Cassazione Penale, sez. VI, 6 Maggio 2010, n. 17222: “La facoltà di chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non compresi nella propria lista è attribuita dal quarto comma dell’art. 468 c.p.p. a ciascuna parte con funzione integrativa della lista già presentata, in relazione alle circostanze indicate nelle altre liste.
Tale facoltà non può pertanto essere esercitata dalla parte che non ha presentato tempestivamente la propria lista testimoniale, la cui richiesta di prova è divenuta conseguentemente inammissibile (Cass. Pen., sez. IV, 10 aprile 1995, n. 8033, ric. Vincenti), salva la possibilità del giudice di procedere d’ufficio all’ammissione dei testi, periti o consulenti tecnici indicati nella lista stessa nell’esercizio del potere attribuitogli dall’art. 507 c.p.p., nei limiti in cui ne ritenga l’assunzione assolutamente necessaria”.
Sulla scorta di quanto prescritto dall’art. 468, I co., c.p.p., le parti processuali che intendano chiedere l’esame di testimoni, periti, consulenti tecnici ed imputati connessi o collegati, dovranno depositare in cancelleria (almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento) la rituale lista, corredata, altresì, dell’indicazione delle circostanze sulle quali l’esame testimoniale dovrà vertere.
A ben guardare, attraverso siffatta rigorosa previsione, il Codice ha formalizzato e configurato un vero e proprio “onere” di rivelare in anteprima quei mezzi di prova dichiarativa che la parte abbia intenzione di assumere, nel corso della fase dibattimentale, a titolo di prova principale. Laddove, infatti, la parte si sottragga a tale, tempestiva, incombenza scatterà, in automatico, la sanzione dell’inammissibilità che andrà, inevitabilmente, a colpire la richiesta (tardiva) di ammissione della prova; il che, com’è chiaro, inibirà a monte al Giudice di vagliarne appieno l’oggetto, potendosi, egli pronunciare soltanto circa l’ammissibilità o meno della domanda che lo enuclea e sussume.
Quid pluris, il mentovato, in apertura, termine di sette giorni è da qualificarsi quale termine dilatorio e perentorio: dilatorio perché termine libero (dacché non si computano né la data di deposito della richiesta, né quella di celebrazione della “prima” udienza dibattimentale), perentorio poiché, ove decorra inutiliter, non sarà più consentito –come precisato- alla parte l’esercizio del diritto alla presentazione della lista. Del resto, l’osservanza del ricordato termine ed, in genere, l’osservanza dei termini processuali che costituiscono un essenziale tassello nel componimento dell’articolato puzzle che è il processo penale, contribuiscono a vestire di diligenza il modus agendi della parte che vi adempie correttamente.
Da queste puntualizzazioni, è agevole, dunque, desumere quale sia la ratio che ha ispirato il Legislatore nella redazione della fattispecie normativa in commento e quale sia, conseguentemente, il leit motiv che ispira il nostro sistema processual-penalistico: la funzione della lista è, cioè, quella di permettere la c.d. discovery, ovverosia assicurare alle parti, diverse da quella richiedente, l’ammissione della prova, la conoscenza della stessa, onde evitare l’emersione, nella fase del giudizio, di “prove a sorpresa”. Questo perché, effettivamente, ciascuna delle parti ha diritto a prendere visione, in cancelleria, delle liste depositate dalle controparti di talché possa, per tempo, rappresentarsi le ulteriori richieste di prova che queste formuleranno nel contesto delle richieste introduttive (art. 493 c.p.p.) .
Tanto premesso, a bilanciamento e completamento della disposizione di cui al I co. dell’art. 468 c.p.p., il susseguente co. IV prevede, in capo sempre a ciascuna parte, la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non compresi nella propria lista. La funzione è di tipo evidentemente integrativo -con riguardo alle circostanze indicate nelle altre liste- della lista già tempestivamente presentata. Tale facoltà “suppletiva” (almeno da un punto di vista, per così dire, “cronologico”) è posta in coerenza con l’impianto logico-sistematico che anima la disposizione del I co. dell’art 468.
Essa, infatti, non potrà essere esercitata dalla parte che non ha presentato tempestivamente la propria lista testimoniale con l’inevitabile conseguenza che la richiesta, così formulata, sarà raggiunta dalla nota sanzione dell’inammissibilità (Cass. Pen, sez. IV, 10 Aprile 1995 n. 8033).
Al Giudice, tuttavia, rimarrà salva la possibilità di procedere d’ufficio all’ammissione dei testi, periti o consulenti tecnici (indicati nella lista espunta) nell’esercizio del potere attribuitogli ex art. 507 del Codice di rito, nonché nei limiti in cui ritenga tale assunzione necessaria ed imprescindibile.
Ai sensi dell’art. 507, infatti, il Giudice potrà esercitare il potere de quo una volta “terminata l’acquisizione delle prove”, id est: dopo che si siano conclusi i c.d. casi dell’accusa e della difesa; dopo, cioè, che egli avrà chiaro e disponibile il quadro degli elementi probatori cui dovrà far forzato riferimento nell’elaborazione della sentenza.
Questa situazione può essere ravvisata, ad esempio, nell’incertezza derivante da un’istruzione dibattimentale non esauriente a causa di temi di prova non sufficientemente sondati: l’ammissione ex officio di nuovi mezzi di prova è espressione, dunque, di un potere giudiziale autonomo, che si svincola e prescinde dai limitati confini imposti dalle liste testimoniali. E l’operatività di una deroga di tal genere è ancorata alla ricorrenza del parametro, in base al quale il Giudice agirà di conseguenza e deciderà, dell’ “assoluta necessità” (così il testo normativo) delle prove da assumere ai fini dell’accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato.
Quanto esposto è stato ribadito dalle Sezioni Unite Penali “Greco” nella pronuncia del 2006 (18 Dicembre, n. 41281): si trattava di un’ipotesi in cui il Giudice era chiamato a supplire all’inerzia del P.M. nella presentazione delle liste testimoniali. Il supremo Collegio, nella sua composizione più autorevole, ha affermato, per un verso, che lo scopo dell’art. 507 è quello di consentire al Giudice, che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, di ammettere le prove che gli consentano un giudizio più meditato e aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire. La norma, in sostanza, ad avviso della Corte, mirerebbe soltanto a salvaguardare la completezza dell’accertamento sul presupposto che, se le informazioni probatorie messe a disposizione dell’Organo decidente sono più ampie, complete ed esaustive, è ragionevolmente più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri sovrapponibile ai fatti. Per altro verso, le SS. UU. hanno puntualizzato che l’obiezione spesso avanzata, per la quale l’acquisizione ex officio delle prove scalfirebbe la terzietà del Giudice, è null’altro che un equivoco. Gli Ermellini si chiedono, infatti, perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un Giudice scrupoloso che intenda adempiere al proprio dovere a ragion veduta (e non con un insufficiente materiale conoscitivo) nella piena coscienza e consapevolezza che è possibile colmare almeno una parte dei gaps esistenti.
Un potere del genere (da esercitare, lo si ribadisce, solo in caso di assoluta necessità) vale a fondare un processo che sia veramente “giusto” ai sensi dell’art. 111 Cost. .
Peraltro, il potere integrativo del Giudice non nuoce alla difesa, né mina il principio di parità tra le parti per due ragioni. In primis, perché tale potere è conferito in via “estensiva”: con riferimento, cioè, tanto alle lacune dell’accusa, quanto con riguardo alle “passività” della difesa. In secondo luogo, perché s’insinua in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale che impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del P.M. ed, a fortiori, di monitoraggio delle sue carenze od omissioni.
Impiantati questi paletti, risulterà ancora più agevole sovvertire l’assunto secondo cui l’imparzialità del Giudice verrebbe ad affievolirsi qualora egli si facesse portatore di un’iniziativa probatoria d’ufficio. La prova decisiva, “necessaria”, sarà ammessa nei limiti in cui essa tenda alla predisposizione di un accertamento che sia, per quanto possibile, il più completo. E’ ovvio che, in un quadro logistico così ricostruito, il Giudice che proceda ex art. 507 c.p.p. –nei limiti di movimento prescritti dalla stessa norma, nonché coerentemente con il principio di separazione delle funzioni giudiziarie- non potrà che essere un Giudice imparziale (purché non voglia ricercare le prove per fondare una propria, diversa, ipotesi di accusa: in tal caso, indubbia dovrebbe essere l’irrogazione di una sanzione disciplinare ad hoc).
Riassumendo, pertanto: se si permane nei limiti della corretta interpretazione dell’art. 507 c.p.p., il nostro processo penale rimarrà ben incanalato nei binari del sistema accusatorio, sebbene nella sua versione c.d. temperata. Un processo penale questo, ancora, che vede quale dominus indiscusso il Giudice che, nell’intento di plasmare e formalizzare una verità processuale che sia il più possibile aderente a quella materiale, dovrà usufruire di tutto il materiale cognitivo messo a propria disposizione. E, laddove carente, procedere ad una sua integrazione officiosa, atta ad evitare apprezzamenti discrezionali ed arrecanti un significativo vulnus alla regola di giudizio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.), parametro che, più di ogni altro, dovrebbe guidare l’Autorità decidente nella ricostruzione dei fatti e nell’affermazione di responsabilità penale del reo.
Giurisprudenza di legittimità e bibliografia di riferimento
GIURISPRUDENZA:
– Cassazione Penale, sez. IV, 10 Aprile 1995, n. 8033;
– Cassazione Penale, SS. UU., 18 Dicembre 2006, n. 41281;
– Cassazione Penale, sez. VI, 6 Maggio 2010, n. 17222.
BIBLIOGRAFIA:
– Tonini P., Manuale di Procedura Penale, Giuffré Edit., Milano 2008, pagg. 549-551; 568-572; 582-583.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento