, che, in materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, deve essere effettuata dal giudice di merito tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione (Sez. 4, n. 7191 del 11/01/2018; conf. Sez. 6, n. 44419 del 13/11/2008), così come è stato anche reiteratamente precisato che la destinazione della droga al fine di spaccio può essere dimostrata in base ad elementi oggettivi univoci e significativi, quali: il notevole quantitativo della droga, il rinvenimento dello strumentario che lo spacciatore tipicamente utilizzava per il confezionamento delle dosi e le modalità di detenzione della droga (così Sez. 4, n. 36755 del 4/6/2004, in un caso relativo a grammi 791,24 netti di hashish, contenenti mg. 34061 di principio attivo, utilizzabili per la preparazione di n. 1702 dosi, in parte nascosti nel cruscotto dell’autovettura, in parte addosso al soggetto, in parte a casa, in cui vi erano cartine e bilancino).

Quanto al quantitativo di stupefacente caduto in sequestro, la Corte di legittimità ha dunque costantemente affermato che, in tema di sostanze stupefacenti, il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto – e l’eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dall’art. 73-bis, comma primo, lett. a), del d.P.R. n. 309 del 1990 – non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo (che acquista maggiore rilevanza indiziaria al crescere del numero delle dosi ricavabili), le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione (cfr. ex multis, Sez. 3, n. 46610 del 9/10/2014) fermo restando però che il possesso di un quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dall’art. 73, co. 1 bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990 se da solo non costituisce prova decisiva dell’effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, può comunque legittimamente concorrere a fondare, unitamente ad altri elementi, tale conclusione (così Sez. 6, n. 11025 del 6/3/2013, fattispecie in cui la Corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto l’illiceità penale della detenzione dell’equivalente di 27,5 dosi di eroina anche in considerazione della accertata incapacità economica dell’imputato ai fini della costituzione di “scorte” per uso personale; conf.  Sez. 6, n. 9723 del 17/1/2013).

Conclusivamente sul punto, dunque, era ribadito che il considerevole numero di dosi ricavabili, ben può essere ritenuto un indizio della destinazione della droga ad un uso non esclusivamente personale (cfr. Sez. 3, n. 43496 del 2/10/2012) e, se come nel caso in esame, tale considerevole numero era accompagnato da altri elementi (il possesso del bilancino, la pluralità e diversità di sostanze detenute, la sproporzione tra le possibilità economiche dell’imputato ed una siffatta scorta), ciò costituiva, per la Cassazione, valida motivazione per escludere l’utilizzo dello stupefacente, in tutto o in parte, ad uso esclusivamente personale.

Terminata la disamina della prima doglianza, quanto al secondo motivo, gli Ermellini osservavano come anche la critica relativa all’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche risultasse essere manifestamente infondata, ritenendosi la motivazione nel provvedimento impugnato logica, coerente e corretta in punto di diritto anche sul punto.

In particolare, i giudici di legittimità ritenevano corretto l’operato dei giudici del gravame del merito avendo costoro dato conto del loro diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche valutando, negativamente per l’odierno ricorrente, la mancanza di elementi positivi valutabili ai fini del riconoscimento delle stesse.

Il provvedimento impugnato, pertanto, per il Supremo Consesso, così strutturato, appariva collocarsi nell’alveo del costante dictum della Corte di legittimità che ha più volte chiarito che, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell’imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale).

In caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell’articolo 62bis c.p. operata con il d.l. 23.5.2008 n. 2002 convertito con modif. dalla l. 24.7.2008n. 125 che ha sancito essere l’incensuratezza dell’imputato non più idonea da sola a giustificarne la concessione, si ribadiva quindi come sia assolutamente sufficiente, come avvenuto nella fattispecie in esame, che il giudice si limiti a dare conto in motivazione di avere ritenuto l’assenza di elementi o circostanze positive a tale fine, tanto più se si considera che, in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, dì giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. 

Al contrario, secondo una giurisprudenza univoca della Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (così, ex plurimis, Sez. 1, n. 29679 del 13/6/2011; Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992; Sez. 1 n. 12496 del 21/9/1999; Sez. 6, n. 13048 del 20/6/2000,).

Da ciò la Cassazione giungeva ad escludere che possa ritenersi sussistente l’incompatibilità tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la concessione della sospensione condizionale della pena, o viceversa avendo i due istituti diversi presupposti e finalità, in quanto il riconoscimento delle prime risponde alla logica di un’adeguata commisurazione della pena, mentre la concessione della seconda sì fonda su un giudizio prognostico strutturalmente diverso da quello posto a fondamento delle attenuanti generiche (cfr. da ultimo Sez. 4, n. 27107 del 15/09/2020).

4. Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto, attraverso il richiamo a plurimi precedenti conformi, si chiarisce come può essere dimostrata la destinazione della droga al fine di spaccio.

Difatti, dopo essere affermato che la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, deve essere effettuata dal giudice di merito tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione, si asserisce in tale pronuncia che la destinazione della droga al fine di spaccio può essere dimostrata in base ad elementi oggettivi univoci e significativi, quali: il notevole quantitativo della droga, il rinvenimento dello strumentario che lo spacciatore tipicamente utilizzava per il confezionamento delle dosi e le modalità di detenzione della droga. Ad ogni modo, come si evince sempre in questo provvedimento, in tale contesto probatorio, il possesso di un quantitativo di droga superiore al limite tabellare, se da solo non costituisce prova decisiva dell’effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, può comunque legittimamente concorrere a fondare, unitamente ad altri elementi quali possono essere, oltre il bilancino di precisione, anche la pluralità e diversità di sostanze detenute ovvero la sproporzione tra le possibilità economiche dell’imputato ed una siffatta scorta.

Tale sentenza, proprio perché il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico, basato su solidi basi giurisprudenziali, ben può essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba stabilire quando il possesso di sostanze stupefacenti sia destinato ad uso non esclusivamente personale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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